Ricordare per resistere
Da Claudio Pavone in avanti, che ha posto come sottotitolo al suo capitale lavoro Saggio storico sulla moralità della Resistenza, il tema della scelta è divenuto centrale nella riflessione storica e letteraria sulla Guerra di Liberazione. Così Antonella Tarpino colloca a chiave di un titolo più accattivante (Liberi e ribelli, Einaudi 2025) L'antifascismo come scelta esistenziale. Il saggio è appunto una vera e propria anatomia della scelta di coloro che “centro morale di un’Italia nuova «interiormente», capace di assumersi in un soprassalto della coscienza, anche se talvolta in modo confuso, ogni responsabilità”. Le sue premesse, strettamente interconnesse, “la libertà di non obbedire a un potere disumano e illegittimo” e lo stato di eccezione conseguente a quell'8 settembre in cui alla catastrofe bellica voluta dal fascismo seguiva la fuga del re e lo sconcertante proclama di Badoglio. “Era come se una volta ritratta dallo Stato che aveva fallito, la morale cercasse nella Scelta la strada per riqualificare la propria dimensione pubblica. Così che finiva per inverarsi nell'etica.” Le parole di Giorgio Bocca in Partigiani della montagna focalizzano icasticamente il sentimento di un giovane cresciuto nelle costrittive e preordinate certezze del Regime, destinato a un lavoro e a un matrimonio prevedibili: “E invece, d'improvviso, in un giorno del settembre del '43, si ritrova totalmente libero, senza re, senza duce, libero e ribelle, con tutta la grande montagna come rifugio.” L'individuo, solo con la sua coscienza, viene precipitato nel “Vuoto, nel crollo di ogni istituzione, tale da portare con sé un sentimento di vergogna, da alimentare la reazione di rifiuto dello stato presente (e passato) delle cose.” Desolazione e apertura esemplificate dal paesaggio che il protagonista di Primavera di bellezza attraversa lasciando la caserma verso il ritorno; o dal disfarsi delle cose raccontato in Malaparte (con un accostamento da parte dell'autrice che avrebbe probabilmente fatto rabbrividire Fenoglio).
Le modalità della scelta prevedono un'altra premessa: la memoria. Decidere infatti può essere un processo lungo e tormentato che ha dietro di sé il Ventennio con le sue promesse incantatorie, l'indottrinamento e la quotidianità in cui adagiarsi, bruscamente scosse dalla guerra voluta e disastrosamente condotta (“un rivivere sotto il segno di una drammatica negatività, l'alveo stesso e le retoriche, ora inconfessabili, in cui si era maturati.”). E a volte una memoria, marginale ma tenace, tenuta viva in ambito scolastico da professori antifascisti come ben sottolineato dall'autrice, o dai racconti familiari, spesso in ambito proletario (questi invece non toccati). Su questo sostrato, già terremotato dall'evento comune dell'armistizio, s'innesta poi un innesco personale e contingente, quale i meschini comportamenti registrati da Roberto Battaglia, gli intollerabili episodi di sopraffazione e di violenza che fanno dire al maturo Pietro Chiodi: “Non potevo vivere accettando qualcosa di simile. Non sarei più stato degno di vivere”. Fatti che più facilmente si squadernano di fronte a coloro che si trovano sotto le armi, come Angelo Del Boca che, nelle sue memorie, intitolate proprio La scelta, arriva al “salto” attraverso una serie di passaggi successivi e vieppiù scioccanti. O Nuto Revelli che, cadetto dell'Accademia militare, “troppo tardi”, ovvero dopo la catastrofica campagna di Russia, in mezzo ai cadaveri congelati dei suoi alpini, prende inflessibilmente le distanze dal fascismo, dalla corona e dal regio esercito: “In guerra toccherò la verità.”

Il secondo fulcro del saggio riguarda la conservazione della memoria. In primo luogo da parte di una generazione che si volle sempre mobilitata; saranno allora la propria autobiografia e le lettere dei condannati a morte per Giovanni Pirelli, o la rielaborazione letteraria da parte di molti scrittori che appena dopo la guerra si sentivano “carichi di storie da raccontare”, come scrive Italo Calvino, a un pubblico che ugualmente aveva vissuto “vite irregolari drammatiche avventurose”. Qui l'autrice in forma affabile di riassunti narrativi, tra letteratura e cinema, segue il suo tema in relazione ai mutamenti dell'Italia. Ed ecco le riflessioni di Kim in Il sentiero dei nidi di ragno sulle differenti motivazioni di adesione al partigianato a seconda delle classi sociali, e l'opposta visione di Corrado in La casa in collina, che non sceglie per non farsi carico della morte possibile e pure presumibilmente, come il suo creatore Pavese, porterà con sé “quell'atto mancato come una colpa, o meglio come un senso di incompiutezza”. Tra questi due poli, forse più adatto a segnalare un rapido e diffuso ritorno alla zona grigia degli anni Cinquanta, democristiani dentro alla Guerra fredda, “l'incipiente bisogno di lasciarsi alle spalle quella frattura in nome di un'ambivalente pacificazione” rappresentato dal poco conosciuto Nessuno ha tradito (1952) di Roberto Montero sulla divisione di due amici, uno repubblichino e uno partigiano, poi ricomposta dalle indagini postume di una ex-fidanzata. Oppure dal più noto Tutti a casa (1960) di Comencini, in cui il tenente Innocenzi, impersonato da Sordi, arriva alla fine quasi obtorto collo e senza vera coscienza, a prendere posizione dopo una serie di tragiche avventure.
Siamo alle soglie della svolta politica del centrosinistra, con la memoria resistenziale che esca dall'angolo, facendosi maggiormente patrimonio comune, in attesa dei cambiamenti ulteriori impressi dai movimenti giovanili, allorché il cinema si apre a nuove sperimentazioni. Così L'Agnese va a morire di Montaldo del 1966 rilegge la figura della vecchia lavandaia, che sceglie il partigianato per istinto e vendetta, conferendole più consapevolezza, sicurezza di sé e soddisfazione per le responsabilità; Ingrid Thulin, che le presta il volto, dopo aver visto saltare il ponte, proclama: “L'esplosivo l'han messo i ragazzi ma chi l'ha portato? L'Agnese”. Inedita fierezza femminile che va in parallelo ai nuovi studi sulla decisiva presenza delle donne nella Resistenza, ma anche la volontà di affrontare pagine scomode come quelle di Il voltagabbana (1963), trasposto da Nelo Risi due anni dopo con il titolo La strada più lunga. Il passaggio dalla militanza fascista, compresa di guerre in Etiopia e Spagna, a quella partigiana, dopo i mesi di intensa macerazione post 8 settembre: “Passano i giorni, le settimane e questa nuova libertà mi fa paura, la guerra mi ha disabituato a pensare.”
I più recenti film sono tratti dai romanzi ormai considerati più significativi della nostra letteratura resistenziale: I piccoli maestri di Meneghello, Il partigiano Johnny e Una questione privata di Fenoglio, in cui tra l'altro il motivo della scelta individuale si evidenzia con maggiore insistenza e profondità, compreso delle conseguenze che i propri atti allungano sugli altri. Luchetti nel 1997, Chiesa nel 2000 e i Taviani nel 2017 si muovono armai nel nostro orizzonte, lontano temporalmente e spesso sentimentalmente dalla Resistenza, privo di grandi utopie collettive e dove si è innestato il revisionismo di destra; e su cui ragiona in particolare Marco Revelli nella densa postfazione. Di qui la smitizzazione antiretorica, prelevata dai testi, insieme alla riproposizione forte della scelta individuale, magari con qualche forzatura consolatoria come nel finale dei Taviani. L'autrice conclude con le parole cristalline di Carlo Rosselli sull'antifascismo, che immediatamente rendono attuale il tema del libro, perché concezioni e miti in cui, anche in occidente, la libertà e l'uguaglianza tornano ad essere in discussione, costringono a riproporre una domanda cruciale: “dove sono io in questo tempo che cambia?”
