Da un paese vicino / L’imperfetto di Giampiero Neri

5 Dicembre 2020

La poesia di Giampiero Neri (pseudonimo di Giampietro Pontiggia, Erba, 1927) da sempre tende alla prosa. Se nel primo libro, L’aspetto occidentale del vestito, uscito nel 1976, alle prose poetiche si alternavano ancora testi in versi, da una raccolta all’altra la poesia di Neri si è concentrata in modo quasi esclusivo sulla forma del petit poème en prose, che vanta una lunga e prestigiosa tradizione nella letteratura europea, da Baudelaire a Dino Campana. In passato, però, l’elemento narrativo, in questo autore, era sempre straniato da un caratteristico procedimento di riduzione, di scorcio, di ellissi: negli stringatissimi “racconti” di Neri i dettagli – dei personaggi, delle immagini, delle vicende – si presentavano e direi si stagliavano isolati, illuminati dalla scarsità di informazioni intorno al loro contesto. (Di questo ho scritto in un precedente articolo su doppiozero, al quale rimando: “Giampiero Neri. Un’acuta perplessità).

 

Nel libro appena uscito, Da un paese vicino (Ares edizioni, settembre 2020) la poesia di Neri sembra abbandonare i procedimenti fortemente stranianti che assimilavano le sue prose alla poesia propriamente detta (in versi, per intenderci). Certo, i tasselli narrativi qui presentati non si spingono mai a costituire un “romanzo” e nemmeno un racconto in senso convenzionale; ma il loro carattere di rievocazione autobiografica, in precedenza velato e trasfigurato in mille modi, prende decisamente il sopravvento. Nei brevi capitoletti del volume (sessanta in tutto, senza titolo, contrassegnati da numeri romani) il poeta mette in scena un’autobiografia per frammenti, svolta in quella prima persona che nella sua opera è generalmente rimossa o dissimulata; una storia per minimi lampi, popolata di decine di personaggi più o meno sviluppati, anonimi o – nella maggioranza – identificati per nome, cognome o soprannome (preceduti, all’uso lombardo, dall’articolo determinativo: la Molteni, il Sandro). Al centro degli episodi riportati troviamo la cittadina natale di Neri, Erba, con qualche incursione nelle località circostanti, e a Milano. 

 

Come spesso accade anche nei lavori precedenti, fin dalla prima pagina ci troviamo in medias res: “Al giardino si entrava per un cancelletto di legno che non aveva chiusura. Era un luogo abbastanza grande, coltivato in parte a ortaglie e piante da frutta, prugne per lo più, che crescevano rigogliose”.

 

Quello che ci viene presentato non è un giardino: è il giardino. Senza mediazioni, ci troviamo immersi in una familiarità assoluta, inesplicata. E direi che proprio la familiarità costituisce il fondamento (e in un certo senso l’interrogazione) di questo libro di Neri, l’orizzonte e il movente della sua scrittura. A partire da ciò che ineluttabilmente lega il poeta al suo passato, ai suoi luoghi, siamo messi di fronte alla nozione stessa di familiarità, che ci riguarda tutti. Dalla particolarità di un’epoca, di un destino individuale, siamo portati a riflettere su ciò che radica ogni essere umano a ciò che gli è più intimo, a ciò che gli si è imposto e gli si impone senza spiegazioni. 

Come in altre opere di Neri, anche qui il tempo verbale caratteristico della narrazione – vero marchio di fabbrica dell’autore – non è il passato remoto (o il presente storico) del romanzo e del racconto: è l’imperfetto. Cose e persone si muovono per lo più in un passato indeterminato, che torna e si ripete come quello del mito. Gli eventi di cui si parla non sono accaduti, non accaddero, non accadono: accadevano

 

“Abitavamo in via Mainoni al numero 5, e il giardino era davanti a noi, lo si vedeva dalla finestra”, scrive Neri. Nei suoi libri precedenti, questa precisione informativa si sarebbe trasfigurata e sublimata attraverso vari accorgimenti stranianti: qui l’elemento storico, autobiografico, non si maschera più. Quello di cui si sta parlando – non c’è dubbio – è la vita del poeta, in certi anni e in un certo luogo, rievocata da lui stesso. Eppure, grazie ancora all’uso dei tempi verbali (“si era affacciata”, “aveva comandato”), anche il piccolo aneddoto della zia Ester che dice al figlioletto, cugino dell’autore, “Ezio, vieni su. Non giocare con quel cretinetti in vacanza”, assume – pur nella sua delicata comicità – l’aura di un evento mitico. 

 

 

Le pagine di Neri sono animate da una sfilata di personaggi più o meno vicini all’autore. Uno dei più memorabili è un anonimo ragazzo “lunatico”, “venuto da chissà dove”, che “camminava sui trampoli”. “Qualche volta – scrive Neri – passando nella strada, sopravanzava il balcone del nostro terrazzo e dava un’occhiata. Sembrava di vederlo ridere”. Sui personaggi favolosi ed enigmatici come il ragazzo sui trampoli prevalgono però nel libro quelli più realistici, come il professor Fumagalli, che i lettori del poeta di Erba hanno già incontrato in vari suoi libri. In Da un paese vicino si ha quasi l’impressione che la figura del docente dell’istituto Annoni stia per svilupparsi nel personaggio romanzesco che sembrava promettere. Invece, dopo alcune annotazioni (“aveva chiesto e ottenuto di portare gli studenti all’aperto, al parco comunale dove avrebbe dato le sue lezioni di lettere e storia”; “Fumava sigarette Serraglio in classe, ma con parsimonia”) la sua storia naufraga rapidamente nel tentativo – fallito – di sposare in tarda età una giovane del paese che lo segua “sul viale del tramonto”. Tra gli altri personaggi spiccano la Lola, tabaccaia e grande cuoca, la già nominata zia Ester (“donna avvenente, alta, bruna”, che guida una “Topolino”), il Barabba, prima bullo poi pompiere, il Ciceri, venditore di pipistrelli, il Pierangelo Maggi, primo della classe, suo padre (“uomo corpulento, che si muoveva a fatica. Non l’ho mai visto in piedi”) e molti altri. Quasi nessuna di queste figure ha un rilievo particolare, una storia drammatica, un ruolo decisivo nella vita del poeta; di tutti, però, l’autore riesce a darci in poche righe un ritratto vivo, subito dileguante nel tempo imperfetto che domina il libro.

 

Come abbiamo già osservato, Da un paese vicino è il primo lavoro di Neri in cui il personaggio-poeta è decisamente in primo piano, nella veste di narratore e insieme di oggetto della narrazione. Il protagonista però – e questo è un tratto caratteristico della poetica dell’autore – ama offrirsi come una presenza marginale, una comparsa tra le tante. Questo understatement contrasta significativamente con ciò che si legge a p.51: “È noto che i poeti sopportano malvolentieri che si parli d’altro, piuttosto che di loro stessi. Poco importa che ci sia spazio per tutti, la sola presenza di un altro, nome alieno, li infastidisce e li invoglia ad abbandonare il campo”.

In un’autobiografia, di solito, ci si aspetta di trovare almeno qualche elemento – per quanto dissimulato – di autocelebrazione. In questa non ve n’è traccia. L’autoritratto che ci consegna, anzi, si spinge quasi al limite dell’autodenigrazione. Rievocando le partite di calcio tra ragazzini, e in particolare le prodezze del già citato Maggi, l’autore annota: “Io non giocavo mai, se proprio mancava qualcuno, mi mettevano in porta”. Il culmine di questo gioco al ribasso si trova nel racconto di un incontro a Milano col cugino Sandro, quando l’autore è stato appena assunto in banca. “C’eravamo incamminati verso P.le Cadorna, alla stazione delle Ferrovie Nord, e guardandomi, mi ha detto: ‘Ma che faccia da pesce che ti è venuta’. Sapevo che era vero. Non capivo quello che facevo del mio lavoro bancario. Ero forse l’unica rotella di una macchina, che girava senza sapere perché”. 

 

Negli ultimi capitoletti del libro, all’imperfetto dominante subentra qua e là qualche passato prossimo, o remoto, che dà agli aneddoti un carattere più puntuale. Infine, un po’ a sorpresa, si parla di Dante. Nel capitolo LIX, Neri ci spiazza a modo suo, chiedendosi di punto in bianco: “Perché si legge ancora Poesia e non poesia di Benedetto Croce, con tutte le inesattezze che vi sono riportate?”. Nel LX, che chiude la raccolta, l’autore annota: “Di Dante, della sua vita sappiamo poco, ma in quel poco un particolare mi sembra significativo. Si dice infatti che Dante camminava a testa bassa.” Il lettore che non abbia dimestichezza con l’opera di Neri si chiederà cosa c’entri questa annotazione con l’autobiografia che conclude. I suoi lettori più affezionati riconosceranno invece uno stilema caratteristico del poeta. Già nel suo primo libro, L’aspetto occidentale del vestito, si incontravano passi come questo: “Si narra che il principe di Condé abbia dormito profondamente la notte prima della battaglia. Sembra un particolare di poca importanza?”. Questi frammentari riferimenti storici, più o meno commentati, si presentano in una loro umoristica enigmaticità. Ma in questo caso, forse, quel “camminare a testa bassa” non ha poi così poco a che fare con l’autoritratto che Da un paese vicino ci offre. 

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