Antonio Riccardi: tra il podere e la giungla

22 Dicembre 2022

Prima o poi devo andare a Cattabiano (tra l’altro, non dista molto da Langhirano, paese d’origine di mia nonna paterna). Cattabiano non è una località in provincia di Parma: è un mito. Un mito che ho incontrato, molti anni fa, nella poesia di Antonio Riccardi. Quando penso alla sua scrittura, due cose tra le altre mi riaffiorano in mente, due cose familiari e leggendarie: il podere di Cattabiano appunto (familiare solo grazie alla frequentazione dei versi del poeta) e i diorami del Museo di Storia Naturale di Milano, che fin da bambino mi hanno turbato e affascinato come e più del presepe. Non tutte le opere di poesia riescono a rendere memorabile qualcosa; che quella di Riccardi ottenga un tale risultato testimonia di per sé – a parte ogni altra considerazione – della sua intensità, della sua autenticità. 

Oggi Garzanti raccoglie in volume, con una bella Prefazione di Roberto Galaverni, le Poesie 1987-2022. Il libro offre al lettore le quattro raccolte finora pubblicate, Il profitto domestico (1996), Gli impianti del dovere e della guerra (2004), Aquarama e altre poesie d’amore (2009) e Tormenti della cattività (2018), con l’aggiunta di alcuni inediti. 

Sono quattro opere che, come giustamente osserva Galaverni, “pur nella loro autonomia fanno molto strettamente corpo”. Oltre che dal ricorrere di motivi personaggi e immagini, la loro unitarietà deriva dalla identità e dalla continuità della voce che li regge. Come sempre accade con la poesia che vale, l’impronta stilistica di Riccardi si riconosce ad apertura di pagina. Certo, le influenze non mancano; Galaverni identifica alcuni autori di riferimento: Giampiero Neri, Nelo Risi, Giovanni Raboni, Maurizio Cucchi, Attilio Bertolucci, Giancarlo Majorino, soprattutto Vittorio Sereni (ai quali aggiungerei Giorgio Caproni), ma queste prestigiose ascendenze letterarie nulla tolgono alla indubbia originalità della voce di Riccardi, già chiara fin dal debutto nel “Primo quaderno di poesia contemporanea” (a cura di Franco Buffoni), nel 1991. 

Al centro della raccolta d’esordio, Il profitto domestico (ripubblicata dal Saggiatore nel 2015), c’è il tema, già ricordato, del podere di famiglia di Cattabiano. Quella che Riccardi va ricostruendo è una sognante, trasfigurata epopea familiare. In queste pagine, il poeta si presenta non nella postura frontale caratteristica della lirica, ma in posizione un po’ defilata, come un narratore, uno storico partecipe, alla ricerca di un senso e di una “morale” nelle vicende dei suoi predecessori. Galaverni sottolinea che Riccardi “non è un poeta della parola (…) ma del discorso, dell’articolazione dell’esperienza e del pensiero”. Il suo atteggiamento, e potremmo dire il suo programma poetico, è ben espresso nei quattro versi finali di una delle prime poesie del libro:

Vado all’indietro nell’erba
all’ombra tra gli alberi di porcellana
nel segreto di una famiglia.
Non so se questo mi salverà. 

Nell’ultimo verso emerge la tensione che sempre si fa sentire sotto l’apparente distacco con cui vengono esposte le storie (o microstorie) che animano il libro, spesso frammentarie, offerte per scorci e per questo a volte enigmatiche. 

I personaggi – ricostruiti, si suppone, sulla base di documenti e memorie familiari – portano non di rado lo stesso nome dell’autore, e sono stringatamente identificati, con una sorta di amara ironia, riducendo la complessità delle loro esistenze alle date di nascita e morte e ad una precisa condizione sociale o umana: Antonio Riccardi (1810-1887), sacerdote; Dositeo Riccardi (1859-1878), epilettico; Odet Riccardi (1862-1949), possidente; Antonio Riccardi (1887-1930), soldato. 

In un altro testo dello stesso libro, il poeta espone i termini del proprio operare: 

Chiamo queste vite in una storia.
In un cono d’erba, dai rami
vengono per restare sempre d’oro
come le mosche nell’ambra.
Sento il tempo comune alla specie
come profitto domestico. 

Attraverso il racconto delle vite dei suoi avi, Riccardi svolge una meditazione etica sulla condizione della “specie” (la famiglia; la stirpe, come viene anche chiamata) e sul senso del suo esistere (il “profitto domestico” ne è la cifra ironica). Quella di Riccardi, osserva ancora Galaverni, è “una scrittura essenzialmente difensiva”, che “cerca di comprendere le leggi della natura e degli uomini per garantire la conservazione di sé e della specie…”. La sua – scrive – “è una visione della vita terribilmente conflittuale. Come assolutamente anti-idillica è la sua percezione della natura”

Al contesto apparentemente sereno del podere di Cattabiano si contrappongono infatti, in tutta la poesia di questo autore, scenari esotici e spaesanti come l’Antartide, Giava, Sumatra, Brasilia o Calcutta (che “dista solo due biolche” dal paesaggio familiare); ma un’altra presenza straniante, ricorrente in tutti i libri, è quella degli animali (o spesso “bestie”): i cinghiali che “sembra che piangano quando si mordono/ voltandosi a scatti come chi è punto”, ma anche le figurine che il padre porta da Sesto San Giovanni nel fine settimana (“la iena, il leopardo/ e un varano mai visto,/ ognuno al culmine della ferocia”), la rana-toro nascosta tra gli altiforni (inevitabile pensare a Caproni), il cinghiale che sbrana il cane “con furia ma non per fame” (in Impianti del dovere e della guerra) e poi i pappagalli sperduti ai giardini di Porta Venezia (“D’altra parte anche tu vivi in questa città”), i narvali nel diorama (“Nel diorama non c’è prima né dopo/ma solo il culmine delle vite esemplari/di certe piante, di certi animali.”), il giaguaro che assale il formichiere – entrambi impagliati – al Museo di Storia Naturale (in Aquarama), i tre fagiani che “cercano l’ombra” tra le tombe del cimitero di Cattabiano (in Tormenti della cattività), altri ancora.

Il mondo di Riccardi è profondamente percorso dal contrasto tra una prospettiva razionale, familiare, pragmatica (“Questo podere ci unisce/ e lo coltivo per giudizio/ e per misura”; “Mettere a frutto la fatica/ è il solo vero prodigio”) e l’abisso oscuro che continuamente la scuote e la minaccia. È questo probabilmente che spinge Galaverni a identificare come motivo centrale di Riccardi la paura: “paura che percorre la sua opera dal primo all’ultimo verso”. Altri termini chiave che ci possono orientare nell’esplorazione di queste pagine sono dovere, viltà, profitto, colpa, merito, sacrificio, ferocia, castigo e simili, attraverso i quali emergono le tensioni che caratterizzano l’universo del poeta. 

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Il secondo libro di Riccardi, Gli impianti del dovere e della guerra (2004) è ambientato a Sesto San Giovanni (Milano), la città dell’acciaio e delle lotte operaie (la “piccola Stalingrado”, come veniva chiamata) dove il padre dell’autore, Pier Giovanni, svolgeva la professione di medico. Quattro sezioni del libro portano il nome di quattro altiforni: Concordia, Unione, Vulcano, Vittoria. Al paesaggio agreste di Cattabiano, qui, subentra quello, cupo e fuligginoso, della città operaia. Evitando accuratamente ogni moralismo e ogni scontata retorica “sociale”, Riccardi ci presenta lo scenario industriale come un universo rigidamente ordinato e disciplinato, ma insieme “selvaggio” quanto quello delle presenze naturali che abbiamo già visto più volte affiorare (qui la rana-toro). 

In questo libro si affaccia una seconda persona, quel tu che in Aquarama verrà sempre più in primo piano: 

Improvvisamente dal tuo corpo
brilla la vita desiderata.

Baci e un’ora quasi al buio
quasi senza desideri.
Il piccolo prodigio di un’ora
sembra la forma di me e di te.
Né giusto, né sbagliato. Né profitto
né perdita a baciarti nella giungla. 
(…)

Il profitto e la perdita (concetti chiave della poesia di Riccardi) dileguano e si annullano in una giungla che richiama la dimensione feroce celata sotto la serenità del mondo familiare. Nel “piccolo prodigio” dell’eros, quel disordine minaccioso sembra risolversi e pacificarsi. Ma insieme alla seconda persona emerge la figura del Minotauro (dunque del Labiririnto), nella quale torna a proporsi la stessa dimensione problematica e inquietante già annunciata dagli animali e dalle “bestie”. 

La seconda persona si fa sempre più centrale in Aquarama e altre poesie d’amore (2009), dapprima nella figura del padre, poi in quella della donna amata, che non ha niente di convenzionale e prevedibile, e spesso è anzi spaesante quasi quanto il mondo infero che cova sotto ogni scena domestica. Le cose che dice sono spiazzanti: “Sono troppo bella per perdere così/ e aspettarmi qualcosa da te…/ hai detto baciandomi lentamente/ nel chiaroscuro dei bambù.” Il rapporto tra l’io lirico e questa figura femminile non ha niente dell’idillio: “Sempre dopo la furia, ingrati/l’uno dell’altra, ti sento/ vibrare di delusione/ e sento il mio privilegio franare,/la mia bella vita ossidarsi e finire.” 

O ancora: 

Guardiamoli nel filmino
i giorni lucenti del nostro avvenire:
l’idea che avevi dell’uomo perfetto,
una bella casa, la cucina moderna,
la vacanza sull’Isola dei gabbiani…
Lo sai, nei nostri piccoli affari
tu sei sempre la più severa.

Nella sezione intitolata Bestiario d’amore ritornano i diorami del Museo di Storia Naturale, stavolta contemplati in coppia:

(…)
Avvicinati alla teca e guarda
sul fondo della selva
tra il verde immobile e senza odore

ci siamo anche noi nella foresta
sapendo le cause, sapendo i fiori. 

La figura femminile oscilla continuamente tra severità e fragilità: “(…) nel pieno sole del mattino/ sottovoce tremando, di spalle/ alla falsa profondità del verde,/ mi hai detto di darti fiducia/ e che non sei cattiva”. 

Il dialogo con la donna amata prosegue nel libro successivo, Tormenti della cattività (2018); la problematicità del rapporto è sottolineata, tra l’altro, dal titolo di una sezione, Scene da un matrimonio, che rinvia al film di Ingmar Bergman. 


Cosa ho imparato dall’amore con te:
la tua dedizione, la mia dedizione
–eravamo presi, felici, sospesi
ogni volta tremando insieme

e poi l’improvviso imbrunire
della nostra piccola fortuna
con l’avviso di una guerra
sotto forma di rimprovero

Anche in questo libro ritornano comunque il paesaggio di Cattabiano (ho già ricordato i tre fagiani al cimitero), la figura del padre e di altre figure familiari (qui come in precedenza tutte maschili, noto senza commenti). 

Nella sezione intitolata Madrigale della battaglia (Quarto tormento) al lavoro della memoria e al dialogo amoroso subentra a sorpresa una riflessione sul vecchio cartone animato di Hanna e Barbera che ha per protagonista la famiglia dei Jetsons (mi ci è voluto un po’ per riconoscere quelli che mi erano noti come Pronipoti). La “lontana città” in cui è ambientata la serie americana dà luogo a una meditazione (sottilmente ironica) sull’utopia: “Nel mondo futuro dei Jetsons/si vive senza attrito con le cose/ senza difficoltà né imperativi// E mai che fosse un’attesa disperata/ o solo incerta, a Orbit City”. 

L’ultimo tormento (Lachrimae) è di nuovo dedicato al padre morto, che riappare all’autore come un benigno revenant. Negli incipit dei testi ricorre l’avverbio oscuramente. Nella visione, il padre si rivolge al figlio, invitandolo a fare quello che la sua poesia ha sempre fatto: “guarda le nostre ombre, Antonio” “Senti le nostre ombre, Antonio”. Il libro si conclude con una serie di “Prove per un cenotafio” in forma di epigrafi-epitaffi, dove lo stesso personaggio, Antonio Riccardi (omonimo dell’autore), viene presentato sotto diverse angolature. Le varianti recano sempre la chiusa manierata “Respice finem”. L’ultimo testo, abbandonata la forma epigrafica, riprende il motto finale e conclude amaramente:

Respice finem e infatti anch’io
come tutti, senza esclusione
ero un uomo, ma non ero giusto.

Galaverni riflette molto opportunamente sulla situazione storica e culturale in cui Riccardi si trova a esordire: siamo negli anni Ottanta del Novecento (i primi testi sono del 1987), nel pieno di una perdita di prestigio della poesia che dura ancora. Il poeta ha poco più di vent’anni (è nato nel 1962) e “sente comunque di dovere scrivere poesia. A quale idea o ideale aggrapparsi, e a quali poeti? Come dare un fondamento, come dare plausibilità alla propria lingua poetica, scongiurando quel grande nemico della poesia che è l’arbitrio? Come scrivere, insomma, e soprattutto perché e per chi?”. 

Quello che sorprende, in Riccardi, è proprio la sicurezza con la quale la sua scrittura risponde, fin dagli esordi, a queste domande. L’impressione è quella di una poesia già matura, senza esitazioni, già concentrata sui suoi temi (temi peraltro del tutto inattuali in quegli anni). La sua rammemorazione non indulge mai a un facile sentimentalismo; l’emozione è trattenuta, emerge solo a tratti nel tessuto di una scrittura estremamente asciutta, controllata. Il racconto è sempre condotto con un certo distacco, e percorso da interrogativi e riflessioni spesso esitanti: “Quali certezze riguardo ai corpi?”; “Quali certezze riguardo alla vita?”; “E sarà vero che sotto ogni segreto/ nessuno è giusto, nemmeno uno?”; “A volte mi pare di vedere tutto e di capire/che la verità è cosa si fa facendo./ Ma chi assicura che possa bastare?”

Anche “i detti sapienziali più o meno definitivi in cui l’esperienza di volta in volta si deposita e si risolve – osserva ancora Galaverni – sono estremamente netti, fermi, decisi, icastici, eppure sono pronunciati da qualcuno che si trova con l’acqua alla gola. Portano sempre con sé un tremore, un brivido, infatti, come se fossero scritti con la man che trema”.

È questa tensione tra distacco e emozione, tra saggezza e smarrimento, mi pare, la cifra inconfondibile della poesia di Riccardi. 

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