Villalta: album di famiglia in versi

18 Ottobre 2022

Per affrontare la lettura dell’ultimo, densissimo libro di Gian Mario Villalta, Dove sono gli anni (Garzanti, 2022), credo sia utile partire da un intervento dell’autore sul sito “Le parole e le cose”, intitolato Estate+infanzia=maglietta a righe, citato nelle note finali. Lo scritto prende spunto da una foto in bianco e nero (ripresa in una poesia del libro, a p.22) che raffigura Villalta bambino – in maglietta a righe, appunto – sua madre e sua sorella, e si sviluppa come un raffronto serrato (divagazione, nelle Note) tra i mezzi e i procedimenti della fotografia e quelli della poesia. 

Com’è da aspettarsi, l’autore è tutto dalla parte di questi ultimi. Non è qui il caso di ripercorrere le sue argomentazioni (il lettore potrà seguirle direttamente sul sito): in che cosa consista la differenza tra le due arti (o tra le due forme di rappresentazione) lo mostra la scrittura stessa di Villalta, pagina dopo pagina. Quello che mi sembra da rilevare è che il suo lavoro nasce in questa occasione (così almeno a me pare) da una sistematica presa di distanza dal documento fotografico, e in genere dall’immagine, per mettere in opera le risorse più proprie (e più ardue) della poesia. 

La prima parte del libro, Dove sono gli anni, fa a volte l’effetto di un album di famiglia senza le foto. Non un commento, quindi, come quello che ognuno di noi può fare di fronte al suo personale repertorio di vecchi ritratti e istantanee (“il facile referto delle foto”, p.154): una raffigurazione integralmente poetica degli anni che danno il titolo al volume. 

Nel testo si affacciano sì delle immagini, ma come trasfigurate, straniate. All’evidenza statica e fissa della fotografia-documento si sostituisce la potenza evocativa della parola. I salci, la roggia, il fossale, la maglietta a righe e altri oggetti ricorrenti da un testo all’altro non ci vengono presentati nella loro frontale, istantanea, immobile “realtà”: emergono magicamente, dinamicamente, dai loro nomi. Il contesto spazio-temporale, che nelle foto è di norma chiaro e riconoscibile, qui si scorcia, sfugge, si oscura e torna a splendere, in una metamorfosi continua. A ottenere un tale risultato sono i procedimenti propri della scrittura poetica: in questo caso innanzitutto una sintassi volutamente sghemba, slogata, nessi grammaticali sbilenchi, arditi salti logici: “quando stare vicini voleva dire che esiste un posto/ che non è un prato, né una stanza, dove essere è insieme” (p.13); “Sei diverso senza essere diventato mai altro:/ quello che la maglia a righe, che l’acqua di casa /gorgoglia – la costa del fossale in fondo al campo/dove i salci splendono gialli d’inverno” (p.62) 

A questo si aggiunge la presenza (più canonica, ma qui sorprendentemente pervasiva) della metafora: “Il sangue della sera” (p.15); “il sole cereo scorpione” (p.25); “lo sguardo che stana nel sangue i millenni delle stagioni” (p.32); “il sorriso delle finestre” (p.33); “nel dialetto della stagione” (p.91); “il cane degli anni” (p.91); “infeltriti silenzi” (p.131). 

Al voluto effetto di offuscamento contribuisce anche la scelta metrica: Villalta adotta in questi testi un verso lungo, programmaticamente antimelodico, che a volte fa pensare al Pavese di Lavorare stanca (“A sera gorgoglia la roggia nell’acqua di casa”, p.11) a volte all’esametro greco-latino, o alle Odi barbare di Carducci. 

Il titolo, con la sua interrogazione implicita, sembra riecheggiare il celebre ritornello della Ballade des dames du temps jadis di Villon: “Mais où sont les neiges d’antan?” (“Dove sono le nevi dell’anno scorso?”). 

La prima parte è costituita da quindici movimenti, ciascuno formato da cinque testi diseguali, e seguito da un sesto testo più breve, separato dagli altri dal simbolo della spirale. 

Le quindici stazioni principali si presentano come passaggi di una dolente rievocazione – a sprazzi, a lampi – di momenti e luoghi del passato, una tormentata meditazione del soggetto su se stesso (in seconda persona) e sul tempo, dominata dallo spaesamento e da uno sguardo crudo, disincantato. Una delle due prose contenute nella prima sezione sembra rispondere alla domanda del titolo: “Si sfanno, gli anni, quando ti avvicini all’adesso, a quel te stesso che ora sta vivendo (non è concesso sapere se stanno fuggendo, o ritornano non invitati – gli anni – per reclamare un’altra volta chi sei).” (p.155). 

Il filo conduttore della sezione eponima è – insieme all’interrogazione sugli anni – la ricerca dell’identità. Il soggetto maturo si volta indietro, ripercorre volti e paesaggi familiari del passato, in cerca di un io che gli sfugge: “Questo/ sarei stato io – ero con voi – sarei proprio io, vero?” (p.46). Il condizionale marca l’incertezza, la difficoltà del riconoscersi, che è il tema portante del libro. 

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Nei testi finali di ogni stazione, preceduti dal simbolo della spirale, il colloquio con se stesso si fa onirico, fantasmatico, e si colloca – come l’autore scrive nelle Note – “in un fuori tempo presente”, si inabissa “in un ‘nessun luogo’ dove c’è solo la voce”. Apparentemente, le voci sono due: quella – si presume – del soggetto lirico, e quella di un’entità misteriosa che lo interpella (spesso in dialetto friulano) ma non si rivela mai pienamente, e sembra quasi giocare crudelmente a nascondersi: “Situ ti? Chi l’è/ che ride./ Chi ride?”  (p.27).

Il tono della meditazione di Villalta è prevalentemente elegiaco, dolente ma trattenuto. Si incontrano però punte violentemente espressionistiche, come questa (p.151), che ripensa l’amore del tempo, titolo di uno dei quindici passaggi: 

“Amore? Se ti porta via tutto, dopo
che ti ha scatarrato nel mondo, il tempo,
ti conficca le unghie poi che sei nato
ci prova a farti fuori in tutti i modi – ne scampi,
e lui ti scava carne e fiato, svuota il presente,
ti sfraccagna le ossa coi dentacci marci, la mente
in pappa, la psiche in panna.
Ti illude, ti illude sempre, e già è andato”  

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La seconda sezione del libro, La solitudine della specie dominante, molto più breve della prima, abbandona il tema del passato e della ricerca di identità per trattare quello – di bruciante attualità – della crisi ecologica. 

Proprio per la sua enorme rilevanza l’argomento è scivoloso: per sua natura, la poesia rifugge dalla predica, dal “messaggio” (per quanto sacrosanto), e in questi casi è difficile evitare la retorica, i facili effetti, la ripetizione di ciò che si pensa e si dice ogni giorno sui media. Villalta, che lo sa bene, si muove con cautela, scansando il più possibile le trappole che ogni “giusta causa” tende a chi vuole affrontarla conservando l’originalità e la vitalità della parola poetica. 

Tre sono le sottosezioni. Nella prima, Ibisco, il poeta, dopo una meditazione intorno alla natura e alla vita sulla terra, si rivolge a una pianta di ibisco. Il patetico è in agguato. Villalta lo tiene a bada abbassando il tono (“Non arrenderti, è normale/ tutto ‘sto buio, le voci sempre più/ lontane.” p.164) e ricorrendo a tratti a una sottile sdrammatizzazione. Alla fine, “specie dominante” e fiore si trovano sullo stesso piano: “Succede che mi imponi felicità,/ nella bella stagione, e chiedo/ perché (non solo i fiori, i colori…)/ che cosa sai tu di te, e di tutto,/ che cosa so io di tutto e di me?” (p.168).

Nella seconda sottosezione, maritimus, il discorso è rivolto a un orso polare (ursus maritimus il nome zoologico): “che cosa ti succede adesso che il mare/ aumenta, e più aumenta più non è mare, non è più niente./ Adesso che non c’è che mare intorno a te che cos’è /per te la fine, dolore, oppure – oppure?”, chiede il poeta (p.173). Qui Villalta decide di spingersi fino in fondo, di affrontare di petto il rischio del patetico, pur con una tenue punta di ironia. Nel testo finale (p.176), un ritornello in corsivo recita (parodiando l’Agnus Dei): “orso polare che assumi il male della terra/su di te, perdonaci”. (Nell’ultima ripresa, l’invocazione diventa: “orso polare che assumi il male della terra,/ donaci cura”). 

La sezione intitolata La solitudine della specie dominante è indirizzata alla Natura stessa. Impossibile non pensare all’operetta morale di Leopardi, alle domande che l’Islandese rivolge alla “forma smisurata di donna […] di volto mezzo tra bello e terribile”. Villalta scrive a questa “testa di medusa” (così la definisce a p.182): 

 

“Natura, che vuoi che io muoia, che tutto
si estingua, tu che muti le forme del nascere,
perché oscuro riesca a predare, nutrirsi
della vita per crescere e in altri durare. 
Perché oscura cresca l’assidua contesa,
se pur pretende,
la mente umana non lo comprende. Natura 
eri stata, e con quel nome la vita
era più della morte, eri tu legge, sorte, nemica 
e madre – ci consolava
nei secoli – ora, che chiedi a noi di decidere
troppo e di più ancora illuderci
di decidere, che cosa vuoi, che reclami?”
(p.183)

Qui la spietata, gelida Natura leopardiana viene ripensata alla luce dell’attualità: un tempo, persino la sua tremenda potenza poteva apparire in qualche modo consolatoria in quanto legge, sorte; oggi tutto è affidato (o così sembra) al potere della “specie dominante tutto//tutti inglobante” (p.184), che nella sua solitudine “si illude di decidere”. Il disperato ripensamento dell’idea di Natura brancola, annaspa e si frantuma nell’ultima pagina, per concludersi non con un e così sia ma con un ellittico, dolente, rassegnato “ _ _ _ sia”.   

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