Stefano Dal Bianco: l’io lirico e il suo cagnetto 

4 Aprile 2024

Lo confesso, a costo di rendermi impopolare: non ho un buon rapporto con gli animali. Non ho mai avuto un cane né un gatto, e in genere sono piuttosto refrattario agli sdilinquimenti dei padroni nei confronti dei loro beniamini a quattro zampe; ma nel nuovo libro di poesia di Stefano Dal Bianco, Paradiso (Garzanti 2024), il rapporto tra l’io lirico e il suo cagnetto, Tito, mi ha toccato e emozionato pagina dopo pagina. 

Il libro è articolato in tre sezioni: “Appuntamento al buio” (12 testi), “Paradiso” (108 testi) e “Vento d’autunno” (un solo testo). Tito (“il cane Tito”, come viene comicamente e affettuosamente appellato) è il protagonista della sezione centrale, assieme al suo padrone (ma il termine è qui del tutto improprio) e al paesaggio agreste delle colline di Siena, dove l’autore (che insegna Poetica e Stilistica all’Università) risiede da anni. 

Il racconto del rapporto tra la bestiola e il suo umano di riferimento è del tutto estraneo alla retorica, ai luoghi comuni e al patetismo che ci si potrebbero aspettare dallo svolgimento di un tema tanto scivoloso. Di Tito non si celebra la fedeltà, l’attaccamento al padrone, l’intelligenza, la sensibilità; la sua “psicologia” viene esaminata senza sdolcinature, con meraviglia, a volte con un certo distacco, spesso anche crudamente, ma sempre con una tensione emotiva che commuove. 

Leggendo, ero portato a pensare a Padrone e cane di Thomas Mann (Herr und Hund: ein Idyll, 1919), che per caso avevo riletto di recente, e molto ammirato a distanza di tanti anni dalla mia prima lettura. Mann qualifica il suo racconto, nel sottotitolo, come “un idillio” (il termine ha un sottofondo ironico, naturalmente); in Dal Bianco l’idillio c’è, se non altro per la presenza pervasiva della natura, ma non scade mai nell’ovvio, nel prevedibile. Cane e padrone vengono rappresentati come una strana coppia, legatissima e insieme divergente:

(…) 

e camminiamo nel silenzio
e Tito ha il naso rasoterra
tutto il tempo perché tutto 
profuma di qualcosa 
io ho il naso per aria 
perché il profumo è altrove,
perché niente mi basta sulla terra. 
(p.32)

Oltre che poeta (i suoi libri sono La bella mano, 1991, Stanze del gusto cattivo, 1991, Ritorno a Planaval, 2001, Prove di libertà, 2012), Stefano Dal Bianco è un esperto di metrica (ha studiato – tra gli altri – Francesco Petrarca, Ludovico Ariosto e Andrea Zanzotto); non si può quindi pensare che i suoi versi siano costruiti a caso, come viene viene (sospetto che emerge – almeno in me – leggendo certi autori contemporanei). In diversi testi di questo Paradiso, dunque, colpisce un tipico rasentare pericolosamente la prosa, la colloquialità, con una sorta di disinvoltura ritmica, direi di sprezzatura. È come se il poeta volesse prendere sistematicamente le distanze dalla versificazione canonica (che conosce perfettamente), ma anche dalle maniere risapute del verso cosiddetto libero, per sfidare il lettore con la prosasticità più disadorna:

Ogni volta che ammazzo una mosca
mi sento come un dio.
Posso disporre della sua vita 
e lo faccio con coscienza.
Se lei mi dà fastidio, se non prende
la via della finestra aperta,
la uccido. 
(…)
(p.14) 

A questo temerario terra-terra, a questa cruda discorsività (che mi ricorda certo Sbarbaro) fanno contrasto a volte a sorpresa, nello stesso testo, dei versi perfettamente “sonanti”, spesso collocati in chiusura: “E circonfonderà di vera luce/ciò che durante il giorno ci confonde” (p.76), che possono essere degli endecasillabi (come i due appena riportati) o anche misure più lunghe: “ora che tutto è perduto nel bianco lontano/ e sale, sale da dentro la voce del mondo” (p.33)

I testi di Paradiso sono quasi tutti abbastanza brevi (raramente superano la pagina) e molto compatti. A volte sono articolati in strofe, ma per lo più si presentano (anche visivamente) come un unico blocco compositivo, e sul piano sintattico come un unico periodo serpeggiante e sinuoso. Leggiamo un altro testo dalla sezione centrale (p.105):

h

Ora Tito ha scavato una buca
che ci sta dentro con tutta la testa
ed è fissato e non si sposta
e grufola mastica annusa perché è chiaro
che nella buca c’è qualcosa
di sommamente interessante per un cane, ma più scava
più questo odore o questa leccornìa
si fa gioco di lui come di tutti quelli
che la terra di sé rende accaniti. 

Tutto il testo è costituito, come si vede, da una sola arcata sintattica, un solo fiato, in cui le proposizioni – reggenti, subordinate, coordinate – si dispongono a formare un’unica strofa, quasi priva di punteggiatura (tranne al v.6, prima del ma). Qui la colloquialità di cui abbiamo parlato si spinge fino all’uso improprio del che al secondo verso (“una buca/che ci sta dentro con tutta la testa”), ma il “discorso”, il “parlato”, il terra-terra, si risolvono con un perfetto endecasillabo, che suona come una “cabrata” verso le altezze della Poesia: “che la terra di sé rende accaniti”. 

In questo finale si osserva quell’andirivieni, quel rimando continuo tra “psicologia” canina e umana che caratterizza tutto il libro. Tra il cane Tito e l’io lirico emergono ad ogni pagina le sostanziali differenze, ma anche le affinità, le segrete complicità. Come nella poesia a p.43, dove a unire i due è l’“inadempienza” rispetto al luccichìo sull’asfalto di un raggio di luna:

Un certo raggio della luna bianca di stanotte
ha attraversato il cielo e ha raggiunto me
il cane Tito e poi l’asfalto.
Io in ritardo me ne sono accorto, il cane Tito
credo era distratto
e l’asfalto ha luccicato per un attimo
sostituendosi con garbo alla
inadempienza di Tito
e alla mia.                                  

Emerge, qui, il terzo personaggio che anima il libro accanto all’io lirico e al suo cagnetto: la natura, il paesaggio delle colline senesi, attraversato in ogni sua stagione. Come nel racconto del rapporto uomo-cane, anche nella descrizione dell’ambiente naturale (pure tanto suggestivo) Dal Bianco mantiene un tono asciutto, distaccato, sotto il quale la commozione si nasconde pudicamente. Per questo – se mi è permesso avanzare una perplessità – mi sembra poco adatto il titolo Paradiso, che sembrerebbe promettere un idillio senza riserve. Anche la copertina – in sé molto godibile – con quei cipressetti al tramonto puntati verso la mezzaluna, fa pensare a Rio Bo di Palazzeschi, piuttosto che a queste poesie così ruvide e trattenute. 

Il rapporto tra cane e padrone, lo abbiamo detto, sfugge in questo libro a tutti i luoghi comuni legati al tema. È un rapporto intenso, quasi esclusivo, ma sempre problematico, disincantato, e a volte leggermente comico; il cane Tito “ti porta allo scoperto di te stesso perché sa/ che ha bisogno di te per essere felice/ ma se ne infischia della tua felicità” (p.118). 

L’osservazione dei comportamenti del cagnetto è continua, pensosa, piena di quieta meraviglia e spesso – per contrasto – fonte di riflessione sul mondo umano:

Non si sa se quando a Tito vengono le idee
cambiando improvvisamente direzione mentre corre
sia un profumo più dolce o risoluto che lo storna
o il calore di un fuoco che lui soltanto sente
o un ultrasuono d’angelo nella sua mente.
Certo è che questa idea, quando lo fa scartare
deve avere un’origine sensibile
con qualche cosa dentro di convulso
e vivace, un poco oltre il concetto
che noi abbiamo di che cosa sia un’idea. 
(p.121)

Paradiso è un libro decisamente concentrato su un tema e sulle sue variazioni. Un curioso canzoniere, dove al posto dell’amata c’è un cagnetto. Non dà mai l’impressione, però, di un lavoro pensato a freddo, un esercizio formale a partire da un pretesto arbitrario; il suo movente è lampante, convincente, e non lascia dubbi sulla sua autenticità. La coppia cane-padrone – nella sua leggerezza e potenziale convenzionalità – rimane memorabile, e vivissima, nella mente e nel cuore del lettore. Cosa rara, in un libro di poesia. 

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