Speciale

Pazienza / Paranoia e virus

1 Marzo 2020

Il 11.9.2001, quando una aggressione terrorista distrusse le Torri Gemelle, abitavo a New York. Mi misi a studiare tutto quello che riguardava la paranoia e cominciai a scrivere un libro sulla presenza di questo disturbo: non nelle istituzioni psichiatriche ma nella popolazione “normale” e nella vita qotidiana. Non ero rimasto sconvolto tanto dall’attacco: si conosceva già l’esistenza di un fondamentalismo islamico paranoico, i proclami di Osama Bin-Laden si leggevano in internet. A quello si poteva esser preparati. Nuova era invece la paranoia collettiva che in un attimo ci aveva circondato. Quella che Jung chiamava “infezione psichica” stava contagiando tutti: malgrado i nostri sforzi per mantenerci lucidi, anche me e i colleghi psicoanalisti.

 

Così, ho dedicato anni a studiare non l’11 settembre, ma il 12, 13 e così via. Lo scatenarsi di una psiche primordiale nell’uomo comune di quello che si crede un mondo civilizzato. A New York cominciarono a circolare le tipiche “voci”, che prendono vita spontaneamente nelle situazioni di allarme e di pericolo collettivo: un ritorno involontario alla civiltà orale, studiato da Marc Bloch nella Prima Guerra Mondiale. Alle voci, infatti, si crede più che alle notizie ufficiali. E in guerra, ogni notizia è sottoposta alla censura militare. I bollettini dell’esercito dicono che tutto va bene, mentre intorno si muore. Durante il 1914-18, nell’esercito francese nacque spontaneamente un proverbio: “Tutte le notizie possono essere vere, tranne quelle dei comunicati ufficiali”.  Va notata una cosa, poco nota a chi non ha esperienza psichiatrica: le allucinazioni dei malati mentali gravi non sono quasi mai visive: giungono in forma di voci. Questo termine, quindi, è molto efficace, perché stabilisce un collegamento diretto tra il delirio del caso clinico psichiatrico e quello della società che perde il controllo.

 

La casa in cui abitavo era fuori da Manhattan, in una zona verde. Vicino a noi stava un grande lago artificiale che costituiva una delle principali fonti d’acqua per la città. Le “voci” sussurrarono che i terroristi vi avrebbero gettato un potente veleno. Dopo poco, il racconto cambiò: i malvagi non avrebbero utilizzato veleno, ma l’LSD, così avrebbe fatto impazzire la maggiore città americana. Questa idea era non solo più credibile – dal momento che mancavano casi di avvelenamento – ma anche più in sintonia con l’inconscio collettivo. Anche questa voce non era materialmente vera: non successe nulla, l’unica novità furono i guadagni fatti dai venditori di acqua minerale. Ma, in modo inconsapevole, finiva col risultare vera sul piano simbolico: gli abitanti di New York sembravano vivere fra le allucinazioni, anche se non avevano ingerito LSD.

 

L’11 settembre fu l’unico attacco subito dagli Stati Uniti sul loro territorio durante la loro storia. Nessuna aggressione terrorista di gravità paragonabile avvenne dopo: ma, come conseguenza, gli Stati Uniti andarono a far guerra in due paesi lontani, Afghanistan e Iraq. L’opinione pubblica e i politici approvarono la mossa di Bush, il quale – proprio come si legge nelle descrizioni psichiatriche della paranoia – dichiarò che la compiva per eliminare un arsenale di “armi di distruzione di massa” accumulato da Saddam: e rivelatosi inesistente, quando gli invasori americani lo cercarono. Dopo quasi due decenni gli USA, che possiedono metà delle forze militari del mondo, non le hanno ancora davvero vinte: sono le guerre più lunghe della loro storia.

Questa constatazione ci porta già al cuore del problema: se si manifesta non sul piano individuale e clinico, ma nella mentalità collettiva, la paranoia si diffonde per infezione psichica e fa perdere il senso delle proporzioni. La comunicazione orale peggiora le cose, perché la sua estrema variabilità semina il panico. Oggi il suo strumento di amplificazione sono i cosiddetti social, affidati ad ogni individuo ed usati soprattutto per scaricare emozioni di cui il soggetto ha perso il controllo, anche quando pretende di comunicare qualcosa di obbiettivo.

 

In questo periodo il mondo non fronteggia un potere terrorista distruttivo, ma un virus: dunque un avversario che, all’opposto delle organizzazioni terroriste, non è guidato da un capo e non ha un consapevole scopo. È troppo presto per sapere se si tratta di una epidemia o di una pandemia. Il covid-19 è un virus è di tipo nuovo, solo recentissimamente è passato dagli animali all’uomo.

Nel 2018 un gruppo di esperti coniò il termine Disease X (malattia X) per una pandemia che, in un futuro imprecisato, sarebbe passata dagli animali all’uomo, diffondendosi rapidamente nel mondo sia per la mancanza di difese negli umani, sia per i contatti che legano ormai tutti i paesi attraverso la globalizzazione. L’Organizzazione Mondiale della Sanità comunicò la notizia al mondo: ma non sembra che gli stati abbiano stanziato grandi cifre per prevenire il male. Peter Daszak, uno degli esperti a cui dobbiamo il termine Desease X, ha ora (28 febbraio 2020) confermato sulla prima pagina del New York Times che il covid-19 è la malattia preannunciata 2 anni fa. Per il momento non solo non esistono vaccini, ma nessuno, in nessuna popolazione, possiede contro di essa le difese che ci riparano dalle malattie più “normali”. Le informazioni di cui disponiamo sul virus fanno pensare che si tratti di qualcosa che ha analogie con la influenza: è più seria di questa, ma non è una malattia ad alta mortalità, come le antiche epidemie o l’Ebola di recente. Ci sono invece sorprendenti analogie con la peste nera che uccise buona parte della popolazione europea nel 1300. Anche allora la malattia veniva da oriente attraverso la Via della Seta: dopo l’isolamento del Medio Evo, si stava velocemente avviando una prima globalizzazione dei commerci. Giunse in Europa in groppa ai topi, a loro volta trasportati con la merce nelle navi: oggi il contagio arriva dai loro parenti alati, i pipistrelli.

Le previsioni sono ben difficili, perché troppe sono le variabili in gioco. Sarebbe come azzardare che tempo farà, diciamo, il 22 ottobre dell’anno prossimo: anche il metereologo più esperto non ci proverebbe. 

 

Sulla infezione virale, dunque, dobbiamo sospendere il giudizio. Ma oltre a quella fronteggiamo due problemi psicologici non piccoli.

Il primo, di non facile contenimento, riguarda appunto la paranoia. In teoria i politici e i mezzi di comunicazione potrebbero fornire una informazione contenitiva, corrispondente a una psicoterapia di massa. In pratica possono spesso peggiorare la situazione. Durante il fine settimana scorso il premier Conte ha tenuto una lunga conferenza stampa. A un’ora di domande dei giornalisti sugli interventi in corso rispondeva sempre che il governo aveva preso provvedimenti adeguati. Lo spettatore veniva quindi indotto a immaginarsi due le possibilità: che non conoscesse i provvedimenti del suo stesso governo; o che temesse di elencarli, magari perché avrebbe dato l’impressione di una situazione gravissima? Purtroppo gli studi sulla paranoia ci informano che l’alludere senza dire – non offrendo certezze ma rinforzando il sospetto - è proprio il modo migliore per nutrirla. In questo modo il primo ministro ha rinforzato nell’ascoltatore la sensazione che ciò che lo preoccupava era soprattutto difendersi da accuse di inadeguatezza, che nessuno gli aveva rivolto. Una valida collaborazione gli è stata offerta da Fontana, governatore della Lombardia, residenza della maggioranza di casi accertati, il quale ha ripetuto che la popolazione collabora ammirevolmente: come se suo compito fosse fugare dubbi non sulla sanità, ma sulla possibilità che i cittadini si opponessero agli interventi sanitari. Ugualmente de-costruttiva la giornalista Annunziata: che a raffica non avanzava una domanda, ma almeno tre insieme, rivelando che la gestione dell’ansia era un problema, prima che per la popolazione, per lei stessa. Una combinazione che ha garantito allo spettatore una anoressia di risposte, ma obese crescite del panico. Come la paranoia, l’ansia è psicologicamente molto infettiva. Piazzare davanti alle telecamere chi non riesce a trattenerla è un rischio sociale.

 

Anche i soldati della Prima Guerra Mondiale erano scagliati insieme nella stessa trincea da un caso beffardo. Per rassicurarsi a vicenda, inventavano forme di saggezza popolare come il proverbio dell’esercito francese. Oggi, i milioni di italiani gettati casualmente dalla minacciosa epidemia in una comunanza virtuale di schermi finiranno purtroppo per uscire dal notiziario scuotendo la testa: “Tutto potrebbe essere vero, tranne quello che dicono i comunicati e i telegiornali”. Solo col protrarsi nel tempo, a parità di penetrazione del virus, la follia generale ora acuta dovrebbe recedere verso forme più moderate. 

 

La massa reagisce con la psicologia della massa. Ma sarebbe più esatto dire: della folla. Cioè di una massa che si trova ad essere investita contemporaneamente da un unico problema per circostanze casuali: la massa si ritrova tutta in piazza perché segue l’annuncio di un comizio, la folla, invece, è quella che vi accorre inaspettatamente perché ha sentito una esplosione. Ora, si ricorda, quello del virus non è un arrivo programmato: si è trattato di una esplosione inattesa. Ma a dirlo sono proprio i mezzi di comunicazione o i politici a cui sarebbe spettato prendere sul serio l’allarme dato dalla OMS, avvertire la popolazione e investire in una prevenzione senza precedenti. Purtroppo, l’attenzione sia dei primi che dei secondi è sempre più indirizzata ai tempi brevi: al massimo, alle prossime elezioni. L’avversario – la pandemia – lavora invece sui tempi lunghi. Basta essere andati a scuola e aver studiato I promessi sposi per ricordarsi che quella del 1630, descritta da Manzoni, era una delle periodiche riapparizioni della peste in quei secoli. Purtroppo oggi il nostro orizzonte temporale si è gravemente ridotto: non solo non si pensa in termini di secoli, ma la idolatria dei temi effimeri può – indirettamente, tuttavia potentemente – contribuire a farci assegnare gli avvertimenti dell’OMS a uno stantio passato manzoniano. Ci ritroviamo all’improvviso tutti insieme nella piazza virtuale, offerta dallo schermo televisivo o del computer. Di fronte ad esso siamo una folla acefala, che proprio per questo meriterebbe di trovare una guida nelle autorità e nei mezzi di comunicazione.

 

La seconda difficoltà psicologica collettiva deriva proprio dall’accorciarsi degli orizzonti temporali. Dovremmo accettare che non abbiamo al momento sufficienti informazioni bio-mediche. In realtà questo è sempre avvenuto nel corso del progresso scientifico. Di nuovo c’è il fatto che raramente ciò riguardava il rischio di pandemie; e che siamo abituati alla comunicazione istantanea, soprattutto attraverso internet e i social. Per significativa coincidenza con il nuovo virus, ci siamo anche abituati a definire “virale” (traduzione dell’americano viral) una diffusione molto rapida, per contagio psichico, di certi messaggi lungo la rete. Chi usa questa espressione, però, sottintende che simili narrazioni possono essere sia cattive sia buone: mentre un virus è solo negativo. Stiamo comunque ancora parlando di comunicazione generalizzata, non di informazione scientifica. Questa non può essere istantanea: avrà bisogno dei suoi tempi, come sempre. Eppure, proprio negli ultimi anni stiamo perdendo conoscenza di una verità elementare: il lavoro degli scienziati ha bisogno di tempo, per la cura e per la prevenzione: proprio per questo l’OMS si era mossa già nel 2018. Però, quasi fino a ieri non eravamo così “tossicodipendenti dall’immediato” (soprattutto dal controllo continuo dello smartphone). Senza andare al secolo scorso, ancora ai tempi della SARS (2003) simili “tossicodipendenti” erano infinitamente di meno: lo iphone è entrato in commercio solo nel 2007. Oggi tutti possiedono uno smartphone, quindi la percentuale di popolazione che soffre di “astinenza da notizie immediate” corrisponde alla maggioranza. Quando la maggior parte di una società è in una crisi di acuta astinenza, essa soffre di un serio disturbo psichico collettivo. Gli storici possono ricordarci che nel 1800 l’Inghilterra sottomise l’immensa Cina perché controllava non gli oceani, ma il commercio dell’oppio: da cui buona parte del ceto medio cinese era dipendente.

 

 La nostra mente non è più abituata ad aspettare e tantomeno a pensare con pazienza. Eppure anche i nostri pensieri difficilmente sono istantanei: quelli veri giungono solo dopo qualche attimo, solo dopo averli “chiamati”. La mente che interviene in modo istantaneo, dunque, si disabitua a pensare articolatamente. Lungo questo percorso, la psiche si sta anche dissociando dal nostro corpo: che dovrebbe formare con esso un’unità, proprio come lo era negli animali o negli uomini storici, forse in via di sparizione. In questa divaricazione, l’impazienza si associa a vistose patologie. Fino a ieri, cucinare richiedeva attenzione e tempo, ma dava risultati gustosi aiutandoci a mantenere la salute e la linea. Oggi si consumano cibi pronti: una conseguenza è l’esplosione incontrollata di obesità e diabete. Gli esperti discutono il perché i quozienti di intelligenza, che nel 1900 continuavano a salire, negli ultimi due decenni tendono a diminuire. Si tratta della nuova malattia del mondo, quella che è stata chiamata “rovesciamento del Flynn Effect” (Flynn è lo studioso a cui dobbiamo la scoperta che nel secolo scorso i quozienti lentamente salivano)? Potrebbe, comunque, corrispondere al periodo in cui abbiamo cominciato a usare lo smartphone: o meglio, non tanto a usarlo, quanto a lasciare che “lui”, prima delle nostre decisioni coscienti, scandisse il ritmo della giornata e della nostra mente.

 

Alcune parti di questo articolo sono state pubblicato su “La Repubblica”, edizione milanese.

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