5 per mille

Rossana Rossanda la ragazza che corre

31 Maggio 2025

Quando ho votato per la prima volta, a due mesi dal mio diciottesimo compleanno, era il 20 settembre del 2020, il giorno in cui è morta Rossana Rossanda. Sentivo allora di muovermi in un orizzonte tutto in formazione, una specie di nebulosa di possibili dalla quale avrei poi tirato fuori un’idea di politica. Leggere le prime pagine di Tutto il mondo è cosa mia di Giorgia Antonelli (Electa 2025, 96 pp.) mi ha riportata a quel giorno di settembre di cinque anni fa, in un tempo in cui il mondo gira a una velocità spaventosa e io chiedo a me stessa quale sia la mia idea di posizionamento. Giorgia Antonelli racconta Rossanda partendo da un’istanza molto precisa e personale (e coglie nel segno, come si vedrà): “Questo progetto su di lei è nato da una ricerca molto personale della felicità” che ha a che fare anche, dice, con “la felicità adolescenziale di una diciassettenne che negli anni novanta comprava Il Manifesto”. Quel che colpisce del ritratto che emerge in questo volumetto snello e arioso è proprio il grande senso di libertà che animava Rossanda, assoluta: assoluta nel senso etimologico, e cioè sciolta da vincoli, pregiudizi e preconcetti; e appassionata, perché animata da una necessità vitale di guardare e ri-guardare il mondo, che era cosa sua, pur essendo talvolta grande e terribile – come aveva scritto Gramsci.

Mi colpiva moltissimo quella pagina di La ragazza del secolo scorso, l’autobiografia che, come ricorda Antonelli, arrivò finalista allo Strega nel 2008 (era soprattutto scrittrice, Rossanda) in cui da giovane apprendista ricordava uno dei momenti più significativi del suo percorso politico: su un tram a Como, tra Camerlata e Olmeda, Rossanda incontra tre operai: “Avevo davanti tre operai sfiniti, forse muratori. Sfiniti di fatica e mi parve di vino, malmessi, le mani ruvide, le unghie nere, le teste penzolanti sul petto. Non li avevo mai guardati, il mio mondo era altrove, loro erano altro, che cosa? Erano la fatica senza luce, le cose del mondo che evitavo, sulle quali nulla si poteva.” Era appena uscita da una biblioteca nella quale si era procurata il Capitale di Marx in uno scaffale senza etichetta. Marx, Stalin, Lenin, Laski: tutti nomi che poco prima il suo maestro, Antonio Banfi, comunista, professore universitario, aveva scritto su un foglietto; era il ’43 e Rossanda ammette “ero quel che parevo, una in cerca di bussola, che non percepiva neppure il senso mortale di certe parole.”

Ecco dunque nel giro di qualche pagina condensarsi l’apprendistato politico di una ragazza del secolo scorso. All’inizio della guerra Rossanda era sfollata a Venezia: “quando torna a Milano,” scrive Antonelli “Rossana è una ragazza che corre. Corre come corrono i giovani, un po’ goffa e scoordinata, ma alla ricerca di un senso per la propria esistenza, e quando l’armistizio del ’43 riempie la città di sfollati, Rossana sa che è il momento di scegliersi la parte”. Essere ragazzi nel ’43 – ma forse ancora nel 2025, se ci penso meglio – significa anche e soprattutto questo: capire da che parte stare. È per fare questo che Rossanda cerca maestri, e li trova in Banfi e negli autori che Banfi le dice di leggere; ma capisce subito che quel che imparerà deve travalicare il confine delle pagine dei libri: è solo guardando quei tre operai sul tram di ritorno dalla biblioteca che impara qual è il suo posto. Nel mondo, e cioè dentro il mondo, accanto a loro, e cercando di capire cosa fare insieme a loro.

Dopo aver letto tutto in preda a una febbre smaniosa e travolgente – ma senza smettere di pensare agli operai (“Ma mi scortecciavo, come nel tram davanti a quei tre malandati pieni di stanchezza e sonno. Addio alla mia intangibilità, addio al sobrio e tiepido futuro, alle lodevoli ambizioni, addio all’innocenza”) torna da Banfi, e Banfi la indirizza verso la strada della Resistenza. È una professoressa di Como a darle il nome cretino di partigiana Miranda. Antonelli insiste su questo: è con questo nome “che nasce Rossana Rossanda, con la sua sete di recuperare il tempo perduto, di darsi da fare, di sentire l’Altro e agire per lui”. L’Altro, come si evidenzia, resta il polo verso cui Rossanda apre lo sguardo; meglio: è lo strumento attraverso cui il suo orizzonte si dilata. È per non “restare quieta in un mondo di ingiustizie”, come affermerà durante un convegno sulla felicità come antidoto al capitalismo, che muove i suoi passi nel campo della politica, nel nome di un impegno instancabile: “è quell’inquietudine che l’ha mossa sempre ad agitare il suo stare al mondo”.

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I primi anni dopo la Liberazione si svolgono all’insegna della necessità di fare: “è così che la politica la conquista, giorno dopo giorno e senza quasi che Rossana se ne accorga: semplicemente, l’impegno diventa sempre più grande”. L’Altro, il mondo: all’insegna del confronto e della curiosità si svolgono le prime indagini dei rapporti dell’Italia con l’Urss – si recherà a Mosca nel 1949 con l’Associazione Italia-Urss insieme, fra gli altri, ad Antonio Banfi. L’altro polo di attrazione, quello culturale (i libri dai quali la realtà l’aveva tirata fuori) la chiama all’azione nel 1951, quando inizia a gestire la Casa della Cultura di Milano in via Borgogna 3: diventerà “un laboratorio culturale vivissimo e tutto teso a mettere in relazione il fermento intellettuale del dopoguerra italiano con le personalità e gli artisti di tutto il mondo” capace di accogliere intellettuali del calibro di Calamandrei, Marchesi, Sartre e de Beauvoir.

Il rapporto di Rossanda con l’universo del PCI si incrina quando nel 1956 viene invasa l’Ungheria e diffuso il rapporto Chruščëv; Togliatti dichiara di non sapere, Rossanda è convinta che il leader menta. “La feroce dittatura di Stalin, la repressione del dissenso e l’invasione armata di un altro paese socialista non lasciavano scampo alla caduta degli ideali. In quei giorni, i capelli di Rossana diventano interamente bianchi. Ha trentadue anni.” Al di là della valutazione politica degli eventi, io credo che qui si manifesti tutta l’indipendenza di Rossana Rossanda, la sua strenua volontà di posizionarsi lì dove credeva fosse più giusto stare, indipendentemente dallo sguardo e dal giudizio altrui – del Partito, in questo caso, dei compagni. E insieme a questo episodio quello della fondazione del gruppo del Manifesto mi sembra costituisca un momento significativo della sua storia personale: dice del coraggio di prender parola, di far risuonare forte e chiara la propria voce in mezzo alle altre, di fondare una strada nuova, che resti radicata nel mondo. 
Il legame fra il tema del femminile e la necessità di prender parola è chiarito molto bene dalle pagine in cui si parla dell’incontro con due scrittrici russe, Anna Achmatova e Marina Cvetaeva, entrambe perseguitate da Stalin: “Totalmente libere, senza interdetti, non seconde a nessuno […] Mai sconfitte, mai con la testa bassa, mai al servizio che di sé” ha scritto Rossanda di loro. Questo suo modo di fare – o di stare: nel partito, fra le compagne e i compagni – continua a parlare alle donne della mia generazione (e di quella precedente a me, come emerge leggendo Antonelli).

È in questo periodo in cui il rapporto con il Partito e con il Comunismo si fa turbolento che Rossanda “cerca una strada nuova in cui quel suo io politico che si muove per gli altri possa tenere insieme la volontà di cambiare il mondo attraverso l’azione politica e lo spirito critico nei confronti del suo stesso partito”. Siamo nel 1958: Rossanda è candidata alle elezioni col PCI, ma resta “con uno sguardo vigile, attento e dubbioso, senza cedere di un millimetro all’adesione incondizionata”, esercitando dunque il suo sapere critico. Resta comunista, lo resterà sempre, anche se il suo lavoro all’interno dei confini del partito diventerà via via più complicato. Alla morte di Togliatti, che l’aveva chiamata agli inizi degli anni ’60 a Roma per gestire la politica culturale del PCI, e dopo l’XI convegno del partito, Rossanda si vedrà demansionata, “colpevole di non aver apprezzato il realismo socialista e di aver scritto su “Rinascita” un criticato articolo commemorativo su Togliatti, che ne sottolineava anche le ombre”. Rimane deputata fino al 1968; fonda l’anno dopo la rivista “Il Manifesto”, con l’ambizione di rilanciare un dibattito capace di aprire nello spazio della sinistra percorsi nuovi, al passo con i tempi e le contestazioni che andavano sollevandosi nelle piazze, nelle scuole, nelle università. Il primo numero della rivista esce nel giugno ’69 – il primo editoriale scomodo (Praga è sola) arriva a settembre e costa ai fondatori l’espulsione dal partito: “A Rossana e ai suoi non resta che continuare a difendere le proprie idee, e usare la voce e la penna per portare avanti la rivoluzione.”

Vorrei concludere questo articolo provando a ragionare sul femminile e sul femminismo mettendo in reagenza quel che fa Rossanda con le ragioni che muovono la necessità di creazione di una collana come Oilà. Antonelli scrive: “Questo fa Rossanda con il femminismo: si mette in ascolto, dibatte con l’arguzia dialettica che le è propria, mette in discussione se stessa e le altre, esercitando sempre il dubbio necessario a scalfire le proprie certezze”. Riemerge il nodo della necessità di allargare lo sguardo, facendosi sollecitare dalla differenza, con rispetto profondo dell’Altra ed enorme fiducia nel dialogo con le Altre: Rossanda sa intercettare “le donne come luogo di cambiamento politico, di trasformazione, parte dall’idea che “essere donna è tutto un lavoro, una prescrizione, un dubbio. Ti avvertono, te lo comandano”, per arrivare all’idea che si può smontare quella prescrizione grazie al costante mutamento”. Ecco che tutto sembra tenersi: l’idea di un confronto fecondo con la dimensione dell’alterità (femminile) sollecita la ricerca di Giorgia Antonelli, il cammino politico di Rossana Rossanda, ed è anche fra le ragioni per cui nasce questa collana, Oilà (il cui titolo riprende una celebre strofa della canzone popolare socialista La lega, poi entrata nel repertorio delle mondine). Curata da Chiara Alessi, propone – come “un’esclamazione rivolta alle donne e al loro lavoro” – storie di donne che hanno in qualche modo lasciato una traccia del loro sguardo nel mondo. Un’esclamazione, appunto, ma anche una sorpresa, un’esortazione: così nel giro di 96 pagine il lettore è sollecitato all’adozione di un punto di vista nuovo, e l’universo sembra, per un attimo, rimettersi in moto. Un augurio, anche, in fondo: “A oilì oilì oilà e la lega la crescerà”, insieme a Rossanda e alle Altre.

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