La luna è tramontata

10 Gennaio 2016

Un dilettante come me al Teatro Carignano di Torino? Era un nuovo esperimento neorealista tipo “Ladri di biciclette”? E il fortunato ero io? Soldi niente. E chi mai avrebbe osato chiederne?

 

 Era successo che qualche organo inappellabile di quelli che controllavano la democrazia di allora, aveva proibito, per motivi di ordine pubblico, o anche solo di “sgradimento”, la messa in scena, per le celebrazioni del X Anniversario della Liberazione (il 25 aprile 1955, per i giovanetti d’oggi che non lo ricordassero), di “Le notti dell’ira” di Armand Salacrou. Il guaio era che, dal cast alla scenografia, ai costumi, tutto era già stato completato dalla “Cooperativa Spettatori del Piemonte”. Mancava solo la prova generale al Carignano, il sogno d’oro di ogni attore professionista figuriamoci poi di quel branco di dilettanti venuti dai campi e dalle officine, compagni che, per l’occasione, avevano intrappolato, ai minimi sindacali, due o tre attori veri in pensione da tempo. Adesso toccava rifare tutto.

 

Saltò fuori in sostituzione di emergenza “La luna è tramontata” di John Steinbeck, che è strano provenga dalla stessa penna e dallo stesso inchiostro di “Furore”, “La battaglia” e “Uomini e topi”. Doveva trattarsi di una sceneggiatura scartata da Hollywood, che però ebbe il merito di farmi convocare in extremis. Ero uno dei tentativi messi in atto per rabberciare in tutta fretta la improvvisata nuova esibizione. Quel copione sgangherato permetteva però di salvare almeno un personaggio del vecchio cast, un’attrice non brutta, bravina, già sul viale del tramonto. La mitezza avvizzita che le veniva spontanea, vera o simulata che fosse (una Rina Morelli in minore, molto in minore) donava al suo corpicino una voce tremula, appropriata a una vittima della barbarie nazista.

 

Gli altri interpreti erano tutti da trovare di nuovo, ma non era poi così difficile perché la pièce, ambientata in Norvegia, era popolata da rudi pescatori di merluzzi, oltre che, ovviamente, da perfidi nazisti. Bisognava cercare alcuni pochi attori veri, che “tenessero la scena”, per anziani che fossero. Come per esempio il vecchio inerme e combattivo sindaco, eroe della giustizia e della libertà contro il traditore Quisling e la sua cricca fascista.

 

La Cooperativa Spettatori del Piemonte era l’anello di una mostruosa catena ancora in formazione, quella che poi si sarebbe chiamata ARCI, qualche anno dopo, e ci voleva poco a capire che, dietro tutto, c’era il Partito Comunista, “Il Principe” di Machiavelli. Poi si sarebbe gridato alla rinascita del MINCULPOP, alla sistematica falsificazione del sapere… Ma quella spaventevole macchina da guerra della cultura faziosa poteva venir stoppata con un’alzata di ciglio da qualsiasi parroco, poliziotto, democristiano di provincia… Si chiamava democrazia prima di essere declassata a “democrazia incompiuta”. Per distinguerla da quella di oggi, che si definisce talvolta “democrazia matura” e talaltra “bipolare” (l’amore che combatte contro l’odio e viceversa). Macché di oggi: questi fatti e queste considerazioni riguardano il secolo scorso, adesso non si definisce più nulla: le democrazie sono al tramonto. Così, nell’ambascia di non mancare all’appuntamento del Decennale, scelsero perfino me, proprio me, ebreo, per sostenere la parte di un sanguinario SS. Un trionfo per un giovane di 22 anni che, dopo le lezioni della Cooperativa, si esercitava nella mimica per ore e ore. Ero riuscito a rappresentare la morte di un albero divorato dalle fiamme, vestito con un body verdefoglia e le scarpette da ballerino, tutto comprato a rate senza pagarne neppure una. Alla troppo fiduciosa “Boutique de la dance”.

 

Ero un pino in fiamme, e ne interpretavo l’agonia per un’ora fino a ridurmi un mucchietto di cenere. A giudicare dagli applausi alla IV sezione PCI, è probabile che la commozione per un simile impegno senza sbocco si unisse all’entusiasmo per l’arte mimica che era considerata di sinistra, anzi, rivoluzionaria (ma anche “Il lago dei cigni”, quando, s’intende, interpretato dal balletto del Bolshoi), era l’esaltazione della capacità di uscire dal chiuso del proprio io per fondersi, senza parole, nella collettività: Marcel Marceau. Per chi fosse pallido, smunto e magro, col volto affilato e sofferente: io. Di alta statura. Forse un pochino curvo di spalle…

 

 

Mi esercitavo in segreto in ufficio, sprangato in un cesso fuori mano, studiavo la morte della farfalla dai mille colori che non esisteva e non si vedeva, ma palpitava nel palmo della mia mano, viva solo per i miei sguardi all’inizio adoranti ma via via sempre più accorati per la morte di quel prodigio della natura. Una specie di Vispa Teresa, ma non a lieto fine. Tiravo ogni volta la catena del water per camuffare le lunghe assenze dalla caotica scrivania di aspirante aiuto contabile in prova.

 

Ero alto di statura, e solo questo si accordava con il mio personaggio. Una parte importante, anche se io, l’aguzzino, stavo in scena per pochi minuti, impettito e senza neppure spiccicare una parola. Emaciato com’ero, dovevo apparire nelle vesti di un teutonico possente e disumano col solo aiuto di postura e gestualità…

 

Una certa crisi di regia ci fu, quando si capì che, all’interno di un elegante appartamento con i mobili d’antiquariato dipinti sul fondale, era improbabile che un inquirente nazista smunto calcasse in testa l’elmetto. “Per ripararsi dal rimpallo delle proprie randellate”, aveva in un primo tempo per tagliar corto azzardato il regista, che poi però, pur lottando contro la propria tendenza all’approssimativo assoluto, aveva dovuto concedere che l’anziano professore norvegese veniva solo schiaffeggiato sul palcoscenico, mentre la tortura sarebbe stata in seguito patita da lui e dagli spettatori raccapricciati dalle urla disperate del vecchietto provenienti dalle quinte. Niente elmo dunque. Peccato, perché questo avrebbe risolto il problema dei miei capelli tanto lunghi, crespi e corvini da farmi sembrare piuttosto un abissino che un ebreo di Torino, figuriamoci poi un terribile Waffen SS. Meglio dunque un tedesco biondo, per quanto stereotipo.

 

Il barbiere, dopo avermi tagliato i capelli cortissimi, me li aveva ossigenati: “Tanto ti ricrescono subito, bambin!”. La scelta era certamente caduta su di me per la mia bravura di mimo. Temevo tuttavia che nel regista ci fosse stata qualche arrière pensée professionale: l’arroganza di riuscire a farmi recitare fuori parte per vantare la propria maestria di regista. E va bene, adesso dovevo andarmene in giro biondo per un po’ anche se in ufficio non sarebbero stati affatto clementi con me.

 

Nella vita reale mi ero fatto una ragazza, della quale io, reduce da avventure sentimentali agghiaccianti, mi stavo innamorando, Paola. Amore e sensualità marciano appaiati, ma talvolta l’intenerimento dei sensi predomina, tal altra la passione carnale. Questa nuova compagna che univa l’avvenenza alla tenerezza e al tratto cameratesco dei rapporti era per me l’amico con le cosce.

 

Me ne aveva già fatte di tutti i colori, e gliene sono tuttora riconoscente. L’estate dell’anno prima l’avevo portata con me a Varigotti, una spiaggia per famiglie di Torino, dove volevo presentarla a una coppia di sposi, miei amici, sionisti e comunisti arrabbiati, di una pruderie impressionante, e anche beffardi con me e le mie stravaganze amorose (contraddizioni quasi tutte inconcepibili nel nuovo secolo). “Tutti in spiaggia” esclamarono i due al nostro arrivo, già sogguardando la mia vistosa compagna con un misto di inquietudine per lei e dileggio per me. La quale se ne uscì dalla cabina ancheggiando in un bikini sperimentale. Come altrimenti definire un due pezzi bianco tanto succinto da non essere ancora osato neppure nelle riviste di Macario?

 

Alla sua apparizione si levò una ondata di confusione delle madri di famiglia, mentre i loro bimbi continuavano ebeti a giocare con le palette nella sabbia. Fu allora che la mia ragazza smise di ancheggiare e, presa la rincorsa, si tuffò con eleganza sportiva fra le onde ancora non inquinate del mare. Sembrò tornare la calma, anche se i miei amici continuavano a scrutare il litorale forse per studiare le reazioni sociali delle massaie di Borgo Vanchiglia.

 

Quando poi Paola, fattasi una bella nuotata, emerse dalle onde, compresi troppo tardi il perché del suo bikini bianco: l’acqua lo aveva fatto diventare trasparente, del tutto trasparente: sembrava nuda come una Venere o un verme. Il panico si diffuse nello stabilimento: molte madri chiusero con le mani gli occhietti dei loro bimbi, le altre scapparono dalla spiaggia, tenendoli appesi alle braccia come cuccioli di Scottish Terrier. I miei amici avevano affondato le facce nella sabbia come è abitudine degli struzzi per non farsi notare, ma con le spalle squassate dalle risate. Nel pomeriggio ritenni opportuno trasferirmi in fretta con la mia ragazza verso la Costa Azzurra, alla ricerca di luoghi più ospitali, e finii all’Ile du Lévant, il tempio a cielo aperto dei naturisti nudisti progressisti del mondo intero. Quel che accadde in quell’isola è troppo complesso per essere raccontato ora, e sarà oggetto di una novella a parte.

 

Ma ora torniamo a “La luna è tramontata”. Le prove si mostrarono più difficili del previsto, anzi, tragiche. L’attore principale fu investito da una moto alla fermata del tram, e mentre lui era degente assai grave in ospedale, il regista si mordeva i pugni e gridava, sbigottendo chi lo ascoltava: “Quel bastardo ci ha tradito! Ma io gli faccio causa!”. Era così convinto del tradimento, che lo pensò anche al funerale di quel poverino, al cimitero. A ogni palata sulla bara pensava: “Goditela, bastardo! Figlio di puttana, sei perfino morto pur di rovinarmi lo spettacolo!”.

 

Forse per rivalersi del tradimento del morto il regista venne assalito da una di quelle crisi di perfezionismo che connotano l’insorgere della nevrosi, come dimostrarono, per esempio, Luchino Visconti o Giorgio Strehler. Sennò come poteva arrivare Strehler alla suprema turpitudine – costata migliaia di prove e crisi di singhiozzi da far pietà – di far cadere, ne “Il giardino dei ciliegi” di Anton Cechov, la prima foglia dell’autunno proprio mentre Eleonora Rossi Drago anela con voce flautata “A Mosca, a Mosca!”. E la foglia scendeva scendeva lenta al di là della staccionata bianca. E ogni spettatore inebetito dalla rappresentazione, perfetta fino al delirio, si sentiva schiantare le coronarie per l’inanità di quel rifugio sognato che presto avrebbe visto – ben al di là delle intenzioni dell’autore ma non del regista – le folle cenciose e fumanti di rabbia e omicidio, seguire ciecamente nel ghiaccio della Geenna moscovita Lenin e Trotskij che spalancavano il terribile ventesimo secolo, il futuro sognato del 1917.

 

E proprio a questi vertici del realismo magico teatrale, maledizione!, il regista si ispirava quando mi faceva ripetutamente schiaffeggiare lo sventurato vecchietto superstite. E mi insegnava che gli schiaffi veri in teatro risultano falsi perché lo schiaffo scenico deve essere “portato” (diceva proprio così) per arrestarsi a un millimetro dal volto. E il rumore del ceffone? Ci doveva pensare il generale delle SS, che, non visto dagli spettatori perché girato di schiena ma in sincrono perfetto con la mia interpretazione, doveva battere le mani per simulare il ciaff e subito dopo voltarsi verso di me per ordinarmi con crudele indifferenza: “Di là, e fate un buon lavoro”.

 

Purtroppo la mia arte di mimo spesso non arrivava al punto di “portare” lo schiaffo con tanta abilità da non centrare in pieno la guancia del vecchietto. E spesso quel trombone del generale delle SS – che era stato reclutato nel ricovero degli artisti di Bologna – non riusciva a seguire la simulata rapidità del mio braccio cosicché batteva le mani o troppo presto o troppo tardi. Fallivamo il sincrono, e il regista smise di minacciare di andarsene a casa quando constatò che la sua minaccia qualche effetto, su di me, lo aveva: sembravo sempre più inferocito.

 

Alla prova generale, tutti in costume col cerone, invitai la mia Paola a venire al Carignano a vedermi. Mi accorsi con compiacimento che la ragazza al suo arrivo aveva fatto colpo su tutta la compagnia. Lei, felice, esclamò che per una volta nella vita avrebbe potuto seguire uno spettacolo dai soffici divani del Palco Reale. Un certo Cin Goccimiglio, che nel dramma rappresentava la continuità della vita oltre gli orrori della guerra (e infatti il sipario si chiudeva sulla sua minuscola silhouette di pescatore con la lenza sullo sfondo della luna che tramontava) si offrì gentilmente di accompagnarla. Io mi accoccolai in un angolo isolato fra le quinte perché ero un seguace del metodo Stanislavskij, che consiste, com’è noto, nell’immedesimarsi nella parte, riflettendo soprattutto su ciò che non è rappresentato. Così l’artista si costruisce una sua personalità che il pubblico percepisce attraverso la metafisica teatrale, quell’incanto che risale ai tempi di Eschilo: il prima che non c’è più, e il dopo che non c’è ancora.

 

Nella mia testa ero un contabile di Hannover che, licenziato per scarso rendimento da un’impresa di pompe funebri, si era arruolato nelle SS per rigenerarsi attraverso la cieca fedeltà agli ordini del Fuhrer. La banalità del male, avrebbe poi sentenziato Hanna Arendt, anni dopo di me.

 

Tuttavia intravidi, dall’altra parte del palcoscenico, Cin Goccimiglio che saltellava sfavillante da un attore all’altro, gesticolando in modo un po’ forsennato come per esprimere qualcosa di meraviglioso che stava accadendo nel palco reale.

 Pochi istanti dopo, come per un accordo, fu un pescatore di merluzzi con la fiocina che si allontanò dal crocchio che si era formato. Era un compagno della Snia che nella commedia, mentre rammendava la sua rete da pesca, veniva trascinato via durante un rastrellamento e deportato, nel secondo atto. Quando tornò saltellando come Cin Goccimiglio, si ricongiunse al crocchio, e, a un suo cenno, corse fuori dal palcoscenico un collaborazionista di Quisling che nella vita era, come me, fuori corso a giurisprudenza.

 

Il fantasma del contabile di Hannover si era ormai dileguato dal mio inconscio: la mia fidanzata stava “ricevendo”, a turno, sui sofà del Palco Reale, norvegesi, traditori, vittime, persecutori, tutto il cast de “La luna è tramontata”, compresi i pompieri, salvo, ma bisognerebbe riuscire a dimostrarlo, i pensionati. L’unica rappresentazione che ci fu si celebrò il giorno successivo, col teatro gremito, qualche discorso di occasione, perché di una lunga cerimonia si trattava, che andava ben al di là di una rappresentazione teatrale di contorno. Ci furono anche applausi a scena aperta, per me. Qualcuno gridò dai loggioni: “Bravo, Aldino!”: erano i miei colleghi di ufficio che non mi avevano perdonato i capelli ossigenati.

 

Dopo lo spettacolo, fui molto dignitoso: piantai, con parole meste ma contenute, la mia morosa, “per le troppe esagerazioni della prova generale”; e lei, che fra le sue virtù non includeva certo la virtù ma l’onestà sì, non negò nulla.

Niente polemiche, dunque. Niente rancori e rabbie.

Forse si stupì per la mia perspicacia.

 

 

Roma, 2 gennaio 2016

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