Speciale

Cammino male

29 Settembre 2011

Cammino male, con la minaccia sempre imminente del cedimento, della zoppia. Il piede sembra saldo, il muscolo tonico, ma è come se avvertissi che da un momento all’altro, non per un dislivello del terreno o per disattenzione, ma per un’improvvisa carenza strutturale o una sospensione chimica, per lo sciopero di qualche cellula o il fulmineo tradimento di una fibra, il muscolo non reggerà più, il tendine, persa la propria guaina, si sfilaccerà, si allenterà, e la caviglia cederà, gli arti si disarticoleranno, giù verso terra: un luogo non dove muoversi e passare, ma dove, volente o nolente, consistere: stare.
Poi, guardando le scarpe, mi accorgo che è solo una questione meccanica. Me lo dice il consumo delle suole: molto maggiore sulle punte, inclusa la tomaia, e sui margini esterni dei tacchi. In genere appoggio i piedi a partire dal calcagno, un po' inclinati in fuori, ben aderenti al suolo fino alla punta, sulla quale esercito una forte spinta per ripartire, mentre quando l'andatura è rilassata li trascino, sfregandoli sul suolo senza alzarli del tutto: in ogni caso, alla minima protuberanza o imperfezione, e quando salgo o scendo le scale, inciampo o viceversa perdo l'appoggio, brancico il piede nel vuoto come a minacciarlo (ma è il contrario, di fatto), ovvero mi ritrovo a effettuare scarti improvvisi.
Oltre che frequentissime, queste deviazioni diventano pericolose lungo i sentieri o ai bordi di certe strade di campagna strette e senza marciapiedi, dove l'asfalto scalina di colpo in una striscia di terriccio in pendenza, pieno di buche e spesso invaso dai cespugli e dalle erbacce dei margini. Il rischio è che, per recuperare l'equilibrio, sterzi verso il centro della carreggiata mentre arriva una bici o, peggio, un'auto o una moto a tutta velocità, tanto di lì non passa mai nessuno. Quasi mai. Perché infatti ogni tanto, con apprensione e soddisfazione insieme, una macchina capovolta in prato, o incastrata in un fosso o tra gli alberi, mi capita di scorgerla. I cippi funerari però sono sempre di persone travolte, a piedi o in bici.
Sia come sia, fatico a tenere la linea retta, procedo sghembo, traccio arabeschi angolari, mi avvito e ondeggio, e per evitare la strada mi ritrovo spesso oltre i margini, tra la sterpaglia, o a una spanna dall'acqua se passeggio lungo il fiume o i canali, come mosso da un tropismo vegetale o liquido, dal desiderio di tornare agli elementi primordiali, di sprofondare una volta per tutte nella memoria materiale del mondo. Di conseguenza sono costretto a guardare sempre e solo gli immediati paraggi, o a focalizzarmi sui dettagli, e non vedo mai il paesaggio, l'insieme. Oltre a camminare, quindi, vedo anche storto, o poco e male, e, come effetto non secondario, penso pure storto. Cammino a testa bassa, e quelli che incrocio mi credono immerso in chissà quali pensieri, e invece sto solo guardando il terreno. Ma a guardare così comincio a notare certe cose, e siccome ho le mie piccole coazioni, mi affretto a cercare quelle simili o che potrebbero entrare in relazione con esse e a organizzarle in una visione seriale, a classificarle secondo criteri noti o inventati per l'occasione, e ripongo tutto in cartellette mentali che forse non riaprirò mai.
Il paesaggio lo compongo a partire da queste serie e dagli  affetti di cui le caricano le circostanze e i tempi. La diversità dei pochi percorsi che ripeto da anni dipende meno dai cambiamenti meteorologici e stagionali, pure importanti, che dai segmenti che di volta in volta emergono o sono richiamati da questa o quella percezione o pensiero occasionale, dalle loro combinazioni e dagli elementi portati alla ribalta. E tanto mi basta. Mi sembra importante, anzi, anche se me ne sfugge il motivo. Come mi sfugge di cosa sarei la metafora, che a volte ho la certezza di incarnare, precisa sin nei minimi dettagli. Cammino troppo male per vederla, i piedi che strisciano rasoterra, lo sguardo incollato al suolo, il mondo invisibile attorno.

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