Lorenzo Lotto: il bagno di Gesù Bambino
Il volto di Maria è commovente, giovane, ingenuo quasi, assorto nel gesto delicato dell’accudimento, come capita alle nuove mamme che hanno paura di far male al bambino, che se sbagliano qualcosa, fragile com’è, si possa rompere. Incantevole.
La giovanissima madre è già vestita, senza traccia dei dolori del parto, che forse le sono stati risparmiati, come afferma il Vangelo dello pseudo-Matteo. Indossa abiti semplici, di cui deve essersi coperta in tutta fretta, senza darsi cura delle apparenze, come sembrano suggerire i capelli ravviati alla bell’e meglio con due ciocche appena accennate, meravigliose, che scendono una sulla fronte e l’altra sulla tempia destra. “Vergine ha concepito, vergine ha partorito e vergine è rimasta”.

Ora guarda con sublime dolcezza il Figlio, che la ricambia, ed è osservata, quasi scrutata, con uno sguardo invece pieno di apprensione dalla levatrice a cui porge il bambino perché lo lavi, senza nessuna parola o raccomandazione, in piena fiducia, sicura che lei se ne prenderà cura con la necessaria cautela.
Anche lei dovrebbe essere sicura nei suoi movimenti, ma è come bloccata, sorpresa e sgomenta anche se cerca di non darlo a vedere, da ciò che le è appena capitato, con le mani che si sono anchilosate, paralizzate miracolosamente a causa della sua incredulità a proposito della verginità di Maria. L’oggetto della sua attenzione, ora, è più la Madre che il Figlio che le viene affidato, e infatti la fissa ansiosa, come in attesa interrogativa di cosa accadrà, eppure, nonostante la menomazione, protesa anche, con il gesto automatico di chi per professione è avvezzo a gestire i primi momenti della vita dei neonati, a cercare di dare un supporto alla madre-ragazzina. E forse è in questo suo accostarsi che ne percepisce la singolarità e comincia a dubitare del proprio dubbio, a rinunciare alla propria incredulità e così a recuperare la propria salute e salvezza.

Fra poco il Bambino, scena mai rappresentata prima, farà il suo primo bagnetto. Ed è Il bagno di Gesù Bambino che dovrebbe più correttamente intitolarsi questa Natività di Lorenzo Lotto, ospite al Museo diocesano di Milano fino al 1° febbraio 2026 proveniente dalla Pinacoteca nazionale di Siena.
Il vecchio san Giuseppe assiste alla scena allargando le braccia per lo stupore, abbagliato dalla luce che emana dal Bambino e gli illumina la veste e una parte del viso, catturato dall’evidenza di un miracolo a cui astrattamente era già preparato, ma che ora si manifesta nel suo fulgore davanti a lui. Si china verso il Bambino, tutto compreso di ciò che sta accadendo, pensoso, meditativo, ma restando in ombra, un po’ arretrato, timoroso di intralciare, e insieme pronto a proteggere, a soccorrere e a rendersi utile.
In ombra, nonostante la vicinanza al bambino, è parzialmente anche la levatrice, soprattutto la fronte e gli occhi, non ancora raggiunti dall’illuminazione, che però non tarderà ad arrivare, mentre invece in piena luce sono le mani, con le dita monche, che la connoterebbero come l’Anastasia di alcune versioni delle leggende sull’infanzia di Gesù (secondo quanto decifrato da Daniel Arasse, in un testo citato da Daniele Del Pozzolo nel suo saggio molto bello presente nel catalogo della mostra), o contratte, come per la Salomè dei Vangeli apocrifi che dubitava della verginità di Maria (ma forse il pittore ha sovrapposto le due figure), rattrappite per l’improvvisa paralisi che le ha colpite in punizione per la sua incredulità, ma che stanno per esser sanate a breve, quando il velo d’ombra che copre i suoi occhi sarà rimosso.
Il bagliore che si irradia al centro del quadro è fortissimo e si riverbera in vario grado sui personaggi rappresentati, mentre tutto attorno resta sprofondato nel buio. È la luce del Salvatore che è venuta a illuminare il mondo, la luce che nelle sue mille declinazioni è anche il fulcro di tutta l’opera di Lorenzo Lotto, che ha dipinto la tavola nel 1525, alla fine del periodo bergamasco, il più felice della sua vita personale e artistica. Lo sguardo dell’osservatore si dirige immediatamente verso il Bambino che ne è la fonte, motivo che è già presente in alcuni quadri fiamminghi (come l’ambientazione notturna derivata dal Vangelo di Luca e probabilmente anche dalle Rivelazioni di santa Brigida di Svezia, come suggerisce Nadia Righi nel catalogo) e che verrà ripreso anche negli stessi anni da Correggio, per diventare molto comune in seguito. È la luce principale, spirituale, della scena da cui tutto prende senso e volume; mentre quella fioca, naturale, del camino sullo sfondo, che illumina solo la seconda levatrice e il panno che sta scaldando al fuoco, si annida nelle tenebre più che dissolverle.
Il resto è immerso nell’ombra di questa capanna dall’apparenza spartana, ma che brulica di una stupenda teoria di umili oggetti disposti a terra, uno sgabello, e dietro, la culla dove il bambino verrà presto deposto, un paiolo, una tazza fumante con cucchiaio su un ripiano di braci per rifocillare Maria, gli attrezzi (un falcetto e, forse, un coltello) appesi al pilastro alle spalle delle due donne, e infine, in basso a destra, una grossa anfora dove il pittore ha apposto la sua firma.
Sullo sgabello, in parte tagliato ma che ancora si intravede in basso a sinistra, c’è un libro aperto, quasi certamente alla pagina di Isaia 9:5, o a quella di Michea 5:2, con la profezia della divina nascita, ma che mi piace pensare che Maria stesse ancora leggendo fino a quando sono cominciate le doglie e che lo abbia lasciato lì, aperto, per riprendere la lettura esattamente dal punto in cui era stata interrotta. Io avrei fatto così. Presto, appena possibile, perché in quelle righe è indicato, ribattuto, anche il suo destino, essendo indubbiamente la verità, quella enunciata dalle Sacre Scritture, anche se il libro potrebbe essere benissimo uno qualsiasi, perché tutte le scritture, secondo me, in qualche modo sono sacre. Alle spalle di Maria ci sono gli animali che assistono all’evento, il bue tranquillo e assorto, e l’asino che tende il lungo collo e spalanca la bocca (bellissime le labbra che lasciano scoperte le gengive e la dentatura, con l’intensità che ritroveremo solo, ma con significato opposto, nel cavallo di Guernica) in un raglio che sembra voler annunciare la nascita al mondo intero, quasi a inneggiare all’evento incomprensibile eppure così straordinario da aver scosso nel profondo lui pure.

Tutta la scena è concentrata, di impatto fortissimo proprio perché niente distrae dalla sua fulgida claustrofobia, anche se noi sappiamo, da una copia presente nei depositi degli Uffizi, che è l’effetto di un taglio della tavola, che ha tolto profondità in particolare allo spazio che sulla sinistra si prolungava in altri ambienti bui in fondo ai quali un uomo illuminava una scala con una torcia o candela, mentre sotto c’erano la figura intera del bue, la culla e lo sgabello, trasformando il formato da orizzontale in verticale. Il taglio ha spostato il centro dell’opera sul Figlio, mentre prima era la Madre. Cosa che però si afferma immediatamente anche ora. È lei il fulcro emotivo. È a lei che guardano il Bambino e la levatrice formando un triangolo ravvicinato di sguardi. Non appena ci si accosta sono la sua figura, la postura e soprattutto il volto che calamitano lo sguardo e subito commuovono.
È un quadro da guardare da vicino, questa Natività, accostandosi e sostando a lungo come certamente facevano il committente che pregava e meditava nella sua casa o cappella e Lorenzo Lotto mentre la dipingeva, che per lui era sovente un altro modo di pregare. Per questo la visita alla mostra è indispensabile. Tra l’altro c’è poca gente, non è un’esposizione che richiama le masse, e si può arrivare quasi guancia a guancia con il quadro, nella stessa intimità che esso ci mostra, entrando nel suo spazio anche fisicamente, e non solo con l’adesione devota, religiosa prima ancora che estetica, che l’opera imperiosamente (con una delicatezza imperiosa) esige, cioè richiede e comanda.
Non c’è quadro di Lorenzo Lotto che, almeno in me, non produca un’intensa commozione. Era il suo obiettivo, peraltro, è la sua singolarità e la sua forza. Ognuno ha un punto di commozione o di stupore diverso. Anche quando i motivi sono ripresi c’è sempre qualcosa di inedito, una serie di invenzioni narrative e figurative senza eguali, dove anche la minima variante nella forma o nel gesto ne rispecchia un’altra nell’emozione e nel senso. Ogni volta è una sorpresa, un turbamento, un incanto. Il riconoscimento di un comune sentire per sfumature prima ignorate, di una fratellanza.
A rafforzare questo sentimento è il fatto che, diversamente da altre Natività, qui la scena è assolutamente terrena, domestica. Siamo in un interno, si stanno approntando le prime cure dovute al neonato. Non ci sono visitatori, né umani né angelici, nessuno assiste, solo le due levatrici e Giuseppe, che però non è un estraneo, e anzi assicura la completezza del quadro famigliare. Potrebbe benissimo trattarsi di una delle infinite nascite che stanno avvenendo nel mondo in quel momento che è tutti i momenti, come direbbe Borges, se non fosse per la luce che emana dal Neonato, che però non si discosta di molto da quella che tutti i famigliari vedono attorno a ogni neonato appena giunto nelle proprie case. Per tutti ogni nato è divino.

Il Figlio, come farebbe ogni altro bambino, sembra ritrarsi e raggrinzirsi, rabbrividendo al contatto con l’acqua, anche se probabilmente è calda. Le spalle si contraggono, le braccine, piegate, si stringono al corpicino, invece di protendersi, come sempre nelle natività, verso la madre, o per impartire una precocissima benedizione. Le labbra si arricciano, gli occhi sono spalancati come per timore di ciò che gli stanno per fare, che ancora ignora, o per il destino che gli è prefissato e che già avverte. Appena nato già sperimenta, come tutti, la paura. Anche il ventre sembra quasi che si inarchi per allontanarsi dal pelo dell’acqua, esibendo in tal modo con maggiore evidenza il cordone ombelicale che pende verso il minuscolo sesso appena accennato, raddoppiandone il senso di testimone della piena umanità del Bambino. Postura e espressione stupende, di grande tenerezza e empatia (empatia con il Salvatore!), mai viste prima in pittura, e che mai più si vedranno.
La scena resta puramente, poveramente domestica, e solo in questo numinosa, come ogni vita e ogni donna che la vita la dà. Ci sono sì i raggi che partono dalla testolina del Bambino, appena delineati a formare proletticamente una croce, ma anche se non ci fossero non ci sarebbero dubbi sulla parte di trascendenza che dall’evento quotidiano si sprigiona. Anche la Madre è divina solo nella sua piena, totale umanità, senza bisogno che adotti posture ieratiche, o di adorazione e preghiera, o che Qualcosa o Qualcuno lo attesti. Basta uno scambio di sguardi con il Figlio, e la divinità si effonde in pura luce su tutto e tutti. Niente è più divino della semplice e pura dolcezza umana. Dello sguardo amoroso e della cura di un essere indifeso, dell’accudimento di un corpo.
Lorenzo Lotto, La natività, a cura di Axel Hémery e Nadia Righi
Milano, Museo Diocesano, fino a 1° febbraio 2026
Catalogo a cura di Axel Hémery e Nadia Righi, Dario Cimorelli editore