Piacere e godimento del testo / Cosa leggeva Umberto Eco?

29 Aprile 2016

Che cosa leggeva Umberto Eco? Quali erano, più in generale, i suoi consumi culturali? La biblioteca della sua casa di Milano si snoda su diversi ambienti in modo labirintico e quella immateriale che si desume dalla bibliografia delle sue opere è praticamente sconfinata. Tutto quello che ha scritto, romanzi compresi, dichiara un’erudizione fuori dal comune e solo molti eruditi di diverse discipline, collaborando fra loro, potrebbero tentare di ricostruire una mappa esaustiva delle sue letture. Scelgo quindi solo uno dei fili rossi che si possono intravedere, e cioè quello che sembra ad alcuni in dissonanza con la sua fama di studioso: la passione, assolutamente confessata, che Eco aveva per la letteratura popolare, compresi film, telefilm e fumetti. Chiunque l’abbia conosciuto abbastanza bene sa che poteva passare con nonchalance dallo Pseudo-Dionigi Areopagita all’Intrepido, dalle nebbiose atmosfere di Gérard di Nerval a Don Matteo, non equiparandoli, ovviamente, ma godendone in diverso modo, come diremo.

 

Nelle sue riflessioni sulla letteratura popolare (si vedano i saggi contenuti in Apocalittici e integrati, 1964; e ne Il Superuomo di massa, 1970), Eco riprende l’idea del carattere ideologico e consolatorio della letteratura popolare. Questa, a differenza della letteratura in senso proprio, va incontro alle aspettative del lettore, scioglie gli intrecci nel modo il più aderente possibile ai valori del pubblico, si avvale di ripetizioni e di scelte stilistiche già note al pubblico riducendo a cliché le soluzioni originali trovate dalla letteratura.

 

L’ispirazione dichiarata è ad Antonio Gramsci e alla sua idea di un’egemonia di tipo culturale che contribuisce a mantenere sottomesse alcune classi sociali. Questa è la pars destruens, legata al dialogo di quegli anni con la filosofia marxista. Ma già allora Eco dice anche che il romanzo popolare “metterà in opera una tale energia, sprigionerà una tale felicità, se non inventiva almeno combinatoria, da procurare piaceri che sarebbe ipocrita nascondere: perché esso rappresenta intreccio allo stato puro; spregiudicato e libero da tensioni problematiche. Occorre riconoscere che la gioia della consolazione risponde a profonde esigenze se non del nostro spirito almeno del nostro sistema nervoso.” (Superuomo, p. 12). Il romanzo problematico mette in discussione la differenza fra bene e male mentre quello popolare fa trionfare il bene definito nei termini della moralità, dei valori, dell’ideologia corrente. Bisogna però, dice Eco, non limitarsi al piacere ma “smontare il meccanismo”.

 

La semiotica, e la critica culturale in generale, potrebbero apparire a questo punto un facile stratagemma per guardare in santa pace trash tv, film di serie C, serie televisive di ogni tipo, e leggere romanzi di genere (poliziesco, rosa, fantascienza, erotico, horror, ecc., a seconda delle predilezioni) senza sentirsi troppo in colpa. In realtà questo “smontare il meccanismo” è una faccenda molto seria che mette anche al riparo dal Kitsch. A “La struttura del cattivo gusto” Eco dedica uno dei capitoli ancor oggi più interessanti di Apocalittici e integrati (giusto l’anno scorso, per il cinquantesimo, è stata pubblicata una raccolta di saggi: 50 anni dopo Apocalittici e integrati, a cura di A. M. Lorusso).

 

Il Kitsch vi viene definito come “prefabbricazione e imposizione dell’effetto” (corsivo dell’autore) in ambito artistico: in particolare provocare un effetto sentimentale utilizzando espressioni già cariche di fama poetica. Il pubblico si illude di fruire di un prodotto artistico mentre in realtà si tratta di un’imitazione. Eco dice che la cultura di massa si trova in una situazione antropologica di dialettica fra proposte innovatrici e adattamenti omologatori, con un pubblico che scambia continuamente prodotti kitsch per prodotti artistici. Il Kitsch si nutre dell’usura delle forme artistiche, del loro sfruttamento fuori contesto, come nei ritratti di Giovanni Boldini dove le ricche committenti vengono rese naturalisticamente, in tutta la loro carnale avvenenza, ma poi vestite di chiffon e di sete dipinte secondo lo stile impressionista, per dare l’idea che il pittore fosse “davvero un artista”.

 

Eco confronta tre brani tratti da Le tigri di Monpracem di Salgàri, Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e la Recherche proustiana dove vengono descritte per la prima volta, rispettivamente, Marianna-La Perla di Labuan, Angelica e Albertine. Riprenderemo più puntualmente questo esempio più avanti. Per ora ci limitiamo a osservare come Il Gattopardo sia considerato da Eco a metà strada fra l’estremamente popolare Salgàri e l’estremamente raffinato Proust: quello dello scrittore siciliano è uno scrivere “equilibrato e dignitoso”, “modello ideale di un prodotto medio” “destinato a piacere senza eccitare”, “eccellente prodotto di consumo” che non arriva mai al Kitsch (“dove il messaggio è formulato apposta in modo che il lettore si entusiasmi per un autore che scrive così bene”, p. 125) È questo il modello a cui Eco si è ispirato nello scrivere i propri romanzi? Certamente, ma assieme a questo, a moltissimi altri.

 

Nei saggi Sulla Letteratura (2002) e in particolare in quello intitolato “Come scrivo”, dice che la stesura di ogni romanzo gli ha preso mediamente sei-sette anni di lavoro e che ogni opera doveva rispecchiare lo stile e la mentalità dell’epoca in cui era ambientata: Il nome della rosa, per esempio, doveva riprodurre il discorso “sempre omogeneo – del cronista medievale, preciso, fedele, ingenuo e stupito, all’occorrenza piatto (un monacello del Trecento non scrive come Gadda, né ricorda come Proust” (p. 340). Per il Pendolo di Foucault allestisce un vero laboratorio letterario, lo stile va “da quello delicato e arcaicheggiante di Aglié, quello smagatamente e ironicamente letterario (voluto e sofferto) del Belbo dei files segreti, quello mercantile e kitsch di Garamond […].” Per l’Isola del giorno prima fa riferimento alla letteratura barocca, con intemperanze verbali del protagonista che il narratore a volte deve giustificare con il lettore; per Baudolino fa una prima stesura in un pidgin padano del XII secolo, consultando dizionari storici e dialettali “se non che, probabilmente, il ricorso a schemi dialettali mi ha ricondotto alla mia infanzia e alla mia terra natale, e dunque a un mondo già pre-costruito, almeno nel ricordo" (p. 345).

 

Pur padroneggiando virtuosisticamente moltissimi registri e sostenendo che per lui il narrare è una forma diversa di teoresi (cfr. su Doppiozero l’articolo di Gianfranco Marrone), l’autore non nasconde la sua ammirazione per il romanzo popolare, specie per quello che ha delle formidabili trovate narrative. In “Invenzione narrativa e tecniche del discorso” (in Grignaffini, Pozzato, Mondi seriali 2008) espone una distinzione fra romanzi che sono scritti bene senza avere invenzione narrativa, come l’Ulisse di Joyce; romanzi che hanno invenzione narrativa e sono anche scritti bene, come I tre moschettieri; e romanzi che hanno grande invenzione narrativa ma sono scritti male, come Il conte di Montecristo e I Misteri di Parigi. Dice Eco: “Si ha invenzione narrativa e produzione di miti anche con storie raccontate malissimo e che non sono opera d’arte, mentre opere d’arte squisite non hanno invenzione narrativa e non hanno prodotto miti” (p. 323). Quindi la cosiddetta letteratura di consumo non è solo un modo consolatorio di passare il tempo, non attiva solo riflessi pavloviani, ma è anche capace di mitopoiesi. La faccenda si fa più complicata…

 

Eco, con la sua prodigiosa memoria, conosceva bene ed era in grado di raccontare, e quindi di confrontare, un’infinità di intrecci tratti da classici del romanzo popolare. Questo ha caratteristiche che sono state ben studiate: per esempio una certa stereotipia dei personaggi, primo fra tutti l’eroe vendicatore, che trae alcune caratteristiche psico-fisiche dal satanismo romantico: in genere è alto, elegante, magro, dotato di incredibile forza fisica, potenza magnetica dello sguardo, labbra sottili che indicano controllo o tumide e ben disegnate se dotato di carica sensuale; mani lunghe, fini, fortissime, indice di appartenenza di classe anche per esercizio sportivo. Dal punto di vista delle doti morali, esse sono all’insegna dell’eccesso come prodigalità, temerarietà, fermezza eccezionale, amore per la giustizia che arriva al delitto, coscienza di sé fino all’alterigia, capacità di soggiogare le donne che arriva alla misoginia. Poi ci sono l’Antagonista e l’Amico Leale che spesso controbilancia gli eccessi dell’eroe che tende al libertinaggio o è poco attratto dalle donne e tutto incentrato sull’attività mentale. In altri termini, o abbiamo un estroverso facile all’amore o un eroe che fa uso solitario di intelligenza razionale. Entrambi cercano una donna Ideale che non raggiungono mai, per cui il destino dell’eroe resta segnato da sterilità e morte.

 

La donna realmente incontrata o è vittima, o è antagonista persecutoria (la maliarda seduttrice) o svolge un ruolo vagamente incestuoso di eterna fidanzata-sorella. L’importante è che il rapporto non sia mai paritario: per esempio in Carolina Invernizio (1851-1916) le donne intelligenti e autonome sono sensuali e malvagie, spesso esotiche; mentre la donna buona ha i tratti regolari, è mite, vergine, con un carattere plasmabile come cera. Ecc. (cfr. Dame, droga e galline. Romanzo Popolare e romanzo di consumo tra Ottocento e Novecento, a cura di Antonia Arslan, 1986). Ora, non si può assolutamente dire che nei suoi romanzi Eco si ispiri solamente ai romanzi popolari anche se alcune ambientazioni e alcuni personaggi ne sono un’evidente derivazione, soprattutto nelle parti dark, nel complottismo, o nelle derive farsesche che possono essere lette come parodie delle iperboli del romanzo popolare. In tutti romanzi di Eco, ma a mio avviso spiccatamente ne Il nome della rosa, Il pendolo di Foucault, Baudolino e Il cimitero di Praga, si sente questa influenza, questa gravitazione attorno al pianeta, per la maggior parte di noi ormai oscuro, della narrativa popolare fra 800 e 900.

 

Questi libri erano invece ancora in gran voga quando l’autore era bambino e adolescente. Ne La misteriosa fiamma della regina Loana (2004) si vede come la “dieta culturale” del piccolo protagonista, facilmente apparentabile a Eco, fosse già quella di un super onnivoro: dai calendarietti dei barbieri che gli accendevano le prime fantasie sessuali, alle canzoni degli anni Trenta; dai romanzi di Conan Doyle alle avventure fumettistiche di Buffalo Bill. Sarebbe impossibile elencare tutte le reminiscenze culturali evocate in questo romanzo che compone tuttavia un quadro importante della cultura popolare degli anni Trenta e Quaranta quale poteva apparire a un ragazzino curioso dell’epoca. Nei Saggi sulla letteratura, come fonte dei suoi romanzi infantili, Eco si limita a indicare il Giornale illustrato dei viaggi e delle avventure di terra e di mare, annate 1911-1921; legge più grandicello autori dell’epoca, come Giovanni Mosca, Giovanni Guareschi; racconta infine che a sedici anni si innamorò della poesia ermetica.

 

Il piccolo Umberto, prima di darsi al fumetto, tenta di scrivere un romanzo ma lo chiude dopo solo ventinove pagine così: “Intraprenderò un lungo viaggio … Forse non verrò neanche più; una piccola confessione: i primi giorni mi dichiarai mago. Non è vero: mi chiamo solo Pirimpimpino. Perdonatemi” (p. 326). Delle poesie che scrisse durante l’adolescenza Eco dice di avere “motivata vergogna”: “la mia poesia aveva la stessa configurazione formale dell’acne giovanile. Di qui la mia decisione (mantenuta per un trentennio) di abbandonare la scrittura cosiddetta creativa, e di limitarmi alla riflessione filosofica e all’attività saggistica”. La via che lo porta da quest’ultima alla scrittura creativa sono le parodie, i pastiches con i quali, durante il trentennio d’embargo, “stavo nel contempo soddisfacendo una mia passione narrativa” (p. 329). 

 

  

Essere consapevole di un meccanismo, poterci giocare, riprodurlo a piacimento controllandone le derive kitsch sembra dunque la conditio sine qua non per accedere di nuovo a un’attività letteraria che non incorresse nella severa autocritica della giovinezza. 

Come esempio riprendiamo il confronto fra Proust, Salgàri e Tomasi di Lampedusa che Eco fa nel suo saggio sul Kitsch. La descrizione delle diverse apparizioni dell’amata verso la fine de La misteriosa fiamma della regina Loana sono molto simili a quelle della Perla di Labuan in Salgàri. Confrontiamole:

“ Apparirà una fanciulla di sedici anni, bella come una rosa che si schiude in tutta la sua freschezza ai primi raggi di un bel mattino rugiadoso, con una lunga veste cerulea, sormontata dalla cintura fino al ginocchio da una reticella d’argento, imiterà il colore delle sue pupille, ben lungi dal pareggiare l’etereo azzurrino, il molle e languido splendore di quelle, e sarà sommersa dal diffuso volume delle chiome bionde, morbide e lucenti, frenate soltanto da una corona di fiori [… ] sarà una fanciulla di diciassette anni, snella ed elegante, dalla vita così sottile che una sola mano basterebbe a circondarla […]” (Eco, La misteriosa fiamma .., pp. 440-441)

 

“Era una fanciulla di sedici o diciassette anni, piccola di taglia ma snella ed elegante, dalle forme superbamente modellate, dalla vita così sottile che una sola mano sarebbe bastata per circondarla, dalla pelle rosea e fresca come un fiore appena sbocciato. Aveva una testolina ammirabile, con due occhi azzurri come l’acqua del mare, una fronte di incomparabile purezza, […] una capigliatura bionda le scendeva in pittoresco disordine, come una pioggia d’oro, sul bianco busticino che le copriva il seno.” (Salgàri, Le tigri di Monpracem, citato in Apocalittici e integrati, pp 119-120).

 

Sembra, quella di Eco, quasi una citazione. Ma sappiamo anche quanto egli amasse il racconto di Gérard de Nerval Sylvie, da lui tradotto e a più riprese analizzato. Si può confrontare il brano appena citato con le due apparizioni in Sylvie della giovanissima nobildonna Adrienne (capitoli 2 e 7), diafana e bionda, incoronata dal protagonista con un serto di fiori da lui stesso intrecciato e, più avanti, durante la rappresentazione nell’abbazia di Châalis, con “il nimbo di cartone dorato, che le cingeva il capo angelico”, la lunga veste azzurra, ecc. Non possiamo dimostrarlo qui, ma queste descrizioni plurime dell'amata ne La misteriosa fiamma sono anche ispirate dal Cantico dei cantici e dalla mistica medievale, detta “nuziale”, che Eco conosceva molto bene. Insomma in ogni snodo, in ogni scena, è facile intuire come confluiscano riferimenti letterari plurimi e provenienti da opere di livello e di epoca assai diversi.

 

Qual è la conclusione? Cosa leggeva Eco? Di tutto e, accanto al versante erudito, nelle opere di Eco si nota quello giocoso che gli deriva dalla ripresa coltissima, ma divertita e divertente al tempo stesso, dei generi leggeri. Ma proprio la sua immensa cultura e la sua memoria fuori dal comune gli permettevano una perfetta sintesi di quei due fenomeni che Roland Barthes distingueva e chiamava piacere del testo e godimento del testo. Barthes diceva che il “testo di piacere: [è] quello che soddisfa, appaga, dà euforia; quello che viene dalla cultura, non rompe con essa, è legato a una pratica confortevole della lettura.” e il “testo di godimento” [è quello che ] che dà problemi e perfino noia al lettore, mette in crisi i suoi valori, lo scuote e lo arricchisce (Il piacere del testo, 1973, p. 13). Secondo Barthes un soggetto può tenere tutte e due le redini del piacere e del godimento “perché partecipa nello stesso tempo e contraddittoriamente all’edonismo profondo di ogni cultura […] e alla distruzione di questa cultura: gode della consistenza del suo io (è il suo piacere) e cerca la sua perdizione (è il suo godimento)” (p. 14).

 

Eco rientra a pieno titolo in questa tipologia. Nei suoi romanzi, nei suoi saggi e nei suoi pastiches egli dimostra in continuazione che ci si può divertire nella ripresa di una cultura popolare perché la fruizione consapevole rende tutto potenzialmente problematizzante, e il divertimento e la leggerezza non sono necessariamente sinonimi di banalità e di superficialità. Alla fine de Il nome della rosa, si ricorderà, padre Jorge brucia la biblioteca, quindi il sapere umano, per eliminare la cosa che ritiene più pericolosa: un’opera di Aristotele sulla commedia e sul riso. Affrontare in chiave critica il popolare, gli stereotipi, ciò che dà piacere mantenendone il piacere è una via difficile, una fra le tante che questo maestro contemporaneo ci ha indicato. 

 

Testo della conferenza Umberto Eco: la passione dei libri del 28 aprile presso La Biblioteca di Discipline Umanistiche dell’Università di Bologna in occasione dell’XI ciclo degli incontri Ex Libris.

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