Norimberga: i gerarchi e lo psichiatra
Le Condition d’infini 5 – Sous la coupole, di Jean Daive, pubblicato dalle edizioni P.O.L. nel 1996, viene ora tradotto e pubblicato nella collana dedicata esclusivamente a Celan, Rive dell’altro, curata da Domenico Brancale e Anna Ruchat (nel caso di questo volume la traduzione è di Brancale), con il titolo Sotto la cupola. Passeggiate con Paul Celan (Ibis-FinisTerrae, Como-Pavia 2025). Il libro esce il 23 novembre 2025, giorno del compleanno di Paul Celan, ed è costruito per brevi sequenze dialogiche, a margine delle passeggiate parigine dei due poeti: è un libro-frammento dove Daive e il poeta di Czernowitz tessono una conversazione ininterrotta. Narrati da Daive, gli ultimi anni di Celan non ci appaiono solo contrassegnati dai laconici “microliti” della sua prosa ma sono anche i gesti minimi, dolenti, quotidiani, offerti al suo “compagno segreto”. L’incontro di Daive e di Celan, nella traduzione di Brancale, con le voci che “si intrecciano nella grana della scrittura”, ci guida alla realtà profonda di ogni libro tradotto: dove è necessario non solo trasferire un testo dall’una all’altra lingua ma, nel “tradursi”, occorre compiere una sorta di “esodo” che rinnova entrambe le lingue, fra fedeltà dell’interpretazione e compromesso del tradimento. Il libro che ne scaturisce è paradossalmente luminoso: evoca, sì, le tenebre di quell’inconscio senza speranza, che abita da sempre Celan, ma anche la bellezza dei singoli istanti che due vite vicine e affini graffiano dall’orlo del pozzo. Il libro di Daive non mitiga la potenza del lutto: Celan, morto per sua volontà, è l’ombra che sottende tutto il libro. Non ci si abitua mai alla scomparsa di chi ci è stato intimamente vicino ma la parola è sempre l’ultima a morire e quindi resta, nella piccola immortalità degli istanti passati e nella grande immortalità della parola poetica.
Un dialogo fra Daive e Celan ci trafigge, fra tutti, e si sviluppa in occasione dell’allunaggio dell’uomo sull’astro lunare:
«– Il primo uomo sulla Luna! Ci vuole sempre un primo uomo. Una scoperta presuppone sempre un primo uomo e qualche sorpresa.
– Ah!
– Scoprendo altri mondi, l’uomo imparerà che tutti gli astri sono vuoti, e che è solo. Dico che è unico. Che è solo.
– Con molto cielo attorno.
– Troppo cielo. E un cielo senza colore.
– Senza angeli.
– Gli angeli sono nella mente e nei libri. E l’uomo è l’unico a imprimerne un’immagine».
Non è difficile respirare, in queste brevi parole, un’atmosfera leopardiana da Operette morali, dove le “sorti progressive” dell’uomo, dileggiate dal poeta di Recanati, sono qui l’ingenua utopia di un futuro destinato a crollare. La realtà che resta, non angelica, non poetica, non astronomica, ma spietata e incolore, è unica nel definire il vuoto irrimediabile della solitudine celaniana.
Sotto la cupola. Passeggiate con Paul Celan è un libro che abolisce il tempo e lo spazio per rendere visibile l’amicizia, il ricordo, il sogno, la parola, e la loro assenza. Daive guida il lettore nel tempo delle sue camminate parigine con Celan e in quello dopo la sua morte: intreccia la scomparsa del poeta alla propria personale biografia, agli incontri con le donne amate, alle telefonate con Gisèle Lestrange (la moglie di Celan, grafica e illustratrice, morta nel 1991).
Nominare i luoghi delle sue passeggiate con il poeta rende ognuno di quei luoghi stazione dolente e luminosa di una mappa-costellazione: il Luxembourg, la Fontaine Médicis, Rue Soufflot, Rue Descartes, Rue Tournefort, Rue d’Ulm, Rue de Longchamp, Avenue Émile Zola, Rue Mouffetard, Place de la Contrescarpe, Rue des Écoles. Il magico potere del nome già agisce sul lettore come balsamo al dolore previsto e irrimediabile. La presenza del giovane autore di Decimale blanche, a cui Celan promette che tradurrà le sue poesie, consola chi ha già “segnato”, quasi cronologicamente, il proprio destino (“il giorno in cui toglierò l’orologio, la mia decisione di morire sarà presa”). L’ineluttabile morte di Celan è la ferita da cui Daive non guarirà mai. Afferma: «Ancora oggi sono senza parole». E ammutolisce ricordando quel magico, irripetibile incontro della giovinezza. «Tutti questi anni (1965-1970) mi sono sembrati un’eternità in cui si intrecciano salmo e sciabordio».
Affiora, da questo libro, la sensazione che il tempo, continuando a scorrere, renda esprimibile l’inesprimibile. Tutti gli anni susseguenti alla morte di Celan si popolano dei ricordi e delle fantasie nate nel decennio finale della vita del poeta. Ma il tono di Daive poeta, anche a distanza di anni, è sempre quello del “frammento”, la sola forma espressiva che conceda alla memoria di riemergere per poi tornare a sommergersi. Nomi di città, luoghi, artisti (Vienna, Praga, Taormina, Franz Kafka, Edmond Jabès, André du Bouchet, Giuseppe Ungaretti, Martin Heidegger) vibrano, in questa amicizia di flâneurs, come segni che trovano nuova vita nella traduzione del poeta Domenico Brancale, perfettamente a suo agio nella ricerca, chariana, di alliés substantiels. Proprio il sentimento dell’alleanza, anche postuma, conferisce nuovo senso alle amicizie vere. Jacques Derrida scrive, in Ogni volta unica, la fine del mondo (tr. it. Jaca Book, 2025): «Non si dovrebbe prendere gusto al lutto, che però è necessario. Bisogna farlo, ma non amare il lutto in sé, se esiste qualcosa del genere: non amarsi attraverso le proprie lacrime, ma amare soltanto l’altro, e ogni lacrima è dell’altro, dell’amico, del vivente come noi, che ci ricorda di custodire la vita». Daive, in Sotto la cupola, realizza questo. E non dispiace pensare che un simile titolo rimandi a quella che è, a tutti gli effetti, la volta protettiva e sacra che simboleggia l’amicizia stessa, dove ciò che ha vita è il senso intimo della lingua, vissuta e pensata con una creatura affine.

Daive percorre la costellazione dei suoi frammenti con delicato affetto e minuziosa esattezza. Alcune delle frasi del libro commuovono e feriscono; «Paul cammina con le mani dietro la schiena»; «L’eternità è grigia» (Paul Celan); «Un violento stare all’erta al momento dei nostri incontri»; «Paul Celan mastica la parola come fosse una pietra. Tutto il giorno. In questo c’è un’energia verbale. Tutto è trasferito nell’energia della parola composta. La biografia è lì». L’intuizione di Daive appare definitiva: la biografia del poeta è dentro il suo linguaggio, è l’”energia della parola composta”. Nient’altro.
Sous la coupole, riflessione a posteriori intorno a un’amicizia fondamentale per gli anni della formazione personale del poeta francese, rientra nel più vasto progetto, articolato in sette volumi, intitolato La condition d’infini, pubblicato presso l’Editore P.O.L., in cui Daive incontra/ricorda personaggi che incarnano quella sete di infinito e di verità, fondamentale nella poesia di Celan al punto da impedirgli di accettare il compromesso della vita. Daive osserva: «Non c’è risposta. Guardarlo è dolcezza, grande attenzione». Nessuna frase potrebbe essere più paradigmatica. Attenzione e dolcezza: è la fibra interna di questa amicizia che, in modi diversi, riecheggia le passeggiate di Carl Seelig con Robert Walser: ma, mentre Seelig voleva mettere in luce la complessità di Walser, ancora ignota alla maggior parte dei suoi lettori, Daive resta in disparte: è il compagno giovane del grande poeta, lo segue ma non cerca nulla, trascrive con umiltà le parole che ascolta, vive “con lui” i suoi ultimi giorni e non dimentica mai Gisèle Lestrange: «Autunno 1989. Rue Montorgueil. Ci rivediamo. L’emozione è grande. Mercure de France ripubblica le mie traduzioni di Paul Celan – aumentate – con il titolo Strette e Autres Poèmes. Gisèle mi conferma il suo consenso. Ritrovo l’appartamento, intatto. Mi precipito. La biblioteca è lì con tutti i libri. Nella classificazione di Paul. Non devo cercare a lungo I relitti di Charles Baudelaire. La copia comprata a 1 franco sulle rive della Senna è al suo posto da venticinque anni. Nonostante la vita e le visite. Nonostante il trasloco».
Celan dice a Jean Daive, a un tavolo da caffè: «Una parola è una parola e tradurmi significa trovare la parola giusta [...] A volte è necessario lasciarsi andare a una deriva del senso. È altrettanto necessario tornare subito al punto di partenza, riprendere il senso letterale: è quello giusto». Quella frase precisa – Una parola è una parola – è vera e falsa. Nessuna poesia è solo una parola ma tutto il magma oscuro del discorso confluisce lì, in un nome, un aggettivo, un verbo. Solo in quello. Ma l’ossessione della morte non si allontana mai per troppo tempo dai pensieri del poeta di Czernowicz. «– Jean Daive, sa cosa ci dice al mattino il nostro infermiere, entrando nel dormitorio: “In piedi, voi morti!”». Questo violento flash su uno dei numerosi ricoveri psichiatrici del poeta è un lampo di fulminea crudeltà, che forse abbiamo immaginato ma che qui viene esposto nella sua irrimediabile nudità. Daive lo annota senza ulteriori commenti: «...rovesciare, capovolgere, è attitudine celaniana – si pensi soltanto a quei passaggi del discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Georg Büchner (der Meridian) in cui evocando la figura del poeta Lenz ne ricorda il desiderio di camminare a testa in giù (per “avere il cielo come abisso”) o quando cita propri versi che, rappresentando la poesia, ne fanno un “camminare sulle mani sopra un sentiero di ortiche”». Il desiderio di camminare avendo “il cielo come abisso” è la furia del capovolgere l’esistente e scorticarsi fino al dolore più intollerabile. «Le mani dietro la schiena, cammina sul marciapiede di rue Soufflot con un’energia diversa: ho l’impressione che si arrampichi invece di camminare, che si innalzi invece di avanzare».
Le parole di Jean Daive non ci mostrano solo l’essenza della poesia di Celan ma ci spingono a vedere, come in uno specchio appannato e fuori dal tempo, la sua andatura, i suoi gesti, le sue esitazioni, e le disperate speranze: «Sì, la poesia deve scalfire il mondo. La poesia è una diagonale che scalfisce il mondo come la sintassi è la diagonale della poesia».
Il volume è punteggiato di spazi bianchi, di silenzi. La voce del poeta ne scaturisce netta, decisiva: sembra impossibile poter pensare un libro come questo senza l’attenta e amorosa traduzione di Brancale, intendendo per “attenzione” una forma esatta di concentrazione poetica sulle singole parole. «Qualche cosa (della parola) è una preghiera. Spesso. Preghiera, no. Parola. Spiritualità orale o scintillio, stella, razzo».
In una sua pagina Daive ricorda: «Un giorno entro alla Sorbona: osservo i falsi affreschi e vedo il grande Anfiteatro vuoto. Paul ha vissuto l’esperienza della presentazione del suo caso clinico in un anfiteatro quasi simile, deve essere stato un orrore […] Gisèle mi racconta l’orrore. Le crisi di follia. La testimonianza dei vicini. Il furgone della polizia. Il ricovero. E Paul esposto come caso clinico in un anfiteatro davanti agli studenti di medicina che prendono appunti».
Occorre non dimenticare mai la reale sofferenza mentale del poeta: fa parte non solo del suo paesaggio psichico ma del suo paesaggio verbale. Spesso il lettore, leggendo i versi di Celan, ha la percezione di una parola precipitata nella sintassi, condensata, folgorante, difficile. Ma la “difficoltà” nasce dal bisogno mentale di tradurre, in modo immediato, il gorgo dell’emozione nei gorghi della lingua. Dove la parola si inabissa, come si inabissò nelle acque della Senna il corpo reale del poeta. «Ricordo: Paul al suo ritorno da Londra: “Ho visto Dio, ho sentito Dio: una lama di luce sotto la porta della mia camera d’albergo”. E più tardi: “A volte Dio, a volte niente”».
Difficile, per chi legge Celan, sottrarsi al suo sguardo sempre spietato e troppo grave, sia che indaghi le immagini delle cose sia che esplori la vertigine del mondo nel linguaggio. Dice: «Ho visto Andrej Rublëv. È lunghissimo… Andrej Tarkovskij si prende il tempo per dire tutto. E credo che un giorno ne pagherà il prezzo, a costo della vita». Ed è chiaro come, per Celan, sia impossibile non prendersi questo tempo e non pagarne il prezzo. L’arte è senza scampo. Scrive Daive: «Linea ininterrotta che ci attraversa e ci divide, linea di scrittura che anticipa la nostra fine. La fine di Paul Celan a Parigi nella Senna. La fine di Ingeborg Bachmann, tre anni più tardi, a Roma, trovata morta nel suo letto, bruciata. Come?».
Su quel “come” i poeti si interrogano da allora. Un “come” che richiama anche un “perché” che mille spiegazioni potrebbero, ma solo in parte, dipanare. Scrive Henri Michaux: «Sulla strada della sua esistenza Paul Celan trovò grandi ostacoli, grandissimi, molti pressoché insormontabili, un ultimo insormontabile del tutto. In questo penoso periodo noi ci siamo incontrati […] senza incontrarci. Abbiamo parlato per non dover parlare. Troppo grave era, in lui, ciò che era grave. Non avrebbe permesso che vi si penetrasse. Per bloccare aveva un sorriso, tante volte, un sorriso che era passato per tanti naufragi».
Rimodellare la prosodia nella materia della memoria, nelle fibre della lingua, nel respiro della frase: ecco l’utopia del poeta Celan. Sous la coupole, di Jean Daive, ci fa tornare, letteralmente, al giorno in cui Paul Antschel decise di sparire dalla terra. Giorno annunciato, voluto, mai dimenticato dai poeti che vissero dopo di lui e che parlarono di lui. Un’esclamazione, il lampo di una frase nella bocca di un amico, ci richiama a quell’attimo e porta noi lettori, tutti insieme, a essergli accanto proprio allora:
«L’indomani della presunta scomparsa di Paul, un amico si piazza in avenue Émile Zola, sotto le finestre dell’appartamento. Grida: “Paul, Paul”».
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