Che razza di destra

15 Luglio 2011

“Quella stessa nave che risaliva il Nilo verso Abu Simbel, e che avrebbe potuto benissimo suscitare miti egizi di navi sulle acque dell’al di là, era di fatto ancora una delle navi sopravvissute che erano servite a portare le truppe inglesi a reprimere la ribellione del Sudan. Se di mito si doveva parlare, in quell’occasione c’erano molti miti del potere che si affollavano verso i confini nubiani, sotto le costellazioni”.

 

Questa pagina, tra le più belle di Furio Jesi (germanista, storico delle idee, antropologo culturale, morto a soli 39 anni di enfisema polmonare), riassume bene il rapporto con il mito di una delle intelligenze più sottili, eclettiche e inquiete del dopoguerra. L’improvvisa associazione fra remoto e presente, fra numi egizi e colonialismo, illumina i due lati di Jesi che “nel mito vede un richiamo simbolico al profondo, a una struttura originaria carica di senso e di destino” (Gianni Vattimo) e al tempo stesso coglie le mistificazioni e i giochi di potere di cui il mito nella storia delle civiltà antiche e moderne è stato strumento. È un passo, quello sul Nilo, che aiuta a comprendere l’ultima opera della sua vita, Cultura di destra (1979), recentemente ristampata da Garzanti.

 

Jesi era consapevole che il mito poteva essere qualcosa di altro (“Che ora non so e che per onestà non posso dire di sapere”), ma negli ultimi anni si era dedicato quasi esclusivamente allo smontaggio del mito come macchina di potere. Alcune riesumazioni “irrazionalistiche” gli parvero pericolose e ambigue sul piano culturale come su quello politico: erano gli anni delle stragi e Jesi (pur sapendo che le bombe avevano scopi più immediati) vedeva nell’azione terroristica qualcosa di analogo ai “compiti inutili” da eseguire per favorire l’avvento di “una razza della Tradizione”, propri delle farneticazioni paraesoteriche delle SS. E case editrici come la patavina Ar, collegata a Freda e Ventura, rilanciavano le mitologie ariane, il pensiero di Evola, l’antisemitismo, eccetera.

 

Scrive Jesi nella prefazione del libro: “Non si può dedicare un certo numero di anni allo studio dei miti o dei materiali mitologici senza fare i conti con la cultura di destra”. E lui li aveva fatti. Autodidatta, vincitore per concorso della cattedra di tedesco alle università di Palermo e di Genova, aveva tradotto il Tramonto dell’Occidente per strappare l’opera, grandiosa e inquietante, di Spengler alla traduzione di Evola e al monopolio della reazione.

 

E ora che rune, svastiche, croci celtiche rispuntano a ogni angolo d’Europa, che non si contano le profanazioni (teppistiche o “rituali”?) di cimiteri israeliti, una rilettura di Jesi (fra l’altro è uscito dalla Morcelliana anche L’accusa del sangue, due saggi sulle mitologie dell’antisemitismo) è utile alla comprensione del presente anche se, dice Franco Ferraresi dell’Università di Torino e studioso del pensiero di destra, i naziskin italiani sono all’80 per cento ultras calcistici e per un altro dieci adepti di gruppi musicali. “Solo un restante dieci per cento fa politica hard; e all’interno di esso, solo una minoranza coltiva mitologie: per esempio la rivista “Orion” diretta da Maurizio Murelli, il fascista responsabile con Loi della morte dell’agente Marino”. Un rapporto sul fenomeno sarà presentato fra quindici giorni a Torino nel corso di un seminario dell’Istituto Gramsci.

 

Anche lo storico Franco Cardini conferma che dentro i crani rasati ribolle “l’hard rock nazidemoniaco di complessi come i Kiss (King in Satan Service) o i Led Zeppelin con i loro messaggi subliminali a base di sangue e droga, epigoni del teppismo americano anni ‘50, tipo Hell’s Angels, che usava simboli del Reich per sconfinare nel proibito”.

 

Forse, per scoprirvi un substrato mitologico (posto che esista) ci vorrebbe un altro Jesi, il cui contributo, secondo il politologo Giorgio Galli, “fu decisivo per comprendere la cultura di destra negli anni ‘70”. “Penso, però”, aggiunge, “alle sue personali difficoltà: innamorato com’era del mito, lo vide trattato in forme che lui, uomo di sinistra, non poteva condividere, utilizzato dalla cultura di destra e non da quella di sinistra che, nel suo materialismo, era ferma a considerare le mitologie manifestazioni dell’umanità allo stadio infantile”.

Anche Cardini attribuisce a Jesi una sorta di “schizofrenia”: “Politicamente vicino al marxismo, avvertiva una sorta di attrazione per l’oscurità ma questo lato notturno, comune anche a Carlo Ginzburg, conteneva della genialità. Jesi fu antesignano di certe letture, da Spengler a Bachofen, allo stesso Eliade che critica duramente per i rapporti con la Guardia di ferro di Codreanu ma del quale cura l’opera Yoga, immortalità e libertà.

 

Mi pare di cogliere un filone che parte dal Pavese studioso dei miti, passa per Jesi, arriva a Cacciari e che definirei sinistra perplessa di fronte alla teologia della sinistra, di fronte ai suoi dogmi e ai suoi anatemi. Fu proprio per reazione a quelle scomuniche, forse, che Jesi studiò Guenon ed Evola, sentendosi naturalmente toccato nel vivo in quanto ebreo dal razzismo, biologico o dello spirito che sia. Ma si deve all’inquietudine di quella sinistra, di personaggi come Jesi, se certe letture non sono rimaste confinate nell’orticello delle piccole intellighentsie di destra”.

 

Sui meriti di Jesi, è ancora più esplicito Ferraresi: “Nello smontare le macchine mitologiche politico-razziali, Jesi sapeva bene che l’antirazionalismo è reazionario: negare la ragione che tutti possediamo significa negare l’eguaglianza e concludere che pochi eletti detengono verità e poteri straordinari. Ciò nonostante, ha avuto il coraggio d’avventurarsi nei meandri esoterici del fascismo europeo: e ciò richiede straordinarie attitudini letterarie e antropologiche come quando analizza il culto della morte e confronta il lugubre misticismo iberico del Tercio (“Viva la muerte!”) o il culto sacrificale dei legionari di Codreaunu con gli “inni” guerreschi italiani che chiama “trovatine”, quasi dei ballabili”.

 

Nel suo lucido vagare fra le tetre macchine mitologiche approntate dai regimi in chiave razziale e antisemita, Jesi usa toni sprezzanti verso l’esoterismo becero, incolto, che ne costituirebbe il collante. E allora sorge una domanda: se giudicava grossolana, dozzinale, quella cultura esoterica, forse riteneva che ne esistesse un’altra, di grana fine, di metallo più nobile? “Non ne accenna in modo diretto”, risponde Giorgio Galli. “Si limita a giudicare esoterismo banalizzato, per esempio, le iniziazioni delle SS; ma se fosse vissuto più a lungo, magari ci avrebbe dato una risposta lui stesso, proseguendo nell’esplorazione del mito”. Cardini è ancora più esplicito: “Jesi non ha fatto in tempo a scavare nel filone neoplatonico della cultura europea, da Giordano Bruno a Campanella a Bacon; ma se pensava a un esoterismo altro rispetto a quello rozzo di Himmler, forse si sarebbe messo a studiare il legame fra quella cultura e l’esoterismo ebraico, cabalistico, del quale come ebreo poteva andare orgoglioso”. Quel forse racchiude altri dubbi rimasti irrisolti con la fine prematura di Furio Jesi: per esempio a proposito degli aspetti “possibili” del mito, che aveva intravisto navigando sul Nilo ma che non aveva avuto il tempo d’indagare con lo stesso, febbrile puntiglio usato per smontare le macchine mitologiche.

 

(Pubblicato il 24 gennaio 1993 sul Corriere della Sera

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