Nir Baram. Brave persone

10 Gennaio 2012

La domanda è nota, se la sono posta in molti, Primo Levi, Hannah Arendt, Jean Améry e più recentemente Christopher Browning, Daniel Goldhagen: chi erano i carnefici? Uomini o demoni? E quanti erano? Un’élite del male che si è impossessata del potere nella Germania degli anni Trenta e nella Russia sovietica o una massa di anonimi e diligenti servitori dello Stato – padri di famiglia, bravi ragazzi volenterosi, giovani in carriera, nonni amorevoli, intellettuali colti e raffinati – tutti vittime di un sentimento di paranoia collettiva, che individuava senza tentennamenti il nemico da abbattere, il male da estirpare alla radice, le idee da distruggere, le cospirazioni da sedare?

 

Anche le risposte sono note, le ricerche storiche lo hanno documentato: alla distruzione dell’Europa hanno partecipato in molti, la macchina per funzionare aveva bisogno di una rete estesa di collaborazioni, di una minuta divisione del lavoro. La distruzione degli ebrei d’Europa non ha solo placato gli appetti ideologici dell’antisemitismo diffuso ma ha procurato vantaggi economici cospicui a molti cittadini tedeschi insospettabili. Anche nella Russia di Stalin la delazione pagava, promuoveva le carriere, eliminava i rivali, forniva riconoscimenti pubblici. Di tutto questo oggi ci sono le prove.

 

Assai meno conosciute sono invece le microprospettive individuali, i lenti processi metabolici che hanno disattivato le forme spontanee di empatia, in una parola la progressione inesorabile della disumanizzazione. Cos’è successo a milioni di persone in quegli anni? Come hanno potuto convivere con il male e partecipare con solerzia alla sua realizzazione? Come si sono incrociate le loro attese individuali, i loro minuti destini con quelli della nazione? A queste domande l’histoire événementielle non ha saputo e non sa dare risposte e forse nemmeno la storia sociale, la storia economica e politica. Prospettive assai più ravvicinate ci sono state offerte dai diari – pensiamo a quelli di Klemperer –dalle storie della lingua, dalla memorialistica, persino dal collezionismo. Ma forse il gesto intellettuale che può aspirare a cogliere i nessi profondi di quella degenerazione collettiva è la traduzione in forma mitopoetica della “banalità del male” nascosta nelle storie individuali dentro la cornice della grande storia collettiva.

 

Alle prerogative conoscitive di questa opzione –la narrazione letteraria delle vite comuni –sembra credere fermamente Nir Baram (Brave persone, Ponte alle Grazie, pp. 576, € 22). Le sue “brave persone”, e soprattutto i due protagonisti del romanzo, non sono né angeli né demoni ma giovani ambiziosi e sicuri tanto quanto fragili e incerti, appassionati più di se stessi che della missione salvifica dello stato o del partito.

Il romanzo è costruito su due storie parallele, una nella Berlino del Terzo Reich, l’altra nella Leningrado degli stessi anni, che finiranno per incontrarsi a Brest, al confine tra la Bielorussia sovietica e la Polonia occupata dalle armate del Führer.

 

Thomas Heiselberg nasce in una famiglia agiata, orfano di padre, un nazista della prima ora, vive con la madre malata, a cui è legato da un rapporto morboso. Thomas lavora con successo alla Milton, società americana di marketing con sede europea a Berlino. Da lì si sposterà frequentemente nella filiale di Varsavia, dove elabora una sorta di studio antropologico dei polacchi per affinare le strategie di vendita. Con l’invasione della Polonia la Milton chiude i battenti e Thomas si ricicla al Ministero degli esteri del Reich dove metterà a frutto le sue conoscenze della società polacca. Il suo “piano” sarà al servizio delle deportazioni degli ebrei, degli espropri, degli arresti mirati di soggetti e categorie sociali ritenuti pericolosi dalle forze di occupazione.

Aleksandra Weisberg è figlia di intellettuali di origine ebraica, il loro salotto artistico e letterario è frequentato da figure eccellenti, Mandelstam e l’Achmatova, Malevic. Quando si abbatterà la scure del sospetto saranno tutti deportati nei campi di lavoro, qualcuno morirà, distrutto dalla fatica o fucilato. Aleksandra invece reagirà alla distruzione della sua famiglia passando dalla parte degli aguzzini e diventerà una delle giovani funzionarie più brillanti del famigerato NKVD, il commissariato governativo per gli affari interni che istruiva i processi ai “controrivoluzionari”.

Anni dopo un collega le chiederà: “Aleksandra Andreevna questa storia ha anche un finale, vero? Voi avete coraggiosamente rinnegato i vostri genitori e le loro azioni, facendo in seguito confessare tutti i membri del Gruppo di Leningrado”. La risposta di Aleksandra: “non avevo scelta (…) perdermi insieme a loro o restare viva”.

Una frase di Pasternak, citata da Aleksandra, fornisce la chiave del dramma di quegli anni: “ormai non siamo più persone, siamo epoche”.

Il messaggio è fin troppo chiaro: quando la storia si sostituisce agli individui il pathos diventa follia.

 

Nir Baram ha provato a calarsi nella lenta deriva nichilistica delle coscienze individuali, che ha accompagnato la disfatta dell’Europa, ha sfiorato la zona grigia e le sue pieghe psicologiche, ha toccato in alcuni momenti felici del suo romanzo la commistione di banalità e ambizione che ha mosso le carriere dei suoi protagonisti. Gli è mancata però la forza persuasiva del dettaglio, la sensibilità ‘micrologica’, che coglie un destino nella parola, nel gesto, nello sguardo. La storia, lo sviluppo della vicenda narrata ha preso il sopravvento e con essa la maniera, il tributo al genere letterario –il romanzo storico –senza peraltro rivelare la maestria compositiva dei migliori interpreti di questo genere. Un’occasione mancata, peccato, anche se la strada imboccata era quella giusta.

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