Piero Salabè, Mortacci mia
Può essere interessante chiedersi perché il tema della famiglia sia ridiventato uno degli oggetti letterari privilegiati della narrativa recente. Famiglie non più rappresentate in grandi affreschi generazionali, alla Thomas Mann per capirci, ma rivisitate dalla specola delle ossessioni che il tessuto affettivo, spesso patologico, induce nelle componenti più fragili del sistema familiare.
Nella rete delle relazioni a più alto tasso di tossicità campeggia il rapporto tra padri e figli, soprattutto tra padri e figli maschi, in cui questi ultimi rovesciano la loro vulnerabilità in fantasie compensatorie. Lo scopo di queste evoluzioni mentali e proiettive è la sopravvivenza psichica, il tentativo di opporre uno schermo protettivo all’invadenza aggressiva, anche se spesso inconsapevole, che il padre esercita sull’immaginario del figlio.
A mettere in moto questa ambigua dialettica sentimentale, foriera di traumi che i figli si portano poi appresso per tutta la vita, è un tratto identitario, una qualità caratteriale, una prerogativa di eccellenza morale o professionale che il padre esibisce o che viene percepita come tale.
Il padre è il protagonista ossessivamente dominante di Mortacci mia di Piero Salabè. Un professionista che fu eccellente nel suo campo, la ricerca medica, anche se non fu riconosciuto come avrebbe desiderato.
Non siamo di fronte a una figura ideale, ma ad una potente e grottesca icona professionale dedita alla scienza e alla sua etica della precisione, una figura a tratti tragica, a tratti comica, circondata da un alone di eroica resistenza a un’istituzione oppressiva.
È Fabio, il figlio che da anni vive all’estero, a narrare la vicenda del padre, il prof. Luigi Pintor, il quale, dopo essere stato congedato dal "Policlinico" per raggiunti limiti di età e progressivamente affetto da demenza, un giorno scompare dalla casa di riposo in cui era ricoverato. Ogni tanto Fabio ritorna nella città amata e odiata e, sopraffatto dalla nostalgia, riflette durante le passeggiate sul proprio passato.
“Gli bastava godersi le giornate di maggio a Villa Borghese, seduto su una panchina a piazza di Siena. Riusciva a stare là senza pensare a nulla. Il cielo terso lo aiutava a fare spazio dentro di sé. Quando trovava un giornale, lo sfogliava alla ricerca dei necrologi. Gli piaceva calcolare l’età dei defunti. La vita aveva assunto una leggerezza irreale, il passato si era sfatto, qualche anno prima, con un soffio di vento: una risposta mancata, una morte finalmente avvenuta”.
Le risposte mancate e la presunta morte avvenuta sono il motore di questo romanzo pervaso da una sottile malinconia che trapela da un registro insistentemente eroicomico.
«Era scomparso quattro anni fa. Dicevano fosse morto. Mandavano le foto del funerale, una bara sommersa dai fiori. Ma quando avvenne il presunto decesso, e anche prima, quando dicevano che stava per morire, io non c’ero. Non c’era nessuno di noi nella casa di riposo ai Campi di Annibale, sulle pendici del Monte Cavo. Nessuno era in quella stanza al piano terra quel giorno. Neppure gli infermieri che trovarono i suoi occhiali e l’orologio sul comodino accanto alla finestra spalancata. Tutti certi che papà avesse voluto togliere il disturbo nel modo più discreto possibile, come era nella sua natura, lasciandosi cadere in uno dei pozzi artesiani sparsi nei campi. Voragini insondabili. Ma perché allora mancava la borsa da medico che si era fatto portare nella casa di riposo? La polizia fece una battuta superficiale, esaminando anche i pozzi. “Non possiamo controllarli tutti,” fece sapere il commissario incaricato. “Comunque a quell’età e in quelle condizioni non poteva certo sopravvivere a una caduta.” Dopo due mesi, furono interrotte le ricerche. “È stato il suo modo di tornare alla natura,” diceva chi non tratteneva un certo sollievo.»
Una parte della sua famiglia lo ritiene morto e si rassegna a questo strano epilogo, ma due dei suoi figli, Fabio e Lara, credono che sia ancora vivo e si mettono alla sua ricerca. Il romanzo vive di questa costante sospensione della fine: la morte e la sua negazione, la fine e il passato che non passa e che si prolunga nelle diramazioni fantasmatiche dei sopravvissuti. Nel desiderio utopico di una figlia che è sicura di ritrovarlo e del fratello che asseconda il suo folle desiderio.

Il romanzo si trasforma così in una infinita avventura indiziaria che ha come scena primaria la città di Roma e in particolare quel Policlinico in cui il professor Luigi Battista Pintor, endocrinologo, si è sentito per tutta la vita in trincea, assediato da una infernale macchina politico-burocratica. Forse è lì in quell’immenso ospedale che si è rifugiato per scampare all’inedia e dare un senso alla vita, magari alla ricerca di un riscatto dalle frustrazioni passate.
Ma ormai il Policlinico è dismesso e appare come un enorme complesso architettonico vuoto, una smisurata proliferazione di spazi, di reparti, di ambulatori in cui la geografia fisica era un tempo lo specchio deformato e ingigantito della geografia del potere medico-accademico.
Un tratto peculiare di questo curioso esperimento narrativo, continuamente in bilico tra la farsa, il grottesco e l’autobiografia, è questa insistita specularità tra la morfologia dei luoghi e quella delle vite che li hanno abitati.
Per Fabio, il fratello cinicamente pigro e apparentemente disincantato, e per Lara, la sorella determinata e iperattiva, la spedizione romana alla ricerca del padre diventa una ricognizione nei luoghi di una memoria d’infanzia, quando la famiglia viveva in un signorile appartamento della Roma che conta.
Ma soprattutto è l’occasione per perlustrare i luoghi che hanno animato le loro fantasie infantili attraverso le sofferte e amare narrazioni del padre: l’immenso Policlinico, diventato ingovernabile per l’endemica corruzione e l’insaziabile sete di potere di chi l’ha governato. E infine chiuso d’autorità in attesa di una sua diversa ancorché improbabile destinazione.
Quando fratello e sorella decidono di cercare il padre in quella immensa fortezza abbandonata, preda dello scempio e delle ruberie che ormai da anni si accaniscono sui resti del nosocomio, sono animati dalla convinzione che il loro padre non poteva che essersi rifugiato in quel luogo. Per godersi finalmente il piacere di una ricerca libera da condizionamenti e soprattutto legittimata da una vocazione etica e da una ratio disinteressata, non cinicamente strumentale. O per essere libero, forse, dall’assedio familiare e dalle pene del quotidiano.
L’esplorazione dei due figli diventa progressivamente un viaggio ai confini dell’umano, un’esplorazione dei sotterranei dell’immenso edificio, umidi, putrescenti, in balia dei topi e di orribili animali notturni.
La realtà diurna si rovescia in un dominio dell’oscurità, in una notte in cui si agita un mondo alternativo, a tratti onirico, spaventoso, misterioso, esoterico, caratterizzato da ritualità e animato da strane consorterie.
Il mondo di sotto diventa così una sorta di gigantografia mitologica del mondo di sopra, di quel mondo destinato alla perdizione contro cui il padre aveva combattuto tutta la vita.
Ai due intrepidi esploratori il mondo tellurico e notturno appare come un luogo di sofferenza ed espiazione.
E tuttavia la rocambolesca perlustrazione dei sotterranei del Policlinico abbandonato si rivela una farsa, ovunque il pathos si converte in riso, delineando i tratti di una tragicommedia in cui si annulla il senso dell’esistere e dell’agire.
Si assiste insomma a un naufragio definitivo delle certezze che richiama l’esergo di Samuel Johnson che apre splendidamente il romanzo : “…that immense fear that life could have a sense”. È la paura che la vita possa davvero avere un significato, generata dall’impossibilità di capirlo.
Ma non c’è da preoccuparsi: tra una risata per la spudorata stupidità del potere e le fantasiose utopie di chi, come il padre dei due fratelli, si oppone a esso non c’è ragione di avere paura: la vita un senso non ce l’ha proprio.
La scommessa di Piero Salabé è di costruire un romanzo su questa premessa scettica, quasi un monumento alla acatalessia, l’impossibilità di comprendere, di cogliere la verità. Di questo convincimento scettico in contrasto con le certezze etico-scientifiche del padre e con l’entusiasmo devoto della sorella il romanzo è una sorta di voltairiana gigantografia.
Le avventure in quell’oltretomba che sono i sotterranei del Policlinico evocano le improbabili avventure di un Candide dei giorni nostri, con la differenza non secondaria che qui non è la teodicea l’oggetto dell’ironia ma qualsiasi costruzione di un senso compiuto, quasi a dimostrare l’antico adagio che la verità si nega a chi la cerca.
L’apologo conclusivo di questo fantasioso e ambizioso conte philosophique in veste autobiografica si legge in una pagina di diario, casualmente ritrovata tra le carte del padre:
“Non esiste altra vita che questa sporca, insufficiente, incompiuta, nessuna sarà più perfetta. La biancheria caduta a terra in una mattina di fretta, che si riempie di polvere e di laniccio, che sarà spesso lavata e un giorno anche buttata, non esisteva per essere sporcata. Ancora non abbiamo imparato a sentirci grati per tanta insufficienza. Che onore, esserci stato, avere sporcato il mondo, contribuito alla sua polvere”.
“La polvere del mondo”: avrebbe potuto essere questo il sottotitolo mancante di questo sorprendente, e a tratti avvincente, romanzo picaresco all’insegna della pietas filiale.
