Quattro libri per leggere il presente / Muri e venti

30 Gennaio 2019

Muri, frontiere, confini sono quanto di più adatto a cogliere il nostro tempo si possa scegliere come temi di riflessione. Sono punti di osservazione, con-testi e talvolta pre-testi per affrontare gli stretti nodi delle storie che si radicano nella materialità del muro o nella mobilità del confine.

In fondo, quasi non parliamo che di questo anche quando parliamo di altro: identità, relazione, nazione, inclusione, migrazione, limite sono addentellati di uno stesso discorso sul presente che ha le caratteristiche dell'urgenza e dell'emergenza. E se parliamo di altro è forse anche per non vedere le cose che girano attorno ai muri e non accettarne completamente le conseguenze.

Tra le diverse strategie con cui il tema dei muri può essere affrontato scelgo qui di parlare di quattro libri recenti che declinano in modo differente una stessa attenzione allo stesso soggetto.

 

Carte

Il punto di partenza non può che essere lo spazio geografico, quello stesso che la globalizzazione, il flusso di informazioni e la semplificazione di alcuni vettori di viaggio hanno reso solo apparentemente più compresso, ridotto e noto.

L'atlante delle frontiere. Muri, conflitti, migrazioni (a cura di Bruno Tertrais, testi e di Delphine Papin, mappe, tradotto e prefato da Marco Aime nell'edizione italiana di Add, editore molto attento al tema), sceglie proprio una chiave visiva e cartografica di grande utilità per affrontare le «lame di rasoio su cui stanno sospese le moderne questioni di guerra o di pace, di vita o di morte della nazioni». Le cinque sezioni – Frontiere ereditate, Frontiere invisibili, Muri e migrazioni, Curiosità frontaliere, Frontiere in fiamme – permettono di entrare nei diversi luoghi del pianeta per affrontare con razionalità geografica le 323 frontiere terrestri su circa 250.000 chilometri e perimetrarne i conflitti sulla base delle diverse dimensioni, culturali, religiose, linguistiche, nazionali, economiche, sociali. Gli autori individuano ed evidenziano 50 linee di frattura in diverse aree, alcune poco note, e ne illustrano il senso, incrociandole con la prospettiva politica che, solcando trasversalmente le classiche dicotomie, introduce quella in parte inedita di chi sta dalla parte dell'aperto e chi del chiuso. Le frontiere storiche e quelle nuove si mostrano centrali per la geopolitica contemporanea: il libro, di medio-grande formato, accompagnato da un saggio introduttivo e contestualizzazioni puntuali, è dunque il moderno e sensibile atlante, didatticamente e pedagogicamente utilissimo, che con lo sguardo intelligente dell'infografica permette a chi voglia capire di più di poterlo fare. Dal punto di vista dell'analisi dell'esistente lo stato-nazione, il suo apparato concettuale e i dispositivi che ne sono il correlato, è ancora il fulcro a partire dal quale si gioca il futuro e il destino dei poteri che lo amministrano: da qui la serie di linee tendenziali di sviluppo che è possibile intravvedere, il «futuro roseo delle frontiere», e delle contraddizioni che ne potrebbero causare di volta in volta, il potenziamento, la rovina o il superamento.

 

 

Saggi

All'incrocio di tutte le scienze umane e diviso tra il reale e il simbolico, il tema del confine richiede una chiara concettualizzazione, anche per il valore politico e ideologico, ben oltre la semplice descrizione, che assume implicitamente o esplicitamente ogni prospettiva adottata. Più antropologia sociale e politica che non geopolitica in senso stretto Sconfinate. Terre di confine e storie di frontiera (a cura di Emanuele Giordana) è una densa raccolta di saggi: come scrive Sandro Mezzadra in una delle introduzioni, il libro «offre una preziosa fenomenologia dell’esperienza del confine nel mondo contemporaneo. Ci sfida a immaginare e praticare una politica del confine, dall’interno dei processi di trasformazione che stanno investendo ed erodendo le categorie e le istituzioni che hanno articolato la politica moderna – dallo stato alla cittadinanza». 

Programmaticamente diviso in sezioni geografiche – Afriche Asie Americhe Europe, rigorosamente al plurale – la raccolta propone non l'impossibile enciclopedicità quanto piuttosto una geometria variabile di significatività e di complessità storica che mette al centro dei suoi diciassette saggi diverse porzioni del mondo in particolare post-coloniale, con una centratura su quello asiatico. «I confini coloniali» sono i confini per eccellenza e «molte delle frontiere e dei confini di oggi sono all’origine di conflitti, migrazioni, sofferenza». I «saggi critici che hanno tuttavia il fascino e la leggerezza dei racconti di viaggio» (Idéo) attraversano le aree di crisi e ne individuano genesi e trasformazione con l'idea chiave che «la rifunzionalizzazione biopolitica dei confini e la conseguente istituzione di processi di inclusione che dispongono e distribuiscono la vulnerabilità dei soggetti in maniera differenziale, solleva […] questioni concrete di ordine etico, politico e morale» (Gianfrancesco e Morawski): le aree di Vietnam, Corea, Sahara, Afghanistan, Ucraina, Messico, Haiti, Mali, Congo, Pakistan, Myanmar, Corea, dell'Italia (dell'Ottocento) e della penisola iberica e del Mediterraneo appaiono così “sconfinate”, termine che è dunque aggettivo e sostantivo, a suggerire la figura di chi oltrepassa un confine e il gesto stesso di collocarsi oltre a questo. 

 

Storie

Il muro è il precipitato materiale di ogni limite e confine: difende, divide e separa fino a farsi tratto istitutivo e rafforzativo di ogni identità. Il libro di Michela Monferrini, Muri maestri, prende le mosse da un progetto sui muri del presente "che dividono” (Melilla e Ceuta, Arabia Saudita e Yemen, Zimbabwe e Botswana, India, Bangladesh e Pakistan, in Irlanda del Nord, Kosovo, Cipro...) per sciogliersi progressivamente in una rete di divagazioni dal lieve tratto poetico. Il muro insomma come pretesto per dire il suo opposto, «il contrario della parola "separare"»: così il muro tra le Coree, al 38° parallelo «dove al Freedom Bridge le persone hanno creato un altro muro, spontaneo, fatto di nastri colorati su cui sono scritti auguri di ricongiungimento con i propri cari, quelli che sono rimasti o finiti “di là”». Di fronte al muro distrutto della stazione di Bologna, in seguito alla strage neofascista del 1980, l'autrice (nata nel 1986) racconta la scoperta del «linguaggio silenzioso di un muro che ci ricorda i nomi e le età di tutte le vittime» e respinge l'oblio del tempo. I muri maestri sono luoghi e situazioni simbolo in cui la sofferenza si è trasformata in una reazione e una risposta. 

 

I capitoli tematici – Fratellanza, Desiderio, Amore, Impegno, Giovinezza, Dolore, Fede – presentano un ricamo di piccole storie in cui il muro si è ricoperto di significato e di un surplus di senso: l'arte contemporanea nel suo rapporto con i muri occupa infatti un ruolo considerevole nell'economia del racconto. Scopriamo così il Memorial to Heroic Self-Sacrifice di Londra, noto come Wall of Heroes, voluto da George F. Watts, che dal 1900 ricorda la «gente morta per salvare la vita ad altri»; o la recente opera di Candy Chang, artista concettuale, designer, urbanista, voce internazionale “sui temi della comunità, della creatività e della salute emotiva”, promotrice della grandi performance come Before I die Walls o A Monument for the Anxious and Hopeful in cui  le persone si mettono in fila per scrivere i loro desideri, le loro speranze o le loro ansie affidandole all'esposizione pubblica che svela le fragilità di tutti per trasformarla in condivisione, compassione e solidarietà universale. Leggiamo la storia del John Lennon Wall di Praga, dal 1980 un memoriale per l'artista ucciso a New York da un fan squilibrato in cerca di fama. Icona di pace e amore universale Lennon incarna una forma «più precisa e politica» in questo luogo in cui una parete di spontaneo lutto collettivo è diventato luogo di protesta contro il regime comunista cecoslovacco. 

 

A Monument for the Anxious and Hopeful, Candy Chang.


Non si può non pensare a Berlino e al suo muro che, in tante e molto note immagini, è diventato lo scenario di protesta per la proiezione di qualcosa di altro rispetto a ciò di cui il muro era materialmente il rappresentante. In un controcanto ideale trova spazio l'operazione di Banksy e del collettivo Pictures on Wall che nel 2007 ha convocato il Santa’s Ghetto, happening annuale della squat art, a Betlemme, Palestina, chiamando a lavorare sul muro quattordici artisti di diversa provenienza. 

Non può mancare il Muro del pianto, il pellegrinaggio a Gerusalemme e la storia della sua manutenzione, o meglio della raccolta delle parole e del dolore che esso accoglie in nome del divino o di qualcosa «a cui va dato il nome di umanità». È questo che ha ispirato il progetto del 2015 di Alan Donohoe e Steven Parker, hanno progettato il Waiting Wall, «una versione digitale e secolare del Muro del pianto proprio laddove l’attesa si fa più vuota e nervosa», ovvero nell’atrio della stazione ferroviaria di Brighton: qui i pensieri privati delle persone possono essere scritti e istantaneamente condivisi pubblicamente tramite cartelloni pubblicitari elettronici.

Il muro si fa tabula e lavagna, porta fuori nello spazio comunicativo ciò che usualmente si custodisce segretamente, come tratto intimo del sé. Per poi brillare di felicità, come nelle scritte dei parenti sui muri dei reparti di ostetricia che danno il benvenuto ai nuovi nati; oppure confondere il dolore manipolando le immagini, come nelle Geometric Reflections o gli Human Error dell'artista visuale Witchoria, che sogna di redimere le storture dell'umano come si aggiustano le cose con i programmi digitali.

 

Storia

Con il ritorno al versante conflittuale e alla dimensione politica del tema si chiude questa arbitraria, sintetica e incompleta rassegna: Carlo Greppi ha realizzato, con L'età dei muri una Breve storia del nostro tempo, un progetto al tempo stesso storiografico e narrativo che trova nell'incastro a orologeria la strada per affrontare la densità e la gravità del tema. Ovvero un lungo Novecento oltre il Novecento, colto attraverso la periodizzazione offerta dai muri che vede nella storia persistenze e radicalizzazioni dell'uso del filo spinato e del cemento armato. 

Greppi si muove nello spazio e nel tempo, tra il 1916 e il 2019 e i fuochi delle due guerre mondiali fino al muro di Berlino, la cui caduta segna una prima grande discontinuità a cui fa seguito una nuova, seconda età dei muri. Sceglie come punto di partenza il terreno che conosce meglio come storico per poi esplorare altri momenti e giungere a stringere le viti sulle tensioni politiche del presente: sono quindi precise simmetrie quelle individuate, e non vaghe analogie come spesso capita di cogliere nel discorso pubblico, come la questione dei profughi e apolidi che si apre nel 1938 in Europa con l'escalation nazista, la chiusura delle frontiere e la fallimentare Conference di Evian. O l'odissea della St. Louis, il transatlantico tedesco che nel 1939 trasporta oltre novecento ebrei in fuga dall'Europa e che viene rimbalzato tra le sponde dell'Atlantico per mesi.

 

Photos: John Runnings on the Berlin Wall


L'intreccio ritmico passa attraverso quattro biografie paradigmatiche e il loro rapporto con i muri. Emanuel Ringelblum è lo storico dell'ebraismo che, chiuso nel ghetto di Varsavia, ne diventa l'archivista tra il 1939 e il 1943 per consegnare al futuro quell'esperienza indicibile; Joe J. Heydecker è il soldato della Wermacht la cui privata disobbedienza al regime trova la strada delle fotografie con cui ha documentato la vita e la morte in quel ghetto. John Runnings è l'attività canadese, pacifista dalle seconda guerra mondiale in poi, che dichiara guerra alla guerra fredda, camminando sopra il muro di Berlino per prenderlo a martellate nel 1986; e Bob Marley è Bob Marley: nero per i bianchi e bianco per i neri, ha una storia familiare che interseca il colonialismo e il cemento armato ma soprattutto è – molto più che musicista – l'incarnazione del reggae e del suo messaggio universale, il profeta di un mondo senza muri per il quale i muri sono prima di tutto nella mente delle persone.  

Definita da questi punti di riferimento (luoghi, periodizzazioni, storie) la costellazione in cui il lettore è portato si configura come un'operazione essenzialmente storiografica ben raccontata, e garantita solidamente da un metodo ibrido che rimonta libri, saggi, inchieste, articoli, documentari (si veda la ricca sezione Crediti e debiti e la Bibliografia) per ipotizzare un «disegno complessivo» e avanzare alcune idee chiave. «L’età dei muri è opera – finora – di una generazione cresciuta al fronte e che dal fronte ha imparato solo a distruggere o, al massimo, a creare per dividere, e questo know how l’ha trasmesso alla generazione successiva». «E quelli che sono arrivati dopo se lo sono infine trovato tra le mani senza neanche più ricordarsi perché, senza sapere come fare i conti con il dolore da cui è scaturita questa capacità di separare, l’eterna e arbitraria divisione tra “noi” e “loro”». 

 

Ghetto di Varsavia.


La continuità nel presente con l’età dei muri è data dal fatto che più di tre quarti di quelli attuali sorgono dopo il crollo di quello di Berlino e dal «disagio profondo di esservi ancora immersi». Il 2001, l'anno del crollo delle Torri gemelle, è il momento della presa d'atto della persistenza del recinto, del filo spinato e del  calcestruzzo. L'ossessione securitaria si manifesta con le gated communities da  Johannesburg a Nuova Delhi a San Paolo e si sostanzia di cancelli metallici, auto blindate, sistemi di allarme e guardie private. Come in Corea nel 1945 e nel 1947 India, in Pakistan e Bangladesh nel 1947, in tempi estremamente rapidi nel 2002 prendono corpo la “rete intelligente” o “chiusura di sicurezza israeliana” in Cisgiordania e nel 2003 l'arrivo degli americani a Baghdad segna la delimitazione della Green zone, controverse misure di sicurezza dagli effetti economici decisivi per le aree coinvolte. 

 

Varsavia e Berlino sono dunque il punto di partenza per un viaggio che annoda la ricerca, la testimonianza, la disobbedienza civile e la cultura pop e che circoscrive i tanti tratti dell’età dei muri. La forza del libro sta nelle connessioni materiali tra i diversi fatti e processi, per delineare quella «sorta di contagio […] in cui troviamo brandelli delle barriere e delle recinzioni del Novecento» e di cui siamo testimoni: l'ultimo capitolo di analisi, sorto anche dai viaggi che l'autore ha fatto come inviato di RaiStoria, è la guerra ai migranti dichiarata da più parti e che alle guerre vere e proprie è legata per molti aspetti: se da quelle fuggono molti migranti, la Border Patrol che sorveglia la frontiera fra Stati Uniti e Messico è composta per un terzo da veterani delle guerre di Iraq e Afghanistan, al punto da venire considerata un “terzo fronte” americano, con un  budget per la barriera, the Fence, che nel 2007 sfiorava i 650 milioni di dollari. Altri muri sono quelli di Melilla e Calais, all'ombra dei quali si assiepano mondi; altre barriere sono quelle di Frontex, l’“Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea”, di fatto i cancelli blindati della Fortezza Europa.

 

Come i fili spinati che accompagnano i muri o i materiali cementizi o metallici che li costituiscono, L'età dei muri è una poderosa sintesi della storia che taglia e ferisce e che chiama in causa noi, quelli dell'«altra parte», così vicini per sensibilità culturale ai personaggi di cui Greppi ricostruisce le vite, allo storico, al fotografo, all'attivista e al cantante. Tanto più vicini ma sempre più orfani di un agire politico in grado di mordere effettivamente sul reale. Da qui, semplicemente, si tratta di ripartire: «mi piacerebbe vedere una cosa sola», dice Marley intervistato nel documentario che porta il suo nome, «mi piacerebbe vedere gli uomini vivere insieme».

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