Non di queste parti / La pancia infiammata come organo politico

19 Marzo 2019

Per capire a pieno la situazione in cui mi trovo, a quattro anni dal mio trasferimento a Città del Messico, devo necessariamente riesumare una serie di episodi all’apparenza slegati fra loro. Vere e proprie coincidenze che, tuttavia, a un giudizio più accurato, risultano essere parte integrante di quel perverso meccanismo che ha trasformato il mio apparato digerente in un organo politico. E dico politico nel senso lato del termine. Nel senso di una “organizzazione e amministrazione delle attività di vita pubblica”… nella fattispecie la mia di vita pubblica. O nel senso di una “demarcazione della norma in relazione a un’eccezione”, con un’enfasi sull’idea di adattabilità. E poco importa se tali circostanze appaiano a volte come fili slegati e facilmente distinguibili uno dall’altro, a volte come una massa informe completamente ingarbugliata in se stessa. Poco importa perché l’obbiettivo rimane quello di dimostrare come, a suo modo, ognuno di questi eventi nasconda un indizio che tende verso lo stesso identico risultato: quel fastidioso quanto inevitabile iter che ha trasformato il mio bistrattato intestino in un simbolo di alterità. E sia ben chiaro che non sono solo in questa situazione. Siamo in tanti. Anzi, direi che siamo quasi tutti: l’intera conta di quelli che, come me, vivono in Messico pur essendo nati a migliaia di chilometri di distanza da questo paese. O meglio – e per evitare qualsivoglia equivoco in tempi tanto equivoci – chiunque viva a migliaia di chilometri dal proprio paese natale punto e basta… in qualsiasi altro continente con una flora batterica propria, se così si può dire.

 

Cantina La Montejo, Città del Messico.


Ma andiamo per ordine. E se non proprio dal principio, partiamo quantomeno da un punto fermo. È giovedì sera e mi ritrovo a bere un bicchiere o due, gomiti appoggiati su uno di quei tavoli in legno massiccio che tipicamente affollano le Cantinas della città. Sono in compagnia di un folto gruppo di amici, conoscenti e perfetti sconosciuti. Nulla di strano. In fondo l’essenza stessa delle Cantinas – l’adattabilità dello spazio, la dimestichezza del personale, l’informalità generale – garantisce la flessibilità necessaria per trattare con numerosi gruppi di persone che si conoscono a malapena. Ed è così che le tavolate si creano, per poi duplicarsi, triplicarsi e infine sfaldarsi. La gente si aggiunge, va e viene. Perché un invito a una Cantina è poco più di un invito a passare una serata in piazza. Niente di personale insomma. Ma nonostante la solita confusione dominante, questa sera qualcosa di diverso attrae immediatamente la mia attenzione. O meglio, qualcuno… una persona nello specifico. Un uomo nascosto tra il gruppetto di facce nuove sedute giusto di fronte a me. Sulla quarantina, alto, calvo, dalla corporatura sportiva. Un gigante triste, a giudicare dall’espressione dimessa. In un secondo tempo scoprirò che si tratta di un artista greco in visita alla città per qualche settimana. Ma per il momento mi accorgo di lui per il solo fatto di riconoscerne nei gesti qualcosa di vagamente familiare… una sorta di déjà-vu al rallentatore che mi chiama direttamente in causa. Prima di tutto quel suo sforzo continuo per cercare di difendersi dagli assalti di un cameriere eccessivamente zelante. Un altro drink? Qualcosa da mangiare? Ne leggo il disagio in volto e non posso far a meno di compatirlo: ci sono passato anch’io. Ma quanto meno è educato, questo cameriere.

 

Avrebbe potuto riempirgli il bicchiere senza nemmeno aspettare una risposta. In fondo siamo in una Cantina, cuore sociale della città. E come in ogni Cantina che si rispetti, dal Centro Storico fino alle periferie, è necessario essere consapevoli delle regole del gioco e muoversi di conseguenza. E la regola numero uno è che qui si beve e si mangia, e il lavoro dei camerieri è farti bere e mangiare ancora di più, possibilmente creando uno di quei temuti “conti unici” impossibili da decifrare al momento del pagamento. Conti che costringono l’ignaro malcapitato che se ne va per ultimo a coprire i buchi lasciati dai più savi bevitori che se la sono squagliata in tempo. E dico tutto ciò per il semplice fatto che sono io il primo a dovermi costantemente inventare soluzioni per non farmi incastrare dai meccanismi di quella trappola che è la Cantina. E proprio per esperienza personale, questo giovedì sera, mi appare chiaro come l'artista greco seduto di fonte a me stia annaspando senza un piano specifico per difendersi dagli attacchi mirati dei camerieri. Ma quel mio déjà-vu non finisce qui e improvvisamente un dubbio inizia a balenarmi in testa. Il suo linguaggio del corpo, i suoi movimenti… o meglio: il suo non muoversi proprio per niente. Lo starsene lì impalato, in silenzio, sguardo fisso sull’unica birra che ha ordinato due ore fa e non ha ancora toccato. Insomma, che l’uomo stia nascondendo qualcosa di più di una semplice mancanza di dimestichezza con l’ambiente che lo circonda? Qualcosa di più profondo, viscerale. Parlo di un malessere che solo uno straniero come lui può presentare, e solo uno straniero come me può notare. Una sottile indisposizione suggerita dalla carnagione plumbea e dalla rigidità della postura, il tutto risultante in una completa perdita di appetito nonostante gli sforzi di quei camerieri alla disperata ricerca di una mancia.

 

Farmacia París, Città del Messico.


È a questo punto che ho bisogno di muovere un secondo di quei fili di cui parlavo precedentemente e aggiungere un ulteriore episodio che, seppur indipendente, risulta concettualmente coerente con quello che sta succedendo al mio artista greco in visita alla città. Per farlo devo tornare indietro di qualche anno. Rivisitare le mie febbricitanti passeggiate, pallido e sudato, per il quartiere di Mixcoac in compagnia di un fotografo messicano che non la smetteva proprio di domandarmi se mi sentissi bene. La realtà è che, a nemmeno un mese dal mio trasferimento in città, mi ero ammalato così seriamente che il mio intestino non si è mai veramente ripreso dallo shock. Insomma, già da quelle passeggiate la città mi aveva segnato per sempre, tanto che ora non c’è pranzo o cena che non me lo ricordi. E mentre le viscere di questa metropoli in perenne espansione continuavano a distendersi davanti ai miei occhi in un intricato sviluppo urbano marcato ad ogni angolo da esotiche proposte culinarie, ecco che iniziavo a percepire quello che solo ora posso definire come il risveglio politico del mio apparato digerente. Un organo che, col proprio gonfiarsi, irritarsi ed erodersi, confermava il suo “essere altro” rispetto alla realtà che lo circonda. E poco importa se tale diversità – ora ne sono certo – è registrabile solamente a livello batterico; o se la spiegazione è da ritrovarsi in uno sbilanciamento microbico, in un drammatico cambio di fauna batteriologica. Simbolicamente parlando, qualunque forma di alterità crea una situazione che è di per sé politica.

 

Mascotte della Farmacia del Ahorro.


E qui vorrei sbilanciarmi a toccare in rapida successione un terzo, e poi un quarto filo del mio ragionamento… altri due salti temporali per atterrare esattamente nello stesso punto, in questa Cantina, a neanche un metro da questo gigante sconosciuto che sento d’iniziare a comprendere intimamente. Prima di tutto un pranzo in compagnia dei miei suoceri presso una famosa taquería di pesce della città. Pieno weekend. Il ristorante è affollato. Non ricordo nulla di ciò che ho mangiato. Ancora meno di che cosa abbiamo parlato. Tuttavia una cosa me la ricordo e bene: che insieme al cibo, quel fine settimana, il ristorante regalava campioni gratuiti di Omeprazol. Un’idea astuta quella di pianificare, insieme al cibo, un’adeguata digestione dello stesso. Un cerchio perfetto.

Quindi una visita disperata ad una succursale della Farmacia del Ahorro – letteralmente: farmacia del risparmio – per essere visitato da uno dei famigerati “dottori a donazione”. Trattasi di giovani studenti di farmacia, medicina o infermeria che, per qualche spicciolo di mancia, ricevono per pochi minuti alla volta orde di pazienti in un cubicolo al lato della farmacia stessa. Le leggi del mercato fanno di questa esperienza ciò che di più vicino esiste ad uno speed dating della prognosi medica. Nel mio caso, l’inutile tentativo di spiegare al ragazzo di turno i sintomi di una brutta reazione allergica non ha portato ad altro che alla prescrizione d’una massiccia dose di Imodium. Perché se in Messico le disfunzioni delle budella sono un tema importante, la merda è un soggetto di accese discussioni nelle più svariate situazioni sociali, dal supermercato alla cena di lavoro. Il pudore non è mai un deterrente in un paese che ama torturarsi con l’acre, il pungente, il piccante. Anzi, oserei dire che c’è persino qualcosa di erotico in questa dipendenza verso l’estremizzazione del gusto. E in fondo l’erotico è sempre politico. Implica reciprocità, riassestamento degli equilibri di poteri e una buona dose di comprensione reciproca.

 

Murales presso la Droguería del Centro, Città del Messico.


E così ecco che è arrivato il momento di muovere l’ultimo dei fili… una coincidenza finale che mi ha fatto capire a pieno le condizioni in cui versava il povero artista greco. Poche settimane fa, riordinando lo studio, ho trovato un polveroso sacchetto di tela che un’amica mi aveva lasciato anni addietro prima di tornare in Europa. Una volta aperto e ispezionatone il contenuto, mi ci è voluto comunque qualche secondo a capire di che si trattava. Cinque o sei pezzi di quello che, a prima vista, non avrei potuto descrivere in altro modo se non come talco rappreso… o come un blocco di sabbia pietrificata. In realtà si trattava di piccoli pezzi grigiastri della cosiddetta “terra commestibile”… o terra mangiabile. Perché come in altre parti del mondo, anche in Messico vi sono aree del paese dove l’ingerire una quantità controllata di terra farraginosa è pratica comune, soprattutto in relazione a dolori addominali e disfunzioni dell’apparato digerente. Ecco dunque, davanti ai miei occhi, quasi per caso, il suggerimento di un potenziale ritorno alle radici, all’essenziale. E vista la mia situazione non c’ho pensato due volte: ho scelto uno dei blocchi e ne ho dato un bel morso.

 

Non so cosa ne penserebbe l'artista greco di tutte queste coincidenze. Nulla di buono, immagino. Noto che non ha mangiato niente. Non ha potuto nemmeno bere. Un sorso alla bottiglia o poco più. E che altro può fare se non cercar di distrarsi e giocherellare con la sua birra ormai calda? Io continuo a far finta di nulla, certo… anche se vorrei dirgli qualcosa. Di resistere, forse. Vorrei dirgli che, seppure le cose non miglioreranno poi tanto, almeno le coincidenze le renderanno più interessanti, più sopportabili. Vorrei dirgli ti capisco, amico mio… ti capisco.

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