David O. Russell. American Hustle

24 Gennaio 2014

“Il carnevale era il mio sogno di bambino. Ma avevo questo incubo che continuava a ripetersi. Sognavo di avere una serie di maschere sul viso. Ogni volta che ne toglievo una, ce n’era sempre un’altra… e poi un’altra ancora, e poi un’altra ancora. Non riuscivo più a ritrovare il mio viso”. È una testimonianza che riporta la psicoanalista Eugénie Lemoine-Luccioni in un libro, vecchio di trent’anni ormai, dedicato alla psicoanalisi della moda. Si sa che la maschera infatti, così come il velamento dell’abito, allude sempre al fatto che vi sia qualcosa sotto. Ma siamo sicuri che sotto ci sia davvero qualcosa? E se il nostro viso non fosse nient’altro che l’effetto di una maschera? E se dietro alla maschera non possa che esserci un’altra maschera?

 

 

La nostra società è ossessionata dallo smascheramento, dall’atto di svelare, di voler andare a vedere “cosa c’è sotto”. Si vuole sapere cosa dicano i politici nei fuori onda, di cosa parlino nelle telefonate private, persino come sia la loro vita sessuale. Anche il giornalismo sembra non riuscire a liberarsi del dubbio che la verità non stia nella dimensione pubblica, ma nella mezza battuta al telefono, nella confidenza informale, nelle carte secretate. La nostra pare essere una società che non crede più nella maschera, ma solo nel nocciolo duro di realtà che gli sta sotto e che il velo non permette di vedere. Ultimamente non lo dicono forse anche i filosofi? “Che si torni finalmente alla realtà”! E cosa succederebbe se anche lì, di fronte al nocciolo duro della realtà, noi trovassimo una maschera?

 

L’interesse di American Hustle, che molti hanno liquidato come un “parrucca-movie”, sta proprio qui: nell’essere una grande dichiarazione d’amore per le maschere, il falso, il camouflage. Lo vediamo già nella sequenza iniziale dove il protagonista, Irving Rosenfeld (interpretato da un ingrassato Christian Bale) è allo specchio intento a mettersi una parrucca che gli copra la vistosa pelata. Irving è un ragazzo cresciuto nel Bronx campando di espedienti (hustling appunto), e che in seguito ha intrapreso un business non proprio legale e che consiste nell’adescare dei poveracci a cui le banche rifiutano dei mutui, e promettergli un prestito di 50 mila dollari (che naturalmente non vedranno mai) in cambio di 5 mila di commissione.

 

 

Il gioco sta appunto nel mettersi la finta maschera da businessman – lui che veniva dalla strada – e mostrarsi credibili, affidabili. Cosa che gli riesce particolarmente bene anche per merito della sua partner, nell’amore e negli affari: una ragazza di nome Sydney (interpretata da Amy Adams), squinternata come lui, il cui “sogno è diventare chiunque, basta che non sia io”. Sydney infatti finge di essere Edith, un'inglese altolocata (il gioco di accenti viene perso nella versione doppiata) con “molti contatti con le banche” e riesce, complice anche una buona dose di seduzione, a far cadere tutti nella loro trappola.

 

 

Ma si sa che le maschere non possono che alimentare il dubbio su che cosa ci sia sotto. “Voglio conoscerti” – dice un Irving sempre più innamorato –, ma conoscersi non vuol dire scendere nella profondità dell’autentico dove si è nudi e non ci sono più veli; conoscersi (e amarsi) in questo film vuol dire essere complici della mascherata e continuare a stare al suo gioco. Perché per alimentare un amore c’è sempre bisogno di essere nel dubbio – come negli affari – che si possa essere fregati. La truffa di Irving e Sidney funziona perché dietro a una maschera ce n’è sempre un’altra, fino a quando… non si incontra un ostacolo.

 

 

Il primo ostacolo si chiama Richie Dimaso, un agente federale che vive con la mamma e che la sera a casa si mette i bigodini per fingere di avere i capelli ricci. Nonostante riesca a incastrare Irving e Sidney cogliendoli sul fatto, non li mette in galera. Lo svelamento della truffa non vuole rovinare il gioco, non vuole togliere la maschera, ma solo alzarne la posta. Irving e Sidney vengono assoldati dall’FBI per una truffa ancora più grossa gestita dallo stesso agente Dimaso che è malato di ambizione e che vorrebbe incastrare dei deputati del congresso e dei politici locali. Il ménage à trois tra Richie, Irving e Sydney/Edith su cui si costruisce gran parte del film diventa un complesso gioco a incastri dove tutti sembrano voler fregare gli altri e dove doppi e tripli giochi di rivalità, gelosie e seduzioni continuano a trarre in inganno, anche lo stesso spettatore. Lo svelamento di Richie dunque non serve a svelare l’inganno, ma solo a riporre un nuovo velo dietro al velo. A perpetuare il gioco delle maschere. Chi inganna chi? Chi sta nascondendo cosa a chi?

 

 

Il secondo ostacolo invece si chiama Rosalyn, la moglie di Irving, interpretata in modo splendido da Jennifer Lawrence. E non è un caso che a metterla in scena sia proprio un’attrice che, a detta dello stesso David O. Russell, reciti basandosi completamente sulla spontaneità, quasi senza fingere. Mentre tutti i personaggi di American Hustle giocano sulla doppiezza della maschera – sulla scissione tra ciò che l’apparenza mostra e ciò che nasconde – e sulla tensione di voler scoprire ciò che si celi dietro la maschera: il suo personaggio è invece incapace di alludere, di mascherare, di leggere tra le righe. La sua presenza manda in tilt tutta l’architettura di finzioni e inganni soltanto perché lei è così, esattamente come sembra. Non c’è nulla da nascondere. “All’inizio eri misteriosa, poi ho scoperto che misteriosa voleva dire semplicemente depressa”, le dice Irving. Perché quello che manca a Rosalyn è senza dubbio quella doppiezza alla quale invece la seduttiva Sydney sembra non poter fare a meno di alludere eroticamente. Ecco che dunque la maschera incontra un ostacolo che non è più velabile, e che la manda in crisi. Vi è insomma una maschera che non nasconde più niente.

 

È dunque possibile protrarre per sempre la mascherata del nascondimento e dello svelamento? Continuare per sempre il camouflage e la ricreazione continua della propria identità? È possibile essere sempre “chiunque, basta che non sia io”? O non è forse inevitabile a un certo punto incontrare, non tanto il nocciolo duro del reale autentico che metterebbe in pace una volta per tutte l’ansia dell’identità – quanto un ostacolo che metta in crisi il divertissement degli svelamenti e nascondimenti continui, come è il volto malinconico e depresso di Jennifer Lawrence. Perché in fondo la maschera non nasconde qualcosa, ma vuole semplicemente mettere una veste al vuoto che ci spaventa di più. A quel vuoto che la psicoanalisi chiama soggetto.

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