Triangle of Sadness: il carnevale del potere

24 Novembre 2022

In La congiura dei boiardi, la seconda parte del capolavoro di Sergej Ėjzenštejn Ivan il terribile girato nel 1944 appena dopo la battaglia di Stalingrado e poi censurato dal regime staliniano fino a dopo il XX congresso del PCUS, vi è una celebre scena in cui lo zar Ivan decide di abbandonare le insegne del potere e mettere in atto una sorta di rovesciamento carnevalesco dei ruoli. Venuto a conoscenza del piano dei boiardi – cioè della classe nobiliare di possidenti terrieri russi e in particolar modo della zia Evfrosinija – di assassinarlo, decide di anticipare il loro piano e durante una festa tra i fiumi dell’alcol nominare nel ruolo di zar il cugino idiota Vladimir (che è completamente succube della madre Evfrosinija e assolutamente disinteressato al ruolo). 

Nell’unica bobina a colori, il film sembra improvvisamente cambiare di registro e venire abitato da una strana atmosfera di godimento osceno. Vediamo l’intera corte dello zar darsi a dei balli sfrenati e cantare canzonette nonsense con un’estetica vagamente giapponese ma per lo più semplicemente orgiastica. Secondo l’interpretazione data da Slavoj Žižek nel suo Organs without Bodies in questa sequenza Ėjzenštejn mostra l’essenza carnevalesca del potere staliniano: un regime che aveva abbandonato l’idea ancora leninista della violenza come mezzo necessario per raggiungere un obiettivo politico, e aveva abbracciato definitivamente l’idea della violenza come godimento di sé stessa.

È quando il potere diventa compiutamente carnevalesco – quando cioè mette in atto la sua stessa trasgressione – che impedisce ogni forma di disinnesco. La sequenza si conclude con i boiardi che scambiandolo per lo zar uccidono per davvero Vladimir, mettendo involontariamente Ivan in una posizione ancora più forte di quella che aveva in precedenza. Se il primo capitolo di Ivan il terribile era stato dedicato alla rappresentazione del potere, questa sequenza mostra invece il potere della rappresentazione: sebbene finta e rovesciata è la rappresentazione che produce attraverso la mediazione della finzione qualcosa di vero. Anzi, è proprio perché agito in forma carnevalesca che il potere dice qualcosa della verità del proprio godimento e della propria violenza. 

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Ruben Östlund durante la presentazione di "Triangle of Sadness" a Milano. Cinema Anteo, 22 ottobre 2022 (via Ilaria Feole)

 

Andrebbero forse analizzati qui, al livello della loro forma carnevalesca e non per il loro contenuto apparentemente di critica sociale, alcuni film degli ultimi tempi che hanno goduto di un enorme credito nel dibattito culturale di sinistra anche per il loro spirito anticapitalista. Il primo, Parasite, il cui successo non ha precedenti nel mercato cinematografico americano (è il primo film a non essere distribuito negli Stati Uniti in lingua inglese a vincere l’Oscar come miglior film) racconta la storia di una famiglia lumpen che va a vivere nello scantinato di una famiglia alto-borghese di Seoul e che mostra in modo anche “geografico” il rovesciamento tra “chi sta sopra” e “chi sta sotto”. L’altro, da poco uscito nelle sale italiane e recentemente vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes è Triangle of Sadness di Ruben Östlund, ulteriore tappa di una cinematografia che ha fatto della provocazione contro radical chic ed élite culturali la cifra del proprio stile comico.  

Già in Play Östlund aveva mostrato come il suo cinema avrebbe potuto reggersi interamente sulla semplice idea di mettere in difficoltà, evidenziandone le contraddizioni, un presunto spettatore di sinistra dalle posizioni anti-razziste. In The Square, che già aveva vinto la Palma d’Oro a Cannes nel 2017, veniva deriso, esagerandone gli aspetti caricaturali e snob, il mondo dell’arte contemporanea, inteso come quintessenza delle élite urbane. Ma in Triangle of Sadness la critica sociale sembra farsi più esplicita e apparentemente mostrare persino qualche velleità marxisteggiante.

Ma basta davvero mostrare una crociera di superricchi che lavorano nelle armi o che “vendono merda” (cioè fertilizzanti) e vederli decadere dalla loro posizione di potere fino a ridurli ai bisogni primari per fare una critica sociale? Perché l’idea di fondo del film è tutto sommato semplice e diretta, e parla di quell’estetica del carnevalesco e del rovesciamento. Il mondo è fatto da una gerarchia sociale puramente fittizia sembra dirci Östlund: i ricchi sono tali perché c’è un equipaggio di camerieri e inservienti che risponde in modo zelante a tutte le loro richieste più assurde e poi una fascia che sta ancora più in basso a rappresentare i lavoratori blue-collar e razzializzati. E se c’è una qualche patina di consapevolezza sociale da parte loro (come chiedere ai camerieri di fare un bagno nel mare per “rilassarsi” un po’ dal lavoro), serve solo a dissimulare quello che è viceversa solo un ruolo di brutale potere.

Persino nel primo atto del film, quello dedicato ai due giovani modelli Carl e Yaya (senz’altro il più riuscito e dove Östlund dimostra di avere un indubbio talento per tempi e scrittura comica) l’idea di fondo è di rovesciare le gerarchie sociali tra maschile e femminile giocando su uno dei pochi luoghi del mondo del lavoro dove il gender pay gap è rovesciato (così come in Play il ragazzo nero dà della scimmia a quello bianco). Se i rapporti di potere sono una pura finzione, una pura dispercezione data dal proprio posizionamento sociale, non basta allora rovesciare tutto per mostrare quella che è la verità che sta sotto? 

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I tre atti del film sono in questo senso tre momenti di un percorso di disvelamento in cui nella quotidianità della realtà viene mostrato prima un germe di tensione, dato dal ruolo simbolico del denaro come principio di costruzione della relazione sociali (i due protagonisti, i modelli Yaya e Carl, si dicono esplicitamente che la loro relazione sentimentale si regge in realtà su una storia da vendere). E poi questo patto, che si regge su una gerarchia sociale rigida dove alcuni stanno sopra e godono di tutti i privilegi mentre altri stanno sotto e devono lavorare per mantenere questa finzione, inizia piano piano a rompersi.

Perché? Perché i ricchi sono così ignari di come funzioni la realtà, che nel costringere tutto l’equipaggio a divertirsi come loro anche solo per un paio d’ore non si rendono conto che è sul loro lavoro che si regge la realtà. Senza lavoro, la barca affonda. E l’inizio del naufragio della crociera su cui si concentra il film è infatti scatenato da una miliardaria russa che esige che tutto l’equipaggio si fermi e vada a fare un bagno – e i subordinati non possono dire di no, perché devono rispondere pedissequamente di sì a qualunque richiesta dei passeggieri per quanto assurda possa essere.

È qui che inizia a farsi largo quell’estetica del carnevalesco dove i ricchi si mostrano per essere non solo guidati da un’avidità cieca e senza morale – si vedano le discussioni ciniche sui commerci di armi – ma anche dimentichi della loro corporeità. E così la gerarchia sociale non può che rompersi tramite il registro del grottesco e dell’abietto: letteralmente affogando non nell’acqua, ma in un mare di vomito e di merda. La “nuova società” può ripartire solo da un’isola deserta dove le gerarchie sono rovesciate e ci si deve affidare agli unici capaci di sopravvivere, e cioè i lavoratori. Che questa volta però si trovano in cima alla gerarchia sociale. 

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Basterebbe questo per disinnescare il film. L’impressione è che l’utopia dell’isola deserta sia ancora “capitalista, troppo capitalista”: “quelli che stanno sotto” continuano a lavorare per tutti gli altri, ed esattamente come nel capitalismo non distribuiscono la ricchezza in modo equo, ma in base a una nuova gerarchia del privilegio, anche sessuale.

Östlund si lascia persino sfuggire un involontario witz, quando deridendo “il russo capitalista” che pare riferirsi in modo strumentale al motto marxiano “ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni” solo per farsi dare il pesce che lui non è capace di pescare, gli fa dire in realtà paradossalmente la verità (segno che le grandi massime rimangono vere indipendentemente da chi le dice).

Una società emancipata deve cambiare non solo l’ordine, ma il modo con cui viene prodotta e ridistribuita la ricchezza. E se i proletari invece si mettessero a distribuire in modo più egualitario, indipendentemente dal fatto che anche nel periodo di transizione dovranno farsi carico del lavoro anche di tutti gli altri (come per altro è sempre stato)? Non pare essere questa l’idea di Östlund, che infatti fa concludere il film con il più classico dei ritorni all’ordine conservatori. Il carnevalesco dopo tutto è sempre stata la forma del ritorno all’ordine. 

Eppure il problema del film non sta tanto nel cinismo di Östlund, che già ben conosciamo (ma ci sono grandi registi cinici, come Lars Von Trier). Ma nel fatto che sbaglia completamente l’essenza politica della propria forma. Il carnevalesco, proprio come sapeva bene l’Ėjzenštejn di Ivan il terribile, è infatti lo strumento più sottile ed efficace con cui il potere include la trasgressione a sé stesso. E dove anzi, si presenta esso stesso come il più grande trasgressore, che vuole agire al di fuori della legge (facendo di sé stesso la diretta emanazione della legge, che non si basa più sulla parola ma sul corpo del capo).

Ėjzenštejn con il suo ultimo e geniale film aveva previsto che la vera figura del potere ha le sembianze non tanto del grigio amministratore o del burocrate, ma del padre jouisseur, che per gioco si mette a dire al cugino scemo: “Adesso lo Zar fallo tu! E ordina quello che vuoi!” Il nuovo capitalista ha le sembianze di Bobby Axelrod della serie Tv Billions, quello di John Mackey di Whole Foods o di Elon Musk o Donald Trump. Figure che si presentano esplicitamente come outsider e trasgressive.

Östlund che da una vita ha preso come bersaglio dei propri film radical chic ed élite culturali, non solo condivide con tutti questi il proprio ordine del discorso, ma anche in modo più profondo il medesimo registro e immaginario. Forse è ora che un immaginario politico si metta non tanto a predicare come reazione ai Trump di oggi (o ai Ron DeSantis di domani) un ritorno all’ordine, ma che provi finalmente a disarticolare potere e godimento: per far sì che tra il padre autoritario e quello jouisser si possa finalmente trovare spazio per qualcosa di terzo, che è ancora a-venire. 

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