François Ozon, “Grazie a Dio” / La scrittura e la voce

31 Ottobre 2019

L’ultimo film di François Ozon, Grazie a Dio – premiato alla 69ma Berlinale con l’Orso d’argento – mostra in maniera chiara la propria identità filmica fin dall’inizio, letteralmente dalle prime battute. È fortissimo infatti il peso da subito attribuito alla parola: quella taciuta, quella omessa, quella (vuota) di consolazione, e quella scritta, di denuncia, incancellabile. È un cinema che si fa testimone della qualità stessa della parola. 

 

Da sinistra, François Ozon e il protagonista Melvil Poupaud.


Con la consueta intelligenza non disgiunta dal mestiere, Ozon allestisce un dramma avvincente e sincero, ma mai ricattatorio, sul cosiddetto Affaire Preynat, lo scandalo sessuale che ha portato al processo dell’arcivescovo di Lione Philippe Barbarin; una storia vera, tutt’ora in attesa di una conclusione. In occasione della presentazione milanese del film, il regista ha spiegato infatti come i cartelli prima dei titoli di coda (quelli in cui in genere si comunica al pubblico cosa succede “poi”, una volta finita la vicenda) sono costantemente in fase di aggiornamento, cambiando di proiezione in proiezione, perché dopo la presentazione berlinese dello scorso febbraio diverse cose sono accadute. In gennaio, il cardinale Barbarin e alcuni suoi collaboratori hanno dovuto presentarsi in tribunale, accusati di essere a conoscenza e di aver taciuto in merito a innumerevoli aggressioni sessuali su minori di 15 anni, perpetrati dal sacerdote Bernard Preynat nel corso di oltre vent’anni. La sentenza è stata emessa il 7 marzo: una condanna in primo grado di Barbarin a 6 mesi con la condizionale, colpevole di «omessa denuncia di maltrattamenti». Il successivo 18 marzo l’arcivescovo ha presentato le sue dimissioni a papa Francesco, che non le ha accettate. Intanto, già nel 2018 le dimensioni dello scandalo avevano spinto un’assemblea di 118 vescovi a votare per l’istituzione di un comitato indipendente che indagasse sulla pedofilia nella Chiesa francese dal 1950 in poi.

 

Un film sulla “parola liberata”: così è stato definito Grazie a Dio (e La Parole Libérée è appunto il nome dell’associazione delle vittime di abusi che da alcuni anni si batte per far luce sui casi di pedofilia occultati dal clero). In particolare, a essere protagonista è la parola scritta. Il film inizia infatti con la voce narrante di Alexandre (Melvil Poupaud), banchiere quarantenne e padre di famiglia, che rievoca in una lettera diretta all’arcivescovo Barbarin (François Marthouret) gli abusi sessuali subiti in giovane età da parte di un prete della diocesi di Lione, padre Preynat (Bernard Verley). Alexandre è un uomo realizzato, non si sente vittima né tantomeno traumatizzato: sarà una semplice domanda a scatenare in lui la voglia di giustizia. Un giorno, quasi per caso, un conoscente dei tempi degli scout gli chiede: “È successo anche a te, vero?”. Alexandre, che a 16 aveva raccontato tutto ai genitori (i quali sanno solo additarlo come «uno bravo a rimestar merda»), capisce di non essere solo. Si informa e scopre che Preynat di volta in volta è stato spostato di parrocchia, per nascondere le sue malefatte nel silenzio e nell’omertà generale. La voce di Alexandre legge, come fosse un monologo, questa lettera scritta a trent’anni di distanza dalle molestie subite. Il sesso era un tabù, e la chiesa un luogo sacro: parlare era semplicemente impossibile. Una “semplice” missiva ha dato così la stura a quello che si è rivelato un pozzo nero senza fondo. 

 

 

Incapace di rimanere ancora in silenzio, l’uomo decide di portare formalmente il suo caso al cardinale Barbarin, che professa preoccupazione e ignoranza sui crimini di Preynat, fornisce parole di rammarico e comprensione, ma oltre a questo sembra non prendere provvedimenti. Preynat invece, dal canto suo, si professa subito colpevole, ma sembra non rendersi conto della gravità dei fatti. E nessuno nelle gerarchie ecclesiastiche fa alcunché in proposito. 

 

Grazie a Dio segue perlopiù la linea dettata dal personaggio di Alexandre. Ha un andamento placido ma implacabile, procede con la mite costanza di una marea. Segue le vicende delle vittime (vicende autentiche, anche se i nomi sono stati, per ovvie ragioni, modificati) senza addentrarsi troppo in dettagli procedurali, lasciati all’esterno della rappresentazione. C’è una cadenza, un ritmo, una selezione delle parole utilizzate – e anche di quelle non utilizzate – che danno all’incipit (come poi anche al resto della pellicola) una forza narrativa peculiare. Con Grazie a Dio, Ozon riesce a trasferire la forza e il carattere della parola scritta nel “parlato” della narrazione filmica. Lo fa lavorando per sottrazione, lasciando spazio alle testimonianze delle vittime, scegliendone tre in particolare. Ciò che vuole raccontare è la diversità, l’unicità di ogni storia.

 

Il primo atto del film si svolge dunque in una forma quasi epistolare, descrivendo, con toni pacati ma senza lesinare dettagli sull’accaduto, la testimonianza di Alexandre e il suo tentativo di conciliazione. Vuole un’ammissione di colpa, e delle scuse, anche se la forma in cui queste arriveranno lo faranno sentire ancora più impotente e sconfitto. Credente e devoto, Alexandre cerca di porre rimedio alla corruzione (carnale e non solo) della Chiesa dal suo interno, trovando come risposta solo ed esclusivamente l’insuperabile muro di gomma che ben ha tenuto al riparo – scandalo dopo scandalo – l’istituzione secolare. Ma il suo atto di ribellione gentile apre un vaso di Pandora che porta le storie delle vittime a ricongiungersi, e insieme a ritrovare una nuova forza.

 

 

Si passa quindi all'ateo François (Denis Ménochet), che darà il via a una vera e propria rivolta mediatica. François, che all’inizio non ne vuole sapere nulla, alla notizia che Padre Preynat è impunito e ancora al lavoro a stretto contatto con i bambini decide di sollevare un polverone per arrecare un danno pubblico alla Chiesa. Ma così finisce per scontrarsi con Alexandre, più titubante: i due condividono lo stesso dolore, ma sono spinti da motivazioni opposte.     

Infine, c’è Emmanuel (Swann Arlaud), che fra i tre è quello rimasto più segnato dalle molestie subite. A differenza dei suoi coetanei, non è mai riuscito a superare il trauma e questo si riflette nella sua vita adulta: relazioni tossiche, nessun lavoro stabile, una psicologia fragile e vacillante. «Tutti abbiamo i nostri problemi», gli risponderà padre Preynat, sottolineando ulteriormente la negazione del trauma che gli ha rovinato la vita.

 

Il film è stato presentato come “Il caso Spotlight francese”. In realtà, come ha sottolineato lo stesso Ozon, Grazie a Dio non vuole affatto porsi come una sorta di versione europea del film di Tom McCarthy, piuttosto come qualcosa di complementare, che procede raccontando la storia dal punto di vista delle vittime. Dà loro una voce – o, per l’esattezza, restituisce a ciascuna di esse la propria voce. Il processo a cui assistiamo non è perciò quello giudiziario, ma quello che porta le vittime a una nuova, tanto dolorosa quanto necessaria, presa di coscienza. 

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