Forum Disuguaglianze e Diversità / Contro le disuguaglianze

17 Luglio 2020

Il contrasto alle disuguaglianze è diventato quasi un mantra del discorso pubblico. Troppo spesso, tuttavia, il richiamo si dimostra appiccicaticcio. Le disuguaglianze non sono definite, rendendo inevitabilmente debole il collegamento con le politiche. A volte, addirittura, l’aggiunta di un pizzico di equità sembra sufficiente a rendere accettabile qualsiasi politica, comprese le politiche che sono all’origine delle disuguaglianze e, come tali, dovrebbero essere abbandonate. Basti pensare alla richiesta di dosi ulteriori di flessibilità nel mercato del lavoro. 

Non corre questi rischi il libro appena pubblicato a cura di F. Barca e P. Luongo, Un futuro più giusto. Rabbia, conflitto, giustizia sociale (Il Mulino, 2020). Lo ammetto, sono di parte, essendo tra i fondatori del Forum Disuguaglianze e Diversità (FDD) che ha sostenuto il lavoro oggetto del volume. Spero, però, in queste pagine di convincere lettori e lettrici dell’importanza del libro.

Barca e Luongo definiscono subito le disuguaglianze di cui dovremo occuparci e preoccuparci. Sono le disuguaglianze che ostacolano il pieno sviluppo della persona umana.  La bussola è l’art.3 della Costituzione che il FDD declina in una prospettiva ispirata alla visione della giustizia sociale elaborata da Amartya Sen e centrata sulla libertà effettiva/sostanziale di formarsi e di perseguire i piani di vita che gli individui hanno ragione di ricercare. 

 

In questa prospettiva, vanno, sì, contrastate le disuguaglianze di reddito e di ricchezza. Come vedremo, il FDD ha elaborato una proposta innovativa al riguardo. Ma, le carenze di reddito e di ricchezza non sono gli unici ostacoli all’esercizio della libertà. Influiscono anche le disuguaglianze nell’accesso a beni e servizi fondamentali che il mercato non è in grado di produrre o produrrebbe in modo inefficiente o, ancora, che non vogliamo lasciare al mercato, poiché la loro mercificazione rappresenterebbe una negazione di opportunità.  I servizi sanitari e socio-sanitari sono, in questi mesi, diventati un caso emblematico. Altri esempi includono il lavoro, attività umana fondamentale, a prescindere dal reddito generato; la circolazione della conoscenza; un’educazione per la cittadinanza; la qualità dei luoghi e la più complessiva tutela dell’ecosistema. Ancora, se il fine ultimo è la libertà, neppure basta disporre di risorse, per quanto plurali. Contro quello che Sen definisce il “feticismo” delle risorse, occorre che la disponibilità stessa di risorse sia assicurata in forme che riconoscono il pari diritto altrui all’esercizio della libertà. Ad esempio, non basta garantire un lavoro: occorre dare potere al lavoro. Non basta garantire un servizio, se poi si è discriminati all’accesso.  In breve, occorre anche contrastare le disuguaglianze di riconoscimento. 

 

Prendere sul serio il contrasto alle disuguaglianze richiede altresì attenzione all’eterogeneità individuale. L’individuo medio non esiste. Non riconoscerlo significa discriminare a favore di alcuni e a danno di altri come è capitato con tante politiche che hanno caratterizzato i nostri stati sociali, a parole rivolte a tutti, ma di fatto, indirizzate al lavoratore dipendente maschio o alla erogazione di servizi omogenei insensibili alla pluralità di condizioni di svantaggio.

Chiarita la direzione di marcia, dopo la presentazione di alcune evidenze empiriche sull’andamento delle disuguaglianze, il libro affronta la questione del che fare attraverso un processo a tre stadi: 1) individuazione di una diagnosi – perché siamo arrivati a questa situazione; 2) indicazione della direzione generale da intraprendere e 3) messa a terra di tale indicazione attraverso l’elaborazione di proposte concrete  e specifiche di cambiamento. 

Il libro è stato scritto prima dell’emergenza Covid, ma come scrivono gli autori in una breve integrazione, le proposte sono “più valide e necessarie che mai dopo la crisi Covid-19.”

Cominciamo dalla diagnosi. La posizione è netta. Le disuguaglianze dipendono dalle politiche effettuate e da quelle non effettuate (policy drift). Sì, globalizzazione e economia della conoscenza contengono in sé dinamiche inegualitarie, ma sono anche il frutto delle scelte/non scelte collettive effettuate. Basti pensare alle scelte effettuate di liberalizzare pienamente il mercato dei capitali e alle scelte non effettuate di influenzare la direzione dello sviluppo tecnologico. E, comunque, globalizzazione e economia della conoscenza non sono le uniche responsabili delle disuguaglianze. Vi sono anche la de-regolazione del mercato del lavoro; l’adozione di modelli di governo societario centrati sulla massimizzazione del valore per gli azionisti e, con esso, delle remunerazioni per il top management che ne dovrebbe fare gli interessi; l’indebolimento delle politiche anti-trust e dello stato sociale e l’adozione di politiche cieche sia alla diversità̀ dei contesti e dei bisogni sia alle aspirazioni delle persone.

 

A quest’ultimo riguardo, il libro sottolinea il ruolo negativo giocato dal modello cosiddetto del New Public Management, che gli autori caratterizzano come basato sulla “presunzione iper-razionalista e antiliberale che la conoscenza necessaria per organizzare la società̀ e l’azione pubblica sia interamente posseduta da nuclei di «esperti» collocati in centri di competenza statali (in stretto collegamento con simili centri  privati) e che le regole da essi disegnate siano quelle adatte e «giuste» per tutti i contesti (one size fits all)”. Nel nostro paese, si aggiungono le politiche non fatte di ammodernamento del sistema industriale e delle amministrazioni pubbliche. 

L’imputato principale, anche in Italia, sarebbe il neo-liberismo che Barca e Luongo efficacemente sintetizzano nei convincimenti seguenti: “priorità del mercato e dell’impresa capitalistica quali veicoli di benessere collettivo”; priorità della crescita in quanto capace “di conseguire «prima o poi» la giustizia sociale”; delegittimazione delle capacità di intervento dello stato, come se pubblico fosse sinonimo di cattivo e mercato di buono, salvo quando il pubblico può essere utilizzato per favorire gli interessi strategici delle élite economiche; offuscamento della natura di soggetto collettivo dei lavoratori; “esorcizzazione del conflitto … indebolimento dei meccanismi di governo e di indirizzo pubblico degli altri dispositivi di governo societario …” sostenuti anche dall’alibi della società liquida che nega la persistenza del conflitto storico, al cuore del capitalismo, fra capitale e lavoro. Il neo-liberismo, inoltre, guarda alla libertà come mera libertà di andarsene; al merito come mero riflesso dell’accumulazione di ricchezza, non importa se chi vince è favorito dalle regole vigenti e/o dalla lotteria sociale che lo ha fatto nascere in una famiglia avvantaggiata, e alla povertà come effetto di carenze personali, in totale contrapposizione con la visione di un liberale come Beveridge secondo cui la disoccupazione, causa primaria di povertà, è in primis un problema dell’industria. Al contempo, globalizzazione e sviluppo tecnologico sono concepiti come fenomeni essenzialmente naturali. Il risultato complessivo è TINA (there is no alternative) e, con esso, lo svilimento della democrazia che è contrasto fra valori/visioni diversi del mondo. 

 

Se questa è la diagnosi, la strada dovrebbe essere chiara. Se le disuguaglianze derivano da scelte ispirate al neo-liberismo, bisogna invertire la rotta, facendo scelte diverse orientate alla giustizia sociale. La categoria della biforcazione prende il posto di TINA. Sta a noi andare in una direzione che promuove la giustizia sociale (o, quanto meno aggredisce le ingiustizie più profonde) oppure in una che mantiene o addirittura aggrava le ingiustizie.

Tassello importante di questa strategia è la messa in discussione della politica dei due tempi, fra crescita e contrasto delle disuguaglianze o nei termini oggi spesso utilizzati, fra pre-distribuzione e re-distribuzione. Le politiche per la crescita devono essere esse stesse basate sulla ricerca della giustizia sociale. D’altro canto, che senso ha la crescita se non serve a migliorare le condizioni di vita di tutti noi?  Un altro tassello è l’abbandono della politica tecnocratica. Le competenze sono cruciali. Ma non possono sostituirsi alla conoscenza diffusa, proveniente dal basso, dalle diverse realtà sociali e territoriali. La partecipazione delle organizzazioni della cittadinanza attiva e lo scontro fra le diverse visioni valoriali diventano dirimenti.

 

 

Invertire la rotta non è facile. Come riconoscono Barca e Luongo, occorre “modificare un sistema integrato e coerente di politiche, riequilibrare il potere fra lavoro organizzato e sistema delle imprese, e realizzare contemporaneamente un cambiamento culturale che modifichi il senso comune prevalente in molti ambiti di vita”. Decenni di neo-liberismo hanno alterato i poteri a favore dei più avvantaggiati e il neo-liberismo si è radicato nella popolazione, grazie anche alla capacità di appropriarsi, seppure distorcendole, di alcune esigenze libertarie degli anni 60 (oltre che essere stato favorito, anche su questo piano, dalle politiche di agevolazioni fiscali alle fondazioni che hanno investito ai fini del cambiamento culturale). Proprio perché tendente a alterare i poteri, il conflitto sarà inevitabile. Come scrivono gli autori “è una cosa ovvia in democrazia, anzi ne è il fondamento, ma proprio il pensiero neoliberista ha rimosso questa verità̀, minando gli strumenti del pubblico confronto, quindi è bene ricordarlo”.

Barca e Luongo offrono, però, un aiuto ulteriore entrando nel dettaglio di diverse proposte concrete di cambiamento. La messa a terra (della visione) diventa un’altra categoria fondamentale, oltre a quella della biforcazione.

 

Al riguardo, facendo tesoro del più complessivo lavoro del FDD di definizione per l’Italia delle 15 proposte avanzate da Anthony Atkinson in materia di contrasto alle disuguaglianze di ricchezza (cfr. anche A. Atkinson, Disuguaglianza. Che cosa si può fare, Cortina, 2017), Barca e Luongo si concentrano su “un cambiamento tecnologico per la giustizia sociale”; “un lavoro con più forza per contare” e “un passaggio generazionale più̀ giusto”.  Affrontano anche la questione della riforma della PA, essenziale per realizzare le politiche pubbliche, e quella della realizzazione di servizi fondamentali di qualità per tutti, con particolare riguardo alle aree marginalizzate, delineando una concezione di sviluppo locale basata sull’abbandono della logica dei «bandi di progetto» e sull’adozione di una politica rivolta-ai-luoghi. Nel libro, però, si focalizzano sui tre ambiti sopra indicati, presentando, per ciascuno di essi, una ricostruzione di cosa sia capitato nei decenni passati; una descrizione delle biforcazioni di fronte a noi e un insieme di proposte.

Rispetto al cambiamento tecnologico, il libro mostra un passato che si caratterizza per un’appropriazione largamente privata degli ingenti investimenti pubblici effettuati (oltre 300 miliardi di euro nel solo 2015 nell’area OCSE), grazie anche a una legislazione sui diritti di proprietà intellettuale che ha permesso ai privati di trarre profitto dalla conoscenza sviluppata dal settore pubblico, senza pagarne il costo. Il passato è altresì contrassegnato dall’assenza di interventi appropriati sull’uso dei nostri dati, personali e collettivi, che ha prodotto discriminazioni nel mercato del lavoro, potere di mercato nella determinazione dei prezzi, disegno perverso dei prodotti assicurativi, disumanizzazione dei rapporti di cura, messa in discussione della privacy nonché del gioco democratico stesso. 

 

La biforcazione diventa allora fra insistere in questa direzione oppure cambiare rotta liberando l’immenso potenziale di sostegno alla libertà individuale che l’economia della conoscenza può offrire. Come scrivono gli autori “la tecnologia dell’informazione ha in sé il potenziale per ampliare l’accesso alla conoscenza, per promuovere innovazione imprenditoriale, per facilitare relazioni e soluzioni cooperative a cavallo di classi sociali e luoghi, per produrre buoni posti di lavoro, per migliorare la qualità̀ di vita di tutti e nelle aree marginalizzate. Insomma, ha il potenziale per accrescere la giustizia sociale” e noi dovremmo muovere in questa direzione. 

Le indicazioni operative includono la revisione del Trattato TRIP e il riequilibrio dei diritti di proprietà intellettuale a favore del principio di libero accesso alla conoscenza; un’agenda sociale per le università; il contrasto alle povertà educative; la costruzione di piattaforme digitali collettive, nazionali e locali, che permettano una gestione pubblica delle risorse digitali, dei dati, delle reti, delle applicazioni e degli algoritmi di apprendimento automatico; il potenziamento del ruolo strategico delle grandi imprese pubbliche quali agenti di innovazione a favore della collettività e l’utilizzo innovativo degli appalti.

Passando, più sinteticamente, al lavoro la via è quella di abbandonare il progressivo svilimento subito sia che si tratti di livelli sempre più bassi di retribuzione, anche laddove la produttività è in crescita e/o di dequalificazione delle condizioni di lavoro e/o di diminuzione/annullamento del potere di negoziazione e/o di disattenzione nei confronti della carenza di domanda di lavoro e/o di abbassamento delle tutele per i disoccupati. Gli interventi consigliati, oltre al salario minimo, al potenziamento dei workers buy-out, all’universalizzazione degli ammortizzatori sociali e alla promozione della conciliazione, fanno leva sulla sperimentazione in medie, grandi imprese e in distretti industriali di nuovi schemi di democrazia economica. Centrale, al riguardo, è l’istituzione dei Consigli del lavoro e cittadinanza, organismi di rappresentanza dei lavoratori e della comunità che possano confrontarsi con i datori di lavoro. 

 

Infine, il libro si occupa dei giovani le cui libertà di formazione e perseguimento dei piani di vita sono state fortemente compresse negli ultimi decenni, in modo particolare nel nostro paese. Ciò vale per i giovani, in generale, esposti a un vistoso peggioramento delle prospettive economiche, e vale ancor più per i giovani provenienti dalle famiglie più svantaggiate. Le possibilità di ascesa sociale rispetto alla famiglia in cui si nasce, da sempre ai livelli più bassi nell’Unione Europea, appaiono oggi addirittura in diminuzione. 

Ai giovani il FDD indirizza la proposta innovativa all’inizio citata di contrasto alle disuguaglianze economiche, ossia, l’istituzione di un’eredità universale, una dote di capitale, da assicurare a tutti giovani al momento del passaggio nell’età adulta, a prescindere dalla alla ricchezza dei genitori e da qualsiasi vincolo circa gli usi. L’eredità universale sarebbe finanziata, quanto meno in parte, da un’imposta progressiva sulle grandi donazioni e successioni, che il FDD denomina «imposta sui vantaggi ricevuti» e sarebbe affiancata da servizi di supporto alle scelte sull’uso dell’eredità.

Certo, non è l’unica misura necessaria. Servono anche politiche contro la povertà educativa e il FDD propone anche un piano di reclutamento nella Pubblica Amministrazione in ruoli che valorizzino le competenze dei giovani in linea con gli obiettivi prioritari che la PA si deve dare. Le stesse politiche indirizzate a ridare potere al lavoro beneficerebbero i giovani.

 

Serve, però, anche l’eredità universale. La ricchezza influenza sia le opportunità d’istruzione terziaria sia altre opportunità fondamentali, quali la possibilità di rifiutare condizioni di lavoro inique o inappropriate, di resistere a shocks negativi, di realizzare un progetto imprenditoriale avendo la libertà di assumere rischi, di prendersi cura dell’ambiente e degli altri, di influenzare le pubbliche decisioni. La forma universale e incondizionata rispetta la libertà, sostenendo la possibilità dei giovani, anche di famiglie abbienti, di seguire piani di vita osteggiati dai genitori e evitando i rischi di paternalismo che sarebbero presenti in distribuzioni vincolate a determinati usi. Il finanziamento attraverso l’imposta sui vantaggi ricevuti, dal canto suo, assicurerebbe un impatto distributivo a favore di chi sta peggio, contribuendo anche per questa via a invertire la rotta nei confronti della crescente concentrazione delle ricchezze avvenuta negli ultimi decenni.  

In conclusione, il volume a cura di Barca e Luongo rappresenta un esempio assai utile di cosa significhi prendere sul serio il contrasto alle disuguaglianze, disegnando una strategia compatta e coerente di riforma in grado di unire attenzione ai valori e alle implicazioni per le politiche. 

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