Sebastiano vassalli, dieci anni dopo
«Ho smesso di fumare nel 1982 / ho scritto la mia ultima poesia nel 1983. / Da allora, il fumo e le poesie degli altri, / in genere mi danno fastidio». Così, in uno dei preziosi «Pulcinoelefante» in trenta copie dell’amico Casiraghy, Sebastiano Vassalli nel 2007, al di là della battuta divertente, suggeriva una precisa cesura nella propria biografia e nel proprio percorso letterario.
E in effetti Vassalli è uno scrittore che ha avuto due o più vite molto diverse e quel giro di anni indicato nell’aforisma Fumo e poesia sembra proprio uno spartiacque. Con il 1984 e l’uscita di La notte della cometa, il libro su Dino Campana, la sua scrittura prende una direzione diversa da tutte le esperienze più o meno neo-avanguardistiche dei primi anni, e non saranno poche le palinodie e le ritrattazioni, anche se per il primo periodo delle sue scritture Vassalli preferirà generalmente la via della rimozione (per esempio chiedendo con fermezza a Einaudi e agli altri suoi editori di non accennare a nessuna sua opera degli anni Sessanta e Settanta nei risvolti dei suoi romanzi).
La sua vicenda personale è quanto mai emblematica di una storia collettiva. Il cosiddetto «riflusso» degli anni Ottanta è battezzato, per la letteratura, da Il nome della rosa di Umberto Eco, che esce proprio nel 1980. Ritorno al racconto, rivalutazione delle trame, maggiore trasparenza della lingua. Si potrebbe fare anche l’esempio di uno scrittore come Gianni Celati, per quanto mai stato neo-avanguardista, che in quello stesso giro di boa temporale abbandona completamente la scrittura céliniana dei primi romanzi.
In occasione del decennale della morte, su Vassalli sono usciti tre libri e il primo, L’Antivassalli di Eugenio Gazzola (Le Lettere, 170 pp, 14 euro), a parte il capitolo finale, è tutto dedicato alla «prima maniera» dello scrittore novarese. Il libro di Gazzola, acuto nella ricostruzione e nelle analisi, nonché scritto con uno stile brillante, ripercorre gran parte delle opere del primo Vassalli e ricostruisce la fitta rete di rapporti che lo legarono agli altri artisti e intellettuali sperimentali a partire dagli anni Sessanta e per tutti i Settanta. Altro volume è quello di Roberto Cicala: Raccontare l’Italia. I libri di una vita di Sebastiano Vassalli (il Mulino, 424 pp, 25 euro). È una monografia che dà un quadro complessivo dello scrittore e che ha il pregio di portare alla luce moltissimi materiali del suo archivio: lettere e testi inediti, appunti preparatori, interviste note e meno note, con i quali Cicala può ricostruire in maniera dettagliata la biografia e il lavoro letterario di Vassalli. Infine l’ultimo numero della rivista «Nuova Corrente», curato dallo stesso Cicala e da Martina Vodola, è interamente dedicato alle collaborazioni giornalistiche di Vassalli, che coprono tre testate in sequenza: «l’Unità» (1979-88), «la Repubblica» (1990-1995) e il «Corriere della Sera» (1996-2015), con più brevi periodi al «Mattino» di Napoli e alla «Stampa», anche in questo caso con testi inediti.

La laurea con Cesare Musatti (su La psicanalisi e l’arte contemporanea, nel 1967) è un segno precoce di due interessi fondanti nella storia di Vassalli: l’espressione artistica e il disagio psichico. Nella sua vita ha sperimentato soprattutto il primo corno, sotto forma di scrittura, ma non è stato certo estraneo al secondo, sotto forma di nevrosi. Il suo interesse per l’arte contemporanea, parallelamente agli studi universitari, ha uno sbocco a livello creativo. Vassalli infatti nasce come pittore e le sue prime mostre, al Cavallino di Venezia (presentatore Gillo Dorfles, che sarebbe stato anche correlatore della tesi di laurea) e al Naviglio di Milano (presentatore Sanguineti) avvengono nel 1964 e 1965, quando Vassalli è ancora studente. La sua pittura è tendenzialmente concettuale e materica (usa sassi e legni), spesso lavora con la tecnica del collage. I suoi compagni di strada sono Claudio Granaroli, Ugo Locatelli, Giuliano Della Casa, Claudio Parmiggiani. Ma frequenta anche i poeti sperimentali che si aggirano nella cascina di Adriano Spatola e Giulia Niccolai, a Mulino di Bazzano, e ben presto abbandona la pittura per la poesia. Pubblica una decina di libri: i primi (ad esempio Disfaso del 1969) basati sullo stravolgimento linguistico, come i corrispettivi in prosa Narcisso (1968) e Tempo di màssacro (1970), che escono nelle collane di ricerca di Einaudi. Questi «antiromanzi» costruiti come trattati barocchi hanno come modello e mentore Manganelli, la cui Hilarotagoedia era stata scritta proprio nel fatidico 1963, ma tanto il Manga sembrava scettico e distaccato dalle cose, tanto Vassalli era umorale e impegnato politicamente.
Comunque questa fase è abbastanza breve sia per la prosa che per la poesia. Nei secondi anni Settanta Vassalli imbocca la via della narrazione con la trilogia satirica composta da L’arrivo della lozione (Einaudi 1976), Abitare il vento (Einaudi 1980) e Mareblù (Mondadori 1982), in cui l’effrazione linguistica diventa gioco (rivoluzione lozione) e per la prima volta entrano in campo dei personaggi, «poveri cristi dal poco talento e dalla molta confusione in testa», come scrive Gazzola, che rappresentano anche le ideologie degli anni Settanta degradate dall’ignoranza (il fascista di L’arrivo della lozione), dallo spontaneismo (il rivoluzionario di Abitare il vento), dalla nostalgia (il vecchio comunista di Mareblù). Anche nella poesia coeva, pubblicata in plaquettes autoprodotte con le Edizioni Il Bagatto, che Vassalli animava insieme all’amico Granaroli, il tono si fa più leggero rispetto ai versi precedenti: molta ironia, un po’ di sbeffeggiamento dei valori tradizionali, qualche incubo, ma tutto in una lingua molto semplice e comprensibile. Sono poesie che sembrano discendere da quell’Ernesto Ragazzoni, amatissimo poeta del primo Novecento di cui Vassalli scrisse ripetutamente e curò un paio di edizioni.
L’incubazione della nuova maniera e del nuovo atteggiamento verso la letteratura dura questo giro di anni: dal 1976 al 1983. Poi arriva La notte della cometa. Nel frattempo deve esserci stata una qualche folgorazione sulla via di Benedetto Croce, perché nessuno come Vassalli ha dichiarato più implacabilmente la distinzione fra poesia e letteratura. La poesia è rarissima e solo qualche giovane pazzo che decide di immolarsi per salvare e rigenerare il mondo, come Dino Campana, eletto «babbo matto», è in grado di praticarla. Tutto il resto è Arkadia. Proprio nel 1983 esce, stampato in proprio dal Bagatt, il pamphlet Arkadia. Carriere, Caratteri, Confraternite degli impoeti d’Italia. E i peggiori arkadi sono quelli delle avanguardie, nuove e vecchie (il suo libro sui futuristi, L’alcova elettrica, è del 1985). Ma sul tema valgano anche le due edizioni di Belle lettere, firmate la prima con Giovanni Bianchi (Il Bagatto 1979), la seconda con l’amico Attilio Lolini (Einaudi 1991). E soprattutto le parti metanarrative di quello che rimane a detta di tanti il miglior libro di Vassalli, e cioè L’oro del mondo (Einaudi 1987).

Inutile dire che in Dino Campana Vassalli sentiva una qualche identificazione autobiografica, se non altro per le vicissitudini familiari (genitori anaffettivi e ostili). Nella Notte della cometa lo scrittore immagina che Campana fosse diventato pazzo per via di una sifilide contratta nel periodo in cui frequentava l’Accademia di Modena e che i genitori lo volessero internare fin da ragazzo solo perché erano cattivi e non perché aveva manifestato ancora giovanissimo i segni di una schizofrenia. Per tutta la vita Vassalli ha confuso quella che era una verità narrativa perfetta per il romanzo da quelli che erano i dati oggettivi dei biografi, e le sue astiose polemiche con gli studiosi di Campana lo hanno accompagnato fino alla morte. Era un po’ come Pasolini che, a proposito di Cefis, diceva «Io so, ma non ho le prove». Vassalli «sapeva», o pensava di sapere, perché il suo rapporto con Campana era profondo e toccava le corde più riposte della sua anima.
Nell’Oro del mondo i conti con i genitori, e soprattutto con il padre «infame», vengono fatti direttamente e tutto il romanzo è disseminato di tracce autobiografiche, sia nelle parti risalenti all’immediato dopoguerra sia negli intermezzi satirici sulla società letteraria contemporanea. È un romanzo di un grande scrittore per la forza metaforica della narrazione (per esempio i poveracci che vanno a setacciare le rive del Ticino per ricavarne, quando va bene, qualche minutissimo granello d’oro, da cui il titolo), per l’intreccio e il controcanto fra i capitoli, per quell’indagine senza sconti sul carattere nazionale italiano, mutuata dal suo amico Giulio Bollati, che diventerà poi il suo marchio di fabbrica e che qui tocca il punto nevralgico, quello dell’opportunismo dei fascisti che si riciclano. Ma in questo libro Vassalli è grande scrittore anche per la lingua molto espressiva, in alcuni casi vorticosa nel rappresentare situazioni grottesche, caotiche e drammatiche.
L’oro del mondo è anche un punto di non ritorno. Proprio questo tipo di lingua verrà coscientemente abbandonato fin dal libro successivo, La chimera (Einaudi 1990), il suo più grande successo (forse non a caso) e in tutti quelli che seguiranno. Mi diceva: «A te piace L’oro del mondo perché ami la letteratura. Io l’ho amata ma adesso mi interessa raccontare storie». La vera cesura, forse, è qui: è quella tra lo scrittore e il narratore. Non mancheranno nei libri a venire pagine di scrittura intensa, anche virtuosistica, e penso ad Antonia mentre viene portata al patibolo nella Chimera, alla morte di Crispi nel Cigno, alla visione in cui affiorano le truculente origini di Roma nell’Infinito numero, e se ne potrebbero senz’altro aggiungere altre. Ma da quel momento la grandezza di Vassalli si misura nella forza delle vicende che i suoi romanzi raccontano, nei personaggi alle prese con le grandi illusioni che sbocciano e svaniscono nel «nulla pieno di storie», spesso sotto lo sguardo del Monte Rosa e più generalmente di una natura impassibile.
A questo proposito credo che la cifra dei suoi romanzi, quasi una firma d’autore, vada cercata nelle cornici, cioè nelle premesse ed epiloghi che dalla Chimera in avanti aprono e chiudono quasi tutti i suoi libri. «Dalle finestre di questa casa si vede il nulla. (…) Per cercare le chiavi del presente, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla; magari laggiù, un po’ a sinistra e un po’ oltre il secondo cavalcavia, sotto il “macigno bianco” che oggi non si vede. Nel villaggio fantasma di Zardino, nella storia di Antonia. E così ho fatto». Questo è l’inizio e la fine della premessa della Chimera. E da quella di Marco e Mattio: «A volte, specialmente d’estate, capita anche a me, come capitava a don Marco e a Mattio Lovat, di alzare gli occhi verso il cielo stellato. E mi piace perdermi col pensiero in quel pulviscolo di sistemi solari che si vedono tra una costellazione e l’altra, e in quel buio che c’è dietro i sistemi solari, dove si muovono inutilmente milioni di mondi. Soffermarmi a riflettere sull’infinità di quello sperpero che chiamiamo universo mi fa bene e mi aiuta a stare bene. Che altro sono le nostre impercettibili vite, e le nostre microscopiche storie, se non sperpero nello sperpero?». E le righe finali dell’epilogo di Cuore di pietra? «… quell’eterno, meraviglioso, inarrivabile artista che è il tempo. Un suo battito di ciglia, e l’uomo che ha scritto questa storia non esisterà più; un altro battito di ciglia, e al posto della grande casa sui bastioni ci sarà un edificio di cristallo in cui si rifletteranno le nuvole e le montagne lontane; un terzo battito di ciglia, e i contenitori chiamati automobili saranno a loro volta scomparsi… Perché no? Soltanto gli Dei sono immortali, mentre tutto ciò che esiste nel tempo è destinato a perire. Homo humus, fama fumus, finis cinis».
Se troppo spesso si è fatto il nome di Manzoni come archetipo sotteso ai suoi romanzi storici, il vero padre letterario di Vassalli è stato Leopardi e tutta la sua narrativa può essere interpretata, credo senza eccessive forzature, sotto la costellazione delle Operette morali.