Roberta Valtorta, la fotografia dei luoghi
«Osservare il paesaggio antropizzato mi ha aiutato, negli anni, a capire che cosa sono l’economia, il potere, la storia, la cultura, la socialità, la vita delle comunità, l’animo umano. […] Ma ciò che negli anni mi ha insegnato veramente a guardare e a cercare di leggere la complessità e le stratificazioni del paesaggio sono le fotografie, e il lavoro importante dei fotografi, che è andato oltre i confini della fotografia, per intrecciarsi alla letteratura, all’urbanistica, alla sociologia, all’antropologia». Così scrive Roberta Valtorta nelle pagine introduttive del volume Scritti 1983-2024. La fotografia e il paesaggio, edito da Electa nell’elegante collana “Scritti”, che raccoglie un’ampia selezione dei contributi teorici e delle analisi critiche pubblicati nell’arco di quarant’anni. Queste parole concentrano perfettamente il suo modo di intendere e indagare il medium della fotografia, come strumento per riflettere sull’atto stesso del vedere e dunque, sulla lezione degli antichi, per conoscere e accedere alla percezione del reale.
Filo conduttore di questi saggi è il paesaggio, la rappresentazione del paesaggio in fotografia. E non a caso questo corpus si apre con lo scritto dedicato a Viaggio in Italia (1983) pubblicato su “Progresso fotografico” prima che la mostra inaugurasse nel 1984: il progetto che ha sancito la nascita di quella che è stata definita “scuola italiana di paesaggio” e che resterà sempre al centro della sua ricerca storico-critica sulla nostra fotografia. Per Valtorta l’esperienza collettiva ideata da Luigi Ghirri ha agito, infatti, come punto di riferimento essenziale per la lettura del paesaggio italiano, e non solo, una sorta di termine di paragone ineludibile a livello visivo, intellettuale e affettivo.
È partendo dagli importanti studi su Viaggio in Italia che Roberta Valtorta ha indagato, come pochi, le profonde mutazioni di carattere concettuale che la fotografia ha vissuto e che hanno permesso a questo linguaggio di generare stratificazioni all’interno di sé stesso, mantenendo in vita significati più antichi e ad essi affiancando accezioni sempre diverse. Le analisi della storica e critica milanese – e qui sta il cuore e il pregio della sua ricerca – sono sempre state attente alla ricostruzione di un contesto culturale che è la storia della fotografia ma anche la più complessa storia del mondo delle immagini della cultura occidentale. D’altronde a partire dagli anni Sessanta sono contemporaneamente cambiate e si sono dilatate le funzioni sia pratiche sia simboliche della fotografia all’interno della nostra società e della nostra cultura. E da questa consapevolezza, come dimostrano questi scritti, occorreva ripartire per osservare e analizzare con uno sguardo nuovo la fotografia, un’arte nata tardi in seno alla millenaria e complessa storia dell’arte occidentale, che ha avuto in sorte il dovere di trovare un’identità, maturare e poi invecchiare celermente. Forse anche per questo (ma non solo, certamente; la nostra è soprattutto una tradizione legata alla pittura, che ha spesso guardato con qualche pregiudizio questa forma espressiva) si spiega la mancanza, in Italia, di una consolidata tradizione di “scrittura storico-critica di fotografia”, a differenza di altri Paesi, come Stati Uniti o Francia, penso a John Szarkowski e Jean-Claude Lemagny, solo per fare qualche nome. Nel nostro Paese chi ha dato un contributo teorico e critico significativo alla fotografia, anche sotto il profilo di una qualità della scrittura, sono stati Arturo Carlo Quintavalle, Paolo Costantini (grande talento, troppo prematuramente scomparso) e certamente Roberta Valtorta. Per primi hanno intuito, con acutezza, i profondi cambiamenti che la fotografia, anche in Italia, stava attraversando dagli anni Settanta, sulla spinta del decennio precedente, e della necessità di ricontestualizzare l’approccio critico all’interno del più ampio panorama culturale, facendo dialogare questa forma con altre discipline e altri saperi, come la letteratura, l’arte, il cinema, le scienze del territorio. Si può allora ben dire che Valtorta ha accompagnato il lavoro di molti fotografi verso questa consapevolezza, e che la sua scrittura critica è progressivamente cresciuta e maturata con l’opera di molti artisti, che non a caso hanno partecipato a Viaggio in Italia, penso in particolare a Luigi Ghirri, Mimmo Jodice, Gabriele Basilico, Mario Cresci, Guido Guidi, Vittore Fossati, ma anche Roberto Salbitani e Paolo Gioli, che sono poi divenuti, negli anni, gli autori elettivi della sua ricerca non solo entro la questione del rapporto tra fotografia e paesaggio.
Il volume è diviso per decenni, dei quali raccoglie, come detto, una forte selezione da un corpus molto più ampio ed è tenuto insieme dalla costante riflessione sulle possibili letture dei territori in trasformazione in relazione ai temi dell’identità e della memoria (due poli da sempre imprescindibili e ricorrenti nella sua ricerca). In questa direzione i testi certamente più emblematici sono quelli riguardanti la grande committenza pubblica Archivio dello spazio, il progetto più importante realizzato da Roberta Valtorta. Un’esperienza, durata dal 1987 al 1997, che ha coinvolto cinquantotto fotografi (ben tredici dei quali presenti in Viaggio in Italia) in una fitta indagine corale dello stratificato e complesso territorio intorno a Milano, fortemente segnato dall’industrializzazione e dalla fase post-industriale; una committenza che ha prodotto una collezione di quasi ottomila fotografie (conservate al Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, che lei stessa ha contribuito a fondare e diretto per molti anni) e oggi uno dei più grandi contenitori di fotografia di paesaggio di fine secolo. Un progetto, come si evince anche dalle parole dell’autrice, che apre anche a una più generale riflessione sul paesaggio che abitiamo, sulle trasformazioni e le ferite che lo hanno attraversato e ancora lo attraversano, «trascinato in un inarrestabile processo di antropizzazione, alimentato da un’economia globale veloce e distruttiva».
Scrive Valtorta nel saggio La fotografia dei luoghi come fotografia (1997): «Oggi possiamo vedere con chiarezza ciò che fino a qualche anno fa potevamo immaginare: esattamente dalla prolungata frequentazione dei temi del paesaggio contemporaneo da parte di molti artisti e dalla persistenza di questi temi dentro il diffuso clima culturale sono scaturiti con segno liberatorio quei linguaggi elastici che oggi permettono alla fotografia di crescere come arte a tutto campo, a partire da ogni frammento, da ogni tipo di spunto che la realtà offra».
In questi saggi la studiosa insiste molto anche sull’ipotesi e sulla necessità di lavoro collettivo per cercare, attraverso la fotografia, di restituire un senso al paesaggio contemporaneo interrogandosi sulle possibilità di una sua possibile narrazione oggi. «Il lavoro di gruppo – scrive – viene utilizzato come metodo privilegiato, spesso in progetti di committenza pubblica, a indicare che da visoni diverse di più fotografi può derivare una riflessione più utile, compiuta e partecipata».
La coralità e la necessità di una condivisione del lavoro e delle iniziative ha informato anche la sua lunga esperienza di docente in diverse accademie e scuole, in particolare al centro Bauer di Milano, dove ha insegnato per quattro decenni storia dell’arte e della fotografia. Il lavoro con gli studenti e il rapporto stretto e il continuo dialogo con le nuove generazioni di fotografi (molto interessante il saggio che chiude il volume: Mappe, paesaggi, percorsi del pensiero (2024) dedicato, tra gli altri, all’opera di Moira Ricci, Giorgio Barrera, Martina Della Valle) è andato di pari passo con la sua ricerca in una sorta di continuità storica, fedele – così come è stato per molti autori dei quali si è occupata – a un’idea di cultura non disgiunta dall’impegno civile nata in anni lontani, che vuole che l’arte, la fotografia, esista anche per gli altri, per la collettività e dentro i destini della società umana. Questo forse è l’insegnamento più importante che emerge dagli scritti di questo volume, quasi un testamento di chi ha letteralmente dedicato la propria vita alla ricerca e agli studi della fotografia, un’arte giovane, forte però, come spiega Roberta Valtorta, di una storia molto densa e responsabile di avere causato irreversibili mutamenti alla comunicazione e atteggiamenti radicalmente nuovi nel fare artistico.