Cronoprogrammi

8 Settembre 2014

Conosco un tale che un tempo faceva un mestiere inutile. Era un bravo ragazzo, uno con la testa a posto, era sempre gentile e cordiale con tutti e in un certo modo sentivo di volergli bene. Lavorava in un dipartimento pubblico, uno di quei calderoni in cui la forza lavoro eccede di molto il reale fabbisogno di manodopera e in cui i dirigenti hanno necessità di inventare in continuazione nuovi lavori per tenere occupati dipendenti che altrimenti ammuffirebbero di tristezza in una bestiale inoperosità. Lui era uno di quei dipendenti, una delle mele migliori in una cassa di renette esposte al sole e destinate a marcire.


Aveva due lauree: una laurea in Lettere e una in Sociologia del lavoro. Nel dipartimento lo avevano assegnato all’ufficio qualità. Ora, pensate per un momento all’espressione ufficio qualità, l’etimologia ci dice che il termine qualità indica la proprietà di una determinata cosa, la sua natura. Un ufficio qualità, a rigor di logica, è un ufficio la cui mansione principale è dare senso a tutti gli altri uffici, è in pratica la senape di Digione spalmata in un insipido panino prosciutto cotto e formaggio.


Tra i compiti dell’ufficio qualità c’era il monitoraggio dei processi produttivi e la definizione delle regole e delle procedure a cui dovevano sottostare tutti gli impiegati del dipartimento. Un giorno chiesero al mio amico di scrivere un piano di comunicazione interna che regolamentasse lo scambio di informazioni tra dirigenti, dipendenti e collaboratori. Il mio amico ci pensò un po’ e poiché, come detto, era un tipo dotato di acume, ma anche di una certa praticità che lo portava a schivare lavori stordenti e smaccatamente inutili, arrivò alla conclusione che non c’era bisogno di alcun piano di comunicazione interna.


Fissò un appuntamento con il direttore e gli spiattellò le sue idee, e cioè che in quel contesto le buone prassi per la comunicazione interna erano delle autentiche ovvietà, che era sufficiente usare gli strumenti già esistenti come il portale web, gli account nominali di posta elettronica, la newsletter, che il problema non era dato dalla mancanza di strumenti e quindi dall’assenza di un piano, ma era di ordine culturale, vale a dire che tra i dipendenti c’era una diffusa resistenza all’uso delle nuove tecnologie (riscuotevano ancora grande successo strumenti arcaici come il fax anche per le comunicazioni tra uffici attigui), che lo spreco di tempo e denaro richiesto per la redazione di un piano di comunicazione interna poteva essere eluso con un semplice ordine di servizio.

 

 

Il direttore lo stette a sentire senza replicare, poi a un certo punto gli mostrò una cosa al computer, una di quelle cose che – confessò – avevano il potere di esaltarlo: un diagramma di Gantt. Il direttore disse al mio amico che la visione di quel genere di grafici, con tutte le barre orizzontali di lunghezza variabile in cui viene rappresentata la durata di ogni singola fase progettuale, lo mettevano di buonumore (il direttore di quel dipartimento era uno di quei tipi affetti da narcisismo che pensano che una delle qualità migliori per far valere una leadership sia mostrare ai sottoposti, di tanto in tanto, dei comportamenti stravaganti). Perciò disse al mio amico che non solo pretendeva un progetto scritto, ma che lo voleva corredato di un luccicante cronoprogramma con tutte le fasi incrementali, i costi, i tempi, le qualità, le risorse, le variazioni di scopo e tutti quegli ammennicoli che tanto lo eccitavano.


Ora, il mio amico sapeva che il suo era un mestiere inutile e che il direttore intendeva commissionargli quel lavoro al solo intento di tenerlo occupato per il tempo che sarebbe stato necessario a immaginare per lui un altro lavoro altrettanto inutile. Così come il mio amico conosceva l’uso di quegli strumenti come il diagramma di Gantt che conferiscono ai progetti un aspetto solido e professionale, ma che in definitiva sono stati inventati solo per farci fare bella figura con i nostri collaboratori quando si spengono le luci in sala-riunioni e ci si prepara ad assistere tutti insieme a una nuova, elettrizzante seduta di proiezioni PowerPoint.


Perciò si mise a lavoro. Ma presto si rese conto che, nonostante la sua buona volontà, in materia di comunicazione interna non disponeva di una quantità di contenuti tale da riempire sei cartelle (tante ne erano richieste dalla direzione). Scovò allora in rete un progetto preesistente, cambiò qualche frase e iniziò a scrivere. Usò di proposito un lessico burocratico che fosse il più saccente possibile, fece una divisione in capitoli (per i nomi dei capitoli pescò a piene mani nei glossari per la progettazione in cui si possono scovare fighetterie idiomatiche come Mission, Finalità strategica, Target, Struttura organizzativa, Schema direzionale dei processi), incluse l’immancabile diagramma di Gantt per la rappresentazione delle sequenze, la durata e l’arco temporale di ogni singola attività di progetto, infilò i loghi, stampò il tutto, lo rilegò in bella copia e lo spedì alla direzione.
Per fare tutto questo impiegò cinque giorni lavorativi, ossia il tempo completo che era stato stabilito per la consegna del progetto. Non un giorno in più né uno in meno.


Un’organizzazione sana avrebbe risolto la questione con una circolare, dal momento che il messaggio che andava diffuso non era altro che questo: “Ragazzi, leggete le newsletter e usate le mail”. Otto parole in tutto. Ma organizzazioni in cui proliferano mestieri inutili hanno bisogno di messaggi redatti in un linguaggio ermetico, profluvi di parole in cui viene ripetuto fino allo spasimo il medesimo concetto. Così ne venne fuori un componimento letterario la cui comprensibilità era pari a un manoscritto di Qumran, corredato da un cronoprogramma in cui il mio amico avrebbe potuto inserire anche il costo e la quantità delle merendine che sarebbero state consumate dagli impiegati durante la pausa snack, tanto nessuno se ne sarebbe accorto.

 

 

I cronoprogrammi sono i ferri inutili dei mestieri inutili. Sono strumenti così inutili da poter essere utilizzati per gli scopi più inverosimili. Per esempio, se decidessi di mettermi a dieta per eliminare una volta per tutte quei cinque chili di troppo che mi porto dietro dalla post-adolescenza potrei organizzarmi come se dovessi procedere a una demolizione in campo edilizio. Ecco allora che infilerei sulle ordinate gli importi progressivi a partire dalla data di inizio dei lavori (il lunedì – le diete, si sa, si iniziano sempre di lunedì! – in cui dinanzi allo specchio farò solenne giuramento a me stesso che mai più guarderò con amore le vaschette di gelato al pistacchio che ho stivato nel frigo, sul cronoprogramma riporterò quindi la voce “SOLENNE GIURAMENTO – costo: credetemi, mi costa moltissimo!”), la progressione dei lavori (“due chili la prima settimana, un chilo a settimana nelle tre settimane successive, tre uscite al parco lunedì, mercoledì e venerdì, con corsa di otto chilometri intervallata da esercizi di stretching, NO carboidrati”), fino all’importo complessivo di tutti i lavori in corrispondenza della data di ultimazione (scarpe nuove per il running, acquisto di cibi sani e ipocalorici, massaggi per i dolori articolari, spese analista per eventuali scompensi psichici) e sulle ascisse i tempi di esecuzione (un mese, come detto).


La perfetta inutilità di un simile cronoprogramma sta nel fatto che per riempire tutte le caselle impiegherò come minimo una mezza giornata, annoiandomi moltissimo e divorando nel frattempo vaschette di gelato al pistacchio come se non ci fosse un domani, col risultato che quando dovrò cominciare la parte esecutiva dei lavori di riduzione del girovita mi ritroverò ad avere un chilo in più di quanto preventivato. Alla fine non sono affatto sicuro che raggiungerò il risultato, ossia che perderò i cinque chili che avevo programmato in partenza.

 

Se sarò stato bravo ne avrò persi tre, ma è anche possibile che non ne avrò perso neppure uno. In tal caso sarò indotto ad attribuire al cronoprogramma tutta la responsabilità delle mie malefatte e degli errori commessi durante il mese di dieta forzata, sosterrò che gli obiettivi erano irrealistici e che tutte quelle caselle in cui avevo condensato le mie aspettative alla fine non hanno fatto altro che produrre in me un senso di angoscia ingestibile e degenerativo.


Il progetto del mio amico funzionò più o meno così. Il direttore del dipartimento visionò il lavoro, si esaltò come previsto per il diagramma di Gantt, dichiarò che avrebbe subito dato mandato per l’avvio della fase esecutiva. Decise inoltre che al mio amico ormai l’ufficio qualità andava stretto e che avrebbe istruito le pratiche necessarie al suo trasferimento presso l’ufficio progetti europei, dove avrebbe potuto mettere a frutto un così grande talento visionario in nuovi cronoprogrammi di ambito internazionale (da leggersi “di inutilità internazionale”).

 

Il finale di questa storia è avvilente. Il mio amico un anno più tardi trovò un lavoro migliore e si licenziò. Da allora non ha mai smesso di avere contatti con alcuni dei suoi ex colleghi di dipartimento. Può affermare con una certa sicurezza che nessuno dei suoi progetti ha mai trovato applicazione, che ancora oggi in quel dipartimento le newsletter vengono cestinate senza essere aperte, che sono tuttora in minoranza gli impiegati capaci di cavarsela nell’invio di una semplice email.


Quanto a me, ho ancora cinque chili di troppo, ma ho in progetto di smaltirli entro la fine dell’estate.

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