Pierantozzi: le sabbie mobili di una mente
Un’astronave aliena atterra tra lo sconcerto di pochi testimoni. Quando questi corrono a raccontare a tutti l’evento eccezionale, le reazioni che incontrano sono tiepide, e loro non si capacitano di come sia possibile. Non è la trama del romanzo di cui sto per parlare. È la sensazione che mi è rimasta addosso dopo aver letto Lo sbilico di Alcide Pierantozzi (Einaudi). Il fatto è che la fanfara promozionale che giudica allo stesso modo più o meno tutti i libri in uscita ha finito per trasformarci in lettori apatici, scettici, ormai incapaci di provare autentica meraviglia. Così quando gli alieni arrivano per davvero la cosa non ci smuove più di tanto. Invece Lo sbilico dovrebbe scuoterci nel profondo, per alcune ragioni che qui ora cercherò di mettere in ordine.
Dall’antichità a oggi non esistono argomenti che non siano stati trattati dalla letteratura. Allora – si dirà – perché continuiamo a scrivere? Perché scriviamo, per esempio, ancora libri d’amore? E perché, come in questo caso, romanzi che trattano il tema della follia? Perché la letteratura ha il mandato di dire sempre qualcosa di nuovo sull’umano, e di farlo cercando di raccontare l’indicibile, ossia ciò che non può essere detto in altri modi se non con gli strumenti propri della parola. Lo sbilico fa appunto questo.
Quella di Pierantozzi si inserisce in una successione di opere letterarie che negli ultimi anni in particolare hanno trattato in varie forme il tema del disagio mentale, ma lo fa con una postura tutta nuova. Il suo è il punto di vista di un quarantenne con diagnosi di disturbi vari – bipolare, dello spettro autistico e dissociativo – che dichiara il proprio fallimento. Fallimento di uomo, di figlio, di scrittore. A mio avviso si deve partire da qui.
Il libro narra di un ritorno all’ovile nella cittadina natale sull’Adriatico, a San Giovanni di Colonnella, frazione di San Benedetto del Tronto, dopo vent’anni trascorsi a Milano, dove Alcide ha vissuto una giovinezza liberatoria e una precoce gloria letteraria, città che ora nei suoi ricordi si è trasformata in un rimpianto inconsolabile.
Ma quello in cui fa ritorno è un ovile devastato, il terreno di un vissuto, come riferito nell’ultima cartella clinica, “di insostenibile sofferenza a carattere esistenziale”. Vi ritrova una madre che rappresenta una frattura e – ora – un estremo rifugio, con cui spesso dorme ancora nello stesso letto, per placare se stesso e gli inganni della mente. Un padre senza nome, indicato per tutto il romanzo come “il Negazionista”, incapace di relazionarsi con la malattia del figlio e la cui massima premura è chiedergli: “Allora?” (“perché un padre deve chiedere «allora?» a suo figlio per statuto”). E un fratello su cui non deve gravare il peso invalidante della malattia mentale piombata in casa. Ci sarebbe un altro fratello in questa famiglia, un fratellino morto in fasce a causa di alcune gravi malformazioni, che nella mente del narratore sembra elevarsi a ossessione capitale e trauma d’origine, fino ad assumere le sembianze di una vera e propria prefigurazione del male a venire che gli avrebbe sconvolto la mente e la vita.

Lo sbilico nasce da un articolo pubblicato su «Lucy. Sulla cultura» nell’aprile dello scorso anno che suscitò, in me come nella maggior parte dei lettori, grande impressione. Si intitolava Fare palestra per non impazzire e iniziava così: “Sono le tre del pomeriggio di un giorno di marzo, di un anno in cui ogni mattina ho pensato di farmi del male”. La palestra, raccontava lì Pierantozzi (e ora nel romanzo) rappresenta una sorta di spazio calmo in cui riuscire a domare episodi dissociativi, allucinazioni, autolesionismo. Quella che sembra essere la costruzione di un’armatura carnale per arginare gli sbaragli della mente è però una falsa pista. “La mia malattia è mentale, ma riguarda il corpo”, scriveva lo stesso Pierantozzi nell’articolo, mentre nel libro ritorna spesso il tema di una sessualità annichilita. E del resto sappiamo bene ormai quanto il dualismo cartesiano mente-corpo sia una concezione piena di falle. Dal romanzo apprendiamo che Alcide però neppure in palestra può dirsi pacificato. Combatte infatti una guerra costante con gli attrezzi che non funzionano, con la fraudolenta scorrettezza dei proprietari, con la scarsa igiene, con gli altri clienti che lo eludono platealmente. Arriverà a progettare per vendetta il sabotaggio dell’impianto di condizionamento.
Il racconto è in presa diretta, immersivo, si potrebbe dire usando una parola abusata nella contemporaneità. La materia in cui ci si cala non è tanto la palude fangosa di una mente sconvolta dalla malattia, quanto la straordinaria meccanica del pensiero, un intelletto formicolante, ultravivo, generoso di sollecitazioni. Sono abituato a prendere ogni libro come fosse l’invenzione utopistica più sfrenata della razza umana: il viaggio nell’intelligenza di un altro. E qui siamo alle prese con un’intelligenza sbalorditiva. Ecco, più di tutto è questo. Lo sbilico è un racconto che, certo, mette a disagio (grazie a Dio esistono ancora romanzi che mettono a disagio!). Ma qui è un disagio che deriva dal confronto con questa forma estrema di intelligenza, non con la follia.
L’intelligenza di Alcide trova la sua forma organizzativa, e forse una via nella comprensione di sé, nelle parole. Le parole, ci racconta, gli sono piovute letteralmente in testa in un tardo pomeriggio estivo del 1998, quando un furgone uscito di strada attraversando una sopraelevata fa volare dal portellone aperto una pioggia di libri. Tra questi un dizionario dei sinonimi e dei contrari. Il ragazzino di appena tredici anni che vaga nella brecciaia intorno ai piloni dell’autostrada, raccogliendo il dizionario e spulciando tra quelle pagine, fa una scoperta cruciale: “il ticche e tacche dei pensieri si fermava, i mille canali aperti della mia mente si chiudevano, e un senso di ristoro mi penetrava”. È un’epifania. “Così, il bambino puzzolente di pomodoro, stretto al suo microvocabolario, cominciò a mettere in fila la squadra delle sue paure per arbitrarla con le parole”.
Lo scrittore germogliato da quell’evento, da quella quasi divina aspersione, rifiuta però l’idea della scrittura come salvezza. Sarebbe una romanticheria che si trova solo fuori dai tracciati della vera letteratura. E qui per fortuna si gioca a un altro gioco, qui le parole servono a sbrinare le immagini congelate dei cliché. Ecco. Leggere Lo sbilico significa proprio questo: perdere per qualche ora il bilanciamento, l’armonia apparente della natura, la statica del vivere.
