Fino al 29/7 alla Cinémathèque française / Chris Marker. L’onnivedente

29 Giugno 2018

Il luogo di lavoro del vecchio Chris Marker era una sorta di Aleph borgesiano, un fitto intrico di cavi, telecamere, registratori, computer, impianti audio e, soprattutto, un gran numero di schermi. Sedendosi nel mezzo di questo panopticon situato nell’est parigino, Marker poteva avere una visione completa del mondo. In questo ultimo ritiro della rue Courat, l’artista non aveva ancora rinunciato a esercitare il suo mestiere: guardare il mondo, registrarlo, montarlo e rimontarlo. In questo spazio della visione totale, egli aveva persino adibito alcuni videoregistratori alla registrazione ininterrotta di programmi televisivi, soddisfacendo quel bisogno di accumulazione spasmodica di immagini che aveva sempre contraddistinto la sua carriera. Sugli scaffali, organizzati in appositi raccoglitori, Marker conservava meticolosamente fotografie, cartoline, pubblicità, fotogrammi ed ogni altro tipo di immagini, montate in collages, accostamenti, contrappunti ironici. Una sorta di atlante warburghiano della memoria, che però non si preponeva alcuna sistematicità; esso era, piuttosto, ispirato all’associazione libera tipica di Dada e dei surrealisti. 

 

 

La Cinémathèque française, che dopo la morte di Marker ne ha acquisito l’archivio, cerca di mettere ordine in questo universo con una mostra, in un percorso che ricorda il Citizen Kane di Welles, alla ricerca dell’identità di quest’artista proteiforme. Sulle orme del gatto Guillaume-en-Egypte, uno dei suoi molti alter-ego, riviviamo Les sept vies d’un cinéaste (questo il titolo della mostra) perdendoci in un labirinto di testi, oggetti, immagini e suoni che i curatori Christine Van Assche, Raymond Bellour e Jean-Michel Frodon hanno ordinato cronologicamente e tematicamente. Ne emerge il ritratto poliedrico di un creatore inquieto: giornalista, viaggiatore, fotografo, musicista, scrittore, cineasta, sceneggiatore, editore, attivista politico, il vulcanico Marker pare sfuggire a ogni definizione stabile. La mostra, come d’altronde l’opera markeriana, è una sorta di sintesi di spazi e tempi, un aggregato di materiali e registri diversissimi, che fonde senza soluzione di continuità l’alto e il basso, il colto e il popolare, il moderno e il classico, il reportage e la fantascienza. Ci ritroviamo così a passeggiare in un universo caotico, tra immagini video-ludiche, ritagli di riviste, estratti di film, romanzi, sceneggiature, guide di viaggio, fotografie, comics, saggi letterari e strane apparecchiature iper-tecnologiche. 

 


Una stanza di forma circolare apre questo percorso calandoci in un mondo virtuale e straniante. Su un grande schermo, esploriamo il personalissimo spazio espositivo che, negli ultimi anni, Marker ha allestito sulla piattaforma Second Life: è una sorta di summa, il punto d’arrivo del suo lungo percorso. Da qui avanziamo e, in una sorta di flash-back vertiginoso, eccoci negli anni del dopoguerra, in cui il giovane intellettuale progressista prende parte al vitalissimo ambiente culturale francese. In questa sua prima vita, egli pubblica un romanzo, un saggio letterario e collabora con l’organizzazione Peuple et culture e con la rivista Esprit, incrociando i percorsi di André Bazin, del drammaturgo Armand Gatti e della regista Agnès Varda. Ma è con Alain Resnais che il sodalizio si fa più stretto: con lui, Marker lavora al cortometraggio Les statues meurent aussi (1953), film dedicato all’arte africana e animato da istanze fortemente anti-colonialiste. Nel percorso espositivo, la proiezione di questo cortometraggio ci presenta la figura del Marker appassionato d’arte: su una grande parete poco lontana, i curatori hanno sistemato una selezione del suo enorme archivio di immagini. Qui facciamo la conoscenza del Marker viaggiatore, uomo cosmopolita che ha fatto dell’esplorazione – itinerario fisico, certo, ma anche viaggio nel tempo e nelle immagini – il motivo principale della sua lunga vita. La mostra espone una serie di scatti realizzati da Marker in questo periodo, assieme ad alcuni esemplari delle guide di viaggio Petite Planète, da lui curate per le Éditions du Seuil.

 

Materiali per “La Jetée”.


Il Marker cineasta, protagonista della sezione successiva, nasce con gli anni Sessanta. Con Le Joli mai (1961) egli prende parte alla Nouvelle Vague sperimentando l’uso di cineprese leggere alla scoperta di una Parigi inquieta, indagata dal lato oscuro dell’ottimismo modernista. L’anno seguente, esce il suo film più famoso, La Jetée. In quest’opera composta di immagini fisse, Marker si serve del dispositivo del fotoromanzo per dirottarlo su altre vie: il supporto abbandona gli abituali territori dell’intrigo amoroso per mettere in scena, in una sorta di reportage da un futuro distopico, una Parigi distrutta dalla Terza Guerra mondiale. In questa sezione espressamente dedicata al film, i materiali esposti permettono di ricostruire il concepimento dell’opera, il lavoro di sceneggiatura e di selezione delle immagini.

 

 

L'istanza politica è esplicita in questi lavori, che connotano già Marker come cineasta impegnato. La mostra diventa allora un’occasione per celebrare il mezzo secolo dal Maggio francese, in un’altro spazio circolare che costituisce una sorta di fulcro del percorso espositivo. Nel 1967, Marker è tra i promotori di Loin du Vietnam, lavoro collettivo contro la guerra realizzato con i contributi di Jean-Luc Godard, William Klein e Joris Ivens. Questi anni lo vedono impegnato in attività di agit-prop con la fondazione del collettivo SLON (più tardi ISKRA) che sarà dedito alla realizzazione dei cosiddetti ciné-tracts, sorta di brevi tazebao su pellicola in cui il montaggio repentino di foto affianca la parola scritta. Molto tempo dopo, nei due affreschi storico-politici Le fond de l’air est rouge (1977) e Le tombeau d’Alexandre (1992), Marker mette a profitto la sua maestria nella pratica del found-footage. Nel primo film, che racconta il decennio di lotte 1968-1977, il montaggio incalzante e la voce off non cessano di interrogare lo spettatore sullo stato delle lotte sociali e sulla natura del mezzo cinematografico; nella seconda opera, concepita in forma di affettuosa lettera al regista Aleksandr Medvedkin, Marker riflette sull’esperienza ormai conclusa dell’URSS, in un abile montaggio parallelo che fonde la carriera dell’amico cineasta con la storia del comunismo internazionale. Partendo dall’insegnamento dei maestri sovietici (Medvedkin, ma soprattutto Dziga Vertov) Marker mescola un’estrema varietà di contenuti, attraverso un montaggio i cui significati non sono mai predeterminati. Nei suoi lavori, la voce off è presenza costante, ma non gioca mai un ruolo di semplice commento, né pretende di imporre un senso allo spettatore; essa appare piuttosto come parte del montaggio, parola poetica che procede con le immagini. 

 

 

Va notato che in questo cinema marcato dal dubbio, profondamente moderno, il discorso politico non è mai disgiunto da una riflessione sulla natura e sui limiti del medium stesso. A questo proposito, il cortometraggio L’Ambassade (1973) appare illuminante. In apertura di questo breve lavoro in Super 8, la voce off di Marker lascia intendere di aver filmato la vita quotidiana di alcuni rifugiati politici cileni all’interno dell’ambasciata francese di Santiago, durante il colpo di stato di Pinochet. Soltanto l’ultima inquadratura del film, in una panoramica rivelatrice, svela allo spettatore la posizione dell’appartamento: il centro di Parigi. Con un coup de théâtre dissacrante, Marker nega alla cinepresa la sua presunta vocazione realista, sottraendosi provocatoriamente alla semplicistica etichetta di documentarista. 

 

 

L’ultima parte della mostra, che chiude il cerchio riportandoci nella sfera del virtuale, ci fa conoscere il Marker degli ultimi anni, cui il supporto video e l’informatica permettono di fondere tutte le esperienze accumulate. Nell’installazione multimediale Zapping Zone (realizzata nel 1990 per il Centre Pompidou), egli sfrutta il principio del collage accostando, su alcuni schermi, fotografie, immagini televisive manipolate e estratti dei propri film. In seguito, grazie al CD-ROM interattivo Immemory (1997), Marker ci permette di viaggiare attraverso l’enorme banca dati delle sue immagini. Al centro di questi lavori, il tema della memoria, intesa come sovrapposizione libera e disordinata di immagini, luoghi e tempi. Opera centrale di questa fase, Sans soleil (1983) mescola il diario di viaggio al racconto storico e la riflessione politica alle reminiscenze personali, in una sorta di operazione proustiana che prende le forme di un’estasi audiovisiva. “La nuova Bibbia sarà l’eterno nastro magnetico di un tempo che dovrà rileggersi continuamente solamente per sapere di aver avuto luogo”, afferma Marker: l’immagine-video è, per lui, la nuova Scrittura, una memoria collettiva totale e intangibile. 

 

 

Quel che resta oggi di Chris Marker è dunque questo patrimonio labirintico ed eterogeneo, una matassa difficile da sbrogliare, un accumulo di immagini e suoni che finisce per nascondere la vera identità del loro autore. Personaggio fantomatico, uomo dai mille pseudonimi, Marker era, e resta oggi, una figura mitica: poche sono le immagini rimasteci di quest’uomo estremamente riservato che amava guardare senza essere visto. In anni recenti, nella metropolitana parigina, ci saremmo potuti imbattere in questo vecchio geek munito di strani occhiali ipertecnologici senza renderci conto di essere oggetto delle sue fotografie. “La foto, è la caccia” – dice un Marker memore di Bazin in un passaggio di Si j’avais quatre dromadaires (1966) – “Degli istinti di caccia senza la voglia di uccidere […] si bracca, si mira, si spara e clac, al posto di un morto, si crea un’eternità”. È questa, forse, l’immagine che meglio rappresenta Christian Bouche-Villeneuve: una sorta di vitalissimo spettro che si aggira per un mondo in cambiamento, attraversandolo in incognito e catturando qui e là attimi di storia, per poi scomparire nuovamente alla ricerca di un altrove. 

 

Tutte le fotografie sono dell'autore.

 

La mostra: Chris Marker, les sept vies d'un cinéaste. A cura di Christine Van Assche, Raymond Bellour e Jean-Michel Frodon. Parigi, Cinémathèque française, fino al 29 luglio. 

Catalogo: Édition La Cinémathèque française; 22x30, 400 pp., illustrato; € 45.

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