Jeff Wall: la voce dei morti

7 Settembre 2022

La scena è impressionante. Un costone arido, terra smossa, massi, detriti. Tredici soldati in vecchie uniformi sovietiche, i corpi straziati, coperti di sangue, ferite, ustioni: chiaramente morti eppure ancora vivi. Uno di loro sembra meditare assorto, la mano sulla testa a palpare una ferita, un altro scuote un compagno esanime, un altro ancora si solleva incredulo, la testa sfigurata, le mani mutile e bruciate. Alcuni sembrano impegnati in scherzi macabri: sghignazzano, fanno smorfie, indifferenti al loro stesso destino. Altre figure, guerriglieri mujaheddin, frugano nei loro zaini o ammucchiano in un angolo fucili e munizioni. La fotografia dell’artista canadese Jeff Wall si presenta con la disturbante oggettività di un’istantanea dal campo di battaglia ma è in effetti il risultato di un minuzioso lavoro di ricreazione artificiale: scenario e attori sono stati fotografati in studio, in singole sezioni poi assemblate con strumenti digitali, per l’epoca tra l’altro del tutto innovativi. Il titolo completo è Dead Troops Talk (A vision after an ambush of a Red Army patrol, near Moqor, Afghanistan, winter 1986), la data il 1992, le misure 229 x 417 cm.

Jeff Wall, Dead Troops Talk (A vision after an ambush of a Red Army patrol, near Moqor, Afghanistan, winter 1986), 1992
Jeff Wall, Dead Troops Talk (A vision after an ambush of a Red Army patrol, near Moqor, Afghanistan, winter 1986), 1992

In questo lavoro, che fa parte della sua serie di lightboxes – ovvero diapositive retroilluminate di grandi dimensioni –, Wall propone una sintesi originale tra i “formati” del quadro di storia ottocentesco (da cui deriva la classica struttura piramidale della composizione), del panorama dipinto e dello schermo cinematografico, puntando a una resa minuziosa dei dettagli veridici della scena, così da creare un incombente, quasi allucinatorio effetto di realtà. Nonostante la precisa localizzazione fornita dal titolo, Dead Troops Talk non documenta le conseguenze di una sanguinosa imboscata nell’Afghanistan occupato dall’esercito sovietico. La scena rappresentata è chiaramente una creazione fantastica, una visione – come dice il titolo – che fonde incongruamente reportage di guerra e cinema horror, humour noir e realismo macabro. I suoi riferimenti iconografici sono numerosi e illustri: i Disastri della guerra di Goya e La zattera della Méduse di Géricault, la retorica marziale dei dipinti napoleonici di Gros e il magniloquente naturalismo russo di Repin.

Radeau
Théodore Géricault, Le Radeau de La Méduse, 1819

Al centro dell’immagine si staglia l’enigma di resurrezioni grottesche e orripilanti, i giochi insensati dei soldati, l’incredulità che si legge sui loro volti. Cosa si stanno dicendo? “Volevo evocare una discussione tra chi era stato ucciso e chiedermi cosa avrebbero avuto da dirsi dopo essere stati uccisi”, ha commentato Wall parlando del lavoro nel 2006. Ma cosa significa per i caduti ritrovarsi “dall’altra parte”?

Dead

 

Questo è in effetti il vero oggetto della meditazione cum figuris di Wall. I morti in questa immagine sono “del tutto disinteressati ai vivi: a coloro che hanno tolto loro la vita, ai testimoni e a noi” ha scritto Susan Sontag in Di fronte al dolore degli altri. “Noi”, gli spettatori, i viventi, non abbiamo esperienza di ciò che i soldati uccisi hanno vissuto, “non possiamo capire. Non possiamo immaginare”. La fotografia afferma qui l’opposto del suo congenito valore di testimonianza oculare: ciò che essa mostra non è in effetti lo scenario crudele dopo una battaglia, ma la non immaginabilità stessa dell’esperienza bellica, la sommersione degli individui che ne sono afferrati in una dimensione totale, oscura, irriferibile. La guerra come frontiera invalicabile, come spazio muto, definitivamente antiumano, come già aveva intuito Walter Benjamin scrivendo nel suo saggio del 1936 Il narratore del silenzio dei reduci della Prima guerra mondiale, scampati a “un campo di forze attraversato da micidiali correnti ed esplosioni” in cui giaceva inerme “il minuto e fragile corpo dell’uomo”.

 

D’altro canto, che la fotografia, con tutta la sua potente suggestione di documento inconfutabile, mostri proprio nei fatti bellici la sua natura ambivalente non è una scoperta di Wall. Sin dalle immagini di Roger Fenton della guerra di Crimea, a metà Ottocento, e attraverso gli innumerevoli conflitti moderni fino alle guerre anticoloniali, al Vietnam, alla guerra del Golfo, all’intifada palestinese, all’Afghanistan, alla Siria e oggi all’Ucraina, la fotografia ha testimoniato gli orrori delle guerre ma ha anche fatto emergere il suo potenziale di manipolazione e strumentalizzazione, di simultanea rivelazione e occultamento. Così, perversamente, le prove fotografiche delle devastazioni e delle uccisioni di civili in Ucraina, da Bucha a Mariupol, sono state additate dai loro responsabili (russi e alleati) come montature della propaganda nemica (cioè ucraina e “occidentale”), la medesima tattica di disinformazione impiegata da franchisti e fascisti all’indomani della distruzione di Guernica.

Bucha
Civili uccisi nelle strade di Bucha, Ucraina, aprile 2022. Photo Ronaldo Schemidt/AFP

Per scendere più a fondo nel paesaggio della guerra occorre passare dallo scenario alla nuda presenza umana, stringere l’inquadratura sui volti delle vittime. Fu questa la strategia adottata da un memorabile libro fotografico del 1924 del pacifista tedesco Ernst Friedrich, Krieg dem Kriege! (Guerra alla guerra!), che raccoglieva, insieme a cruente immagini dai campi di battaglia, un’agghiacciante serie di ventiquattro primi piani di fisionomie devastate, le gueules cassées, le facce rotte che di ogni conflitto moderno sono poi il vero, intollerabile volto. Nel libro di Friedrich la morte appare evocata non come il sottoprodotto o il “danno collaterale” della guerra, ma al contrario come la sua sostanza prima, la sua verità: guardare in faccia le vittime significa reclamare la loro dignità perduta, mantenere per i vivi la promessa di una giustizia, di una continuità che la guerra si illude sempre di poter interrompere. Significa anche riconoscere l’esistenza del “dominio dei morti”, come lo ha chiamato Robert Pogue Harrison, lo spazio simbolico dove ormai abitano i soldati dell’immagine di Jeff Wall, e su cui le società umane edificano e faticosamente tramandano la propria eredità. 

Krieg

Per essere veramente compresa, la guerra esige d’altro canto un salto immaginativo non meno straordinario del fenomeno stesso, una capacità di penetrazione acuita dalla consapevolezza che nella sua natura terrificante si svela la fondamentale ambivalenza della psiche umana. Ciò che la guerra attiva e rende visibile è in effetti la pulsione di morte, la sua azione perturbante e distruttiva e l’attrazione irresistibile che essa esercita sul soggetto, come ha per primo argomentato Freud in pagine celebri di Al di là del principio di piacere. Nella guerra, d’altro canto, così come nella morte, “il disgusto e la seduzione febbrile si uniscono, si esasperano […]. Non si tratta più dell’annullamento banale, ma del punto stesso in cui l’avidità ultima e l’orrore estremo si scontrano”, scriveva Bataille ne L’esperienza interiore, un abisso dove “la passione che impone tanti giochi o sogni spaventosi è non meno il desiderio violento di essere io che quello di non essere più nulla”. 

 

E non è dunque la guerra, in cui una illustre tradizione identifica a ragione uno strumento essenziale della politica, ma l’amore per la guerra a costituire il grande enigma. È la sua potenza di corruzione, l’alone mitico che il conflitto riverbera sulle coscienze, il suo incessante riproporsi come esperienza limite, orgiastica e meravigliosa, a costituire, come ha ricordato lo psicoanalista James Hillman, il più grande ostacolo alla sua eliminazione. Per penetrare la natura ambigua della guerra occorre insomma raggiungere gli strati più nascosti della psiche individuale e collettiva, farsi strada attraverso ossessioni e rimozioni, sino alle strutture più profonde. E per fare tutto questo è necessario un evento, un caso che dia a questa realtà rimossa l’occasione di trapelare dal buio in cui è per definizione confinata. Una fotografia, anche.

In Dead Troops Talk Jeff Wall usa l’immagine per penetrare in una dimensione interstiziale, né vita né morte, un netherworld, uno spazio inaccessibile all’immaginazione, non simbolizzabile dalla parola. La guerra, sembra suggerire Wall nella sua immagine, segna il trionfo della pulsione di morte non perché afferma il dominio finale del nulla, ma perché dischiude la dimensione di una morte vivente, di qualcosa che rimane vivo anche dopo che è morto ed è dunque immortale nel proprio essere morto, impossibile da distruggere: un contagio che tocca ogni essere e ogni cosa, e si espande. La fotografia non è qui allora solo la prova di un inesauribile desiderio di appropriazione estetica, di una compulsione alla registrazione visiva che pone l’operatore in una posizione di dominio e di possesso, anche della morte. Essa è anche propriamente esposizione del proprio negativo, della paradossale condizione per cui all’assenza, all’impossibilità di ogni immagine, corrisponde l’irruzione spettrale del mondo di là

Esposti quotidianamente come siamo a immagini di guerra e di distruzione, l’anestesia, l’indifferenza, il sospetto al limite, diventano le condizioni ordinarie di ricezione della fotografia. Nella sua stessa sostanza figurativa, alla frontiera tra invisibile e immaginabile, l’artista canadese mostra invece come essa possa diventare il luogo di uno spasmo, di uno strappo in cui pulsa ciò che non possiamo conoscere per definizione, il punto cieco dell’esperienza umana: l’impossibile, il reale dall’altra parte, che solo in forma indiretta, in assenza, per enigma, ci è dato di presentire.

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita su “il manifesto – Alias”

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