Speciale Appennini / Cospaia

15 Novembre 2017

Nata sull'appennin rozza la vedi / Senz'arti e studi pel natio squallore, / Ma di frugale libertà gli eredi, / Han candida la fede, e bello in cuore

 

28 giugno 1826, il giorno della fine. In un sonetto dedicato a Papa Leone XII queste righe, scritte con deferenza e sincerità certificano la fine di una incredibile storia che ha attraversato quattro secoli rimanendo confinata nei tre chilometri scarsi di lunghezza di quella che fu conosciuta come Repubblica di Cospaia.

 

Una minuscola chiesa sulla cresta di una collina resa più dolce dal panorama attorno e dal sorriso di chi ci vive e ti accoglie cancellando il ringhio di qualche cane che mostra i denti oltre il cancello. Dalle punte degli appennini irregolari e scure alle valli e pianure a coltivazione. Così è oggi e così era anche allora. E chi ha forza di immaginarla, sei secoli fa, dominata dalla natura e da leggi degli uomini in continuo mutamento, non può evitare un brivido di paura e un profondo rispetto per quelle vite, nate e radicate lassù come querce. Basta uno sguardo, anche svogliato per trovare immediatamente gli appennini, e serve poca immaginazione per sentirli duri, ancor più inaccessibili di quanto non siano oggi, forse un problema, ma anche una risorsa o la spiegazione a tante domande e alla vita di quell'incredibile anomalia, in quei secoli andati tra fatica e incertezze.

 

La punta dell'Umbria che arriva a toccare Toscana e Marche. Anche se i confini di un tempo non sono quelli di oggi e anche se proprio per questioni di confini su questa terra, oggi nel Comune di San Giustino, vicino Città di Castello, sulla collinetta abitata da poche centinaia di persone è vissuta una storia arrivata con fatica e silenzio fino ad oggi.

La Repubblica di Cospaia è nata in quel 1441 per un errore grossolano e meraviglioso. Quattro secoli, sola al mondo, unica al mondo, grazie al destino e poi ad una saggezza alimentata dall'istinto di sopravvivenza.

 

Se come disse Edgar Allan Poe, “il posto migliore per nascondere una cosa è in piena vista”, Cospaia e i cospaiesi riuscirono benissimo a isolarsi da tutti restando dov'erano. Contadini e pastori che alzarono la testa dal lavoro dei campi e dai loro attrezzi in un giorno del 1441, forse per la prima volta nella loro storia da che qualcuno si era stabilito sul colle. Papa Eugenio IV aveva offerto in pegno il territorio di Sansepolcro a Firenze in cambio di 25mila fiorini d'oro. Lo Stato Pontificio e la Repubblica di Firenze mandarono i loro incaricati su quegli aspri luoghi di confine, così ardui da raggiungere e scomodi da abitare.

 

Il loro compito era quello di tracciare i confini statali e fu un lavoro che i messi toscani e quelli di Roma non svolsero contemporaneamente. Sapevano entrambi di dover spartirsi le terre confinanti con il torrente Rio. Firenze da una parte, Stato Pontificio dall'altra. Ma su quelle terre ancora oggi, come allora, sono due i corsi d'acqua che nascono sul Monte Gurzole a 671 metri sul livello del mare. Riascolo, verso San Giustino, e Rio della Gorgaccia, verso Sansepolcro. Vennero poi ribattezzati così ma nella prima metà del 1400, il nome dei torrenti era semplicemente Rio, per entrambi. Vennero fatte le divisioni del terreno e sulle carte ufficiali che riportano i nuovi confini gli abitanti di Cospaia notarono subito un errore. E fu in quel momento che drizzarono la schiena.  Mani torte, curve come radici d'olivo, annerite come il cielo e la punta di delle montagne, i contadini si guardarono negli occhi. Indicarono i corsi d'acqua e le carte coi confini e poi i due torrenti. “Noi siamo qui in mezzo. Non siamo compresi in questi disegni. Noi non apparteniamo alla Repubblica di Firenze e nemmeno allo Stato Pontificio”. 330 ettari, 2,5chilometri di lunghezza massima, 500metri di larghezza e nemmeno 400 abitanti, da quel giorno come nel corso dei secoli. Come ancora adesso.

 

Tanto bastò per dichiarare la propria indipendenza. Da tutti. Per stabilire, in conseguenza di quell'errore che Cospaia rappresentava un unicum e che da quel momento in avanti si sarebbe dovuta chiamare la libera Repubblica di Cospaia. Uno stato indipendente. Era il 1441 e in secoli in cui guerre, domìni, regni e dubbi si seguirono velocemente, quella Repubblica visse per quasi quattro secoli. Fino al 1826.

Lo Stato Pontificio e La Repubblica di Firenze si accorsero presto dell'errore nel tracciare i confini, ed ora che quell'errore aveva preso il nome di Repubblica di Cospaia pensarono a quali sarebbero state le conseguenze di annessione nell'uno o nell'altro Stato. Né Firenze né Roma avrebbero ceduto di un centimetro sulle mappe e sulla terra lavorata da pochi contadini, sui boschi in cima a quei monti. Nessuno avrebbe ceduto per favorire un altro Stato ma allo stesso tempo nessuno dei due avrebbe intrapreso la più stupida delle guerre, quella per prendersi un lembo di terra di nessun pregio e utilità.

 

Una manciata di famiglie, poche centinaia di persone senza istruzione e impreparate a tutto quello che andava oltre il proprio lavoro d'agricoltori misero in pratica le utopie di molti filosofi. La prima decisione dei cospaiesi fu quella più importante di tutte, che gli permise di iniziare un cammino incredibilmente lungo, e non fu la cultura a muovere tutto ma il ricorso costante alla coltura.

 


Cospaia poteva vivere liberamente nell'unico modo possibile, continuando così come sempre aveva fatto. Quando si trattava di prendere delle decisioni queste venivano discusse di comune accordo tra i saggi delle famiglie del paese. A parlare e riunirsi erano i vecchi, e il parroco, e nei primi tempi di quella Repubblica nemmeno si posero problemi che per il resto delle organizzazioni sociali sono elementari. “Su questa terra libera non comanderà nessuno. Non avremo Re o altre istituzioni. Se ci saranno da prendere decisioni le prenderemo insieme”. Nessuna forma di Stato, niente che lo lasciasse intendere, tranne quella bandiera bianca e nera con taglio diagonale e merlata che si erano dati come simbolo.

 

“Anarchia nella sua lata applicazione ed estrinsecazione” scrisse Filippo Natali nel suo “Lo Stato libero di Cospaia”, nel 1892.

A Cospaia non c'erano capi o padroni ma c'erano collette volontarie per pagarsi il medico. Non c'erano ambizioni di potere ma si sfruttavano i grandi privilegi della situazione. Non c'erano tasse da pagare. Quando sorgevano problemi di giustizia i contendenti sceglievano se recarsi a Città di Castello per avere un verdetto. Non c'era un esercito, nessun intermediario tra quelle famiglie e i loro diritti e i loro doveri. Solo il rispetto reciproco e la volontà di andare più lontano possibile con il loro stile di vita.

 

“Per vivere a lungo come meglio ci pare e senza dover sottostare a padroni, senza dover pagare tasse e gabelle, non dovrà cambiare niente. Cospaia resterà la stessa, noi resteremo gli stessi. Contadini, allevatori, artigiani. Tutto dovrà restare com'è se vogliamo passare inosservati e fare meno rumore possibile. Vivremo liberi, di quello che abbiamo finché Dio lo vorrà”. Forse queste le parole, sicuramente questo il messaggio. Oltre quello inciso nella casa del Signore, Perpetua et firma libertas, sotto l'architrave della piccola chiesa locale che oggi sembra ancor più piccola a guardare le case ristrutturate tutte attorno e anche quelle marcite.

 

Camminando per queste terre non c'è nulla di quel tempo e di questa incredibile storia che salti agli occhi, solo quella chiesa, poco più avanti un piccolo cimitero e sentieri ancor più stretti tra alberi e arbusti. Non ci sono resti di torri, mura o edifici imponenti perché non furono mai edificate. Anzi, molte case caddero e poi furono ricostruite dopo un terribile terremoto nella seconda metà del 1700. Segno di come la prima decisione di quel gruppo di famiglie, cioè restare contadini ma contadini liberi, sia stata condivisa e adottata da tutte le generazioni future, fino all'ultimo giorno. Tramandata come l'unica legge, di famiglia in famiglia e di fuoco in fuoco.

 

Inevitabilmente, dai primi decenni di vita, quel pezzo di terra accartocciato tra i monti aveva iniziato a dare fastidio. Ai due Stati confinati che volevano Cospaia ognun per sé e badavano che le scaramucce e piccoli episodi di prevaricazioni che ci furono non diventassero qualcosa di più. Seppur cercavano una maniera per far sottomettere formalmente e fattivamente la Repubblica di Cospaia, questa viveva grazie anche all'arguzia di alcuni capifamiglia che si lamentavano ora dallo Stato Pontificio e ora dalla Repubblica di Firenze per le ingerenze sulla loro vita da parte dell'uno o dell'altro Stato. Cospaia continuava a marciare al ritmo della semina e a quello dei raccolti. Restava libera, con sguardi addosso sempre più ingombranti e la burocrazia già macchinosa all'epoca faceva naufragare i tentativi di Città di Castello e Sansepolcro, di Roma e Firenze per stabilire un dominio su quella villa. Cospirò in favore della minuscola Repubblica anche la Storia che attorno viaggiava a ritmi frenetici. Guerre, rivoluzioni, nuovi assetti, nuove strategie. Il “problema” Cospaia sfilava in fondo alla fila di fronte a quanto accadeva in Italia e in Europa.

 

Cospaia cambiò, accelerando verso un sentiero inesplorato nel giorno in cui arrivò il tabacco. Maneggiato prima con curiosità, come pianta ornamentale e poi come il più grande commercio conosciuto in quella terra e non solo.

Introdotto nel 1574 nella Valle del Tevere da Parigi, quando il Cardinale Niccolò Tornabuoni lo spedì in dono al nipote Alfonso Tornabuoni, vescovo di Sansepolcro. Ai primi del 1600 era ancora pianta medicinale ma presto abbandonò la posologia medica. Fumato o ridotto in polvere da fiuto venne vietato da molti governanti e alcuni papi scomunicavano chi ne faceva uso. Finché non ci si accorse delle potenzialità commerciali. La scomunica cadde nel 1724, quando a quell'epoca Cospaia aveva già convertito 25 ettari del suo territorio alla coltivazione del tabacco.

 

Il commercio coi confinanti non poteva essere legale perché Cospaia, Stato libero nella sua più completa accezione, non aveva leggi e dazi. Arrivavano commercianti da ogni parte ma il timone dei cospaiesi, pur rimestando in acque illecite, teneva dritto: “nessun lusso dovrà venire dai nostri guadagni. Non dobbiamo farci notare”. E non fu certo un peso. Restarono contadini diventando anche contrabbandieri. I piedi però erano ben fissati dentro la loro terra, non c'era spazio per sogni e aspettative che non fossero di continuare a vivere come avevano sempre fatto.

 

Le loro case negli anni migliorarono ma senza spazio per i lussi. Non c'erano ville sfarzose, segno di come non ci fosse neanche una persona, o una famiglia, a comandare sulle altre. Le dogane venivano aggirate dall'astuzia dei contadini che sapevano come far passare le merci da uno Stato all'altro, coi quali, evidentemente continuavano a trafficare. Cospaia era uno Stato in cui si interrompeva per un attimo il corso della legge e delle volontà di governanti e pontefici. Cosa che tornò utile a tutti. Nel frattempo però la loro vita senza leggi e soprattutto senza prigioni aveva attirato anche briganti e malviventi che per scappare alle carceri degli Stati confinanti si facevano accogliere a Cospaia. Alcuni di loro presero in moglie le zitelle del posto per diventare cittadini cospaiesi. Fu un periodo turbolento che i contadini furono costretti a patire più che cavalcare, con quella pesantezza d'animo di chi non si era cercato tutto questo ma c'era precipitato dentro. Durante la festa patronale si udirono anche i primi colpi d'archibugio. Un litigio tra contendenti per ballare con una ragazza. Tre morti e l'eco degli spari che arrivò fino a Roma e Firenze.

 

Nella seconda metà del 1700 la Storia iniziò a correre più veloce. Si infittirono le pressioni di Sansepolcro per il Granducato di Toscana da una parte e Città di Castello per lo Stato Pontificio dall'altra. Il contrabbando e i briganti erano diventati troppo ingombranti. Roma e Firenze ricorsero all'arbitrato del Re di Sardegna ma “sopraggiunte vicissitudini d'Italia fecero trascurare la questione”. Ancora ritardi finché venne la Rivoluzione francese e tra il 1797 e 1799 l'Italia venne divisa in repubbliche. L'ex Stato Pontificio divenne Repubblica Romana. Cospaia fu aggregata alla giurisdizione di Città di Castello, dovette iniziare a pagare i suoi dazi e la sua libertà venne revocata. Ma fu soltanto per 18 mesi, quelli necessari a un nuovo stravolgimento. Papa Pio VII restaurò l'antico assetto statale, e Cospaia tornò ad essere, incredibilmente, quel che era stata dal 1441 in avanti.

 

Ripresero i commerci illegali, di tabacco come di altre merci, stipate in ogni locale libero a Cospaia. Tessuti e spezie. Ripresero anche le pressioni, quando non vere e proprie appropriazioni degli Stati confinanti sui cospaiesi, pure sul loro bestiame. La corsa nell'imbuto era sempre più stretta e la fine imminente. Nel 1821 venne il tempo in cui Roma e Firenze decisero che era giunto il momento di spartirsi il territorio. Gli equilibri politici e sociali erano cambiati. Nessun cospaiese pensò che avrebbe potuto esserci fine diversa da quella che stavano vivendo quando i primi delegati dei due Stati iniziarono a bussare alle loro porte nel 1825. Giunsero a Cospaia riunendosi nell'abitazione di Francesco Mori, la stessa che era servita per le molte riunioni portate avanti da sera a tarda notte per le questioni interne di quel piccolo Stato, amministrato davanti ad un caminetto acceso, sedie scricchiolanti come le schiene dopo il lavoro dei campi. La maggior parte di quel territorio e di quegli abitanti andò allo Stato Pontificio. Vennero sparati duecento mortari in aria su suggerimento di don Benedetto Biagioni per celebrare l'occasione. Colpi e botti che risuonarono stonati su quelle valli per la seconda volta in 400 anni, spaventando gli animali e gli uccelli che si alzarono in volo.

 

Vennero scritti dei sonetti da alcuni abitanti per idea dello stesso don Biagioni, arciprete di San Giustino che riportò una precisa testimonianza scritta di quanto avvenne quei giorni. Venne fatta lettura degli editti davanti alla popolazione di Cospaia e a quanto scrive Natali l'incaricato di leggerli si impuntò più volte, arrossendo, senza riuscire a proseguire. Quel momento sacro e formale si trasformò presto in una scena comica e grottesca tanto che il Delegato Apostolico gli strappò di mano quei fogli e domandò furioso se tra il pubblico ci fosse qualcuno che sapesse leggere. Si fece avanti l'ex chierico Francesco Pierini di San Giustino che con la sua lettura senza sbavature si guadagnò da Monsignor Fieschi il titolo di primo usciere pontificio di Cospaia. 

La Repubblica cadde, anche in questo unica al mondo, tra le risate per quella scena grossolana e inattesa. Senza rivolte, senza sangue, senza proteste, ben sapendo che quel giorno ineluttabile era già stato scritto nel momento stesso in cui i contadini loro avi avevano deciso di dichiararsi indipendenti. Ed era stato spinto sempre più in là, decennio dopo decennio e secolo dopo secolo, grazie alla fedeltà al principio di vivere con quel che si riusciva ad avere dal proprio lavoro.

 

Con il primo usciere pontificio, in quel 28 giugno 1826, davanti agli abitanti del paese e ai nobili giunti dalle città vicine vennero nominati anche un medico, un maestro, e il primo sindaco. 293 abitanti, dei 373 totali, che risiedevano sulla zona collinare e il centro della villa andarono allo Stato Pontificio mentre la zona pianeggiante con 80 abitanti al Granducato di Toscana. A ciascun capofamiglia andò in cambio una moneta d'argento che riportava il profilo del Papa, il “papetto”, e la possibilità di continuare a coltivare il tabacco, fino ad un massimo di mezzo milione di piante.

 

Oggi Cospaia nonostante abbia vissuto una storia quasi unica è in attesa di essere rivalutata. Poche le case che dai secoli scorsi sono arrivate fin qua, alcune raccolte in un abbraccio storto e un po' goffo che si trovano arroccate vicino alla chiesetta del paese. Da una di queste i proprietari mostrano fieri la prima pietra di posa con la data incisa sopra: 1507. Pietre, cippi e un percorso di chilometri tra macchia e colli che non a caso ha preso il nome di Sentiero del Contrabbandiere ed è stato aperto nel 2012 dalla Comunità Montana, toccando i vecchi confini dello Stato. La storia è finita, “a nemmeno quarant'anni dall'Unità d'Italia. Chissà se rimanendo libera ancora fino al 1861 la nostra Cospaia avrebbe potuto essere un altro piccolo Stato, come San Marino”, dice Daniele Bistoni anima e memoria del territorio, oltre che prima forza per la festa rievocativa che da qualche anno è tornata in vita. E oggi alcuni dei documenti che raccontano della storia di Cospaia sono custoditi nel Museo del Tabacco di San Giustino, a poche centinaia di metri dalla frazione-Repubblica, dove oltre la storia della lavorazione del tabacco sviluppata nei secoli fino a diventare la maggior risorsa per quelle terre, resta l'orgoglio, una storia bellissima e lo spazio per alcune leggende, al confine col vero. “Alcuni dicono che uno dei più antichi sigari che abbiamo nel nostro Museo sia stato preparato appositamente dai cospaiesi per Papa Leone XII. Altri sostengono per il passaggio di Garibaldi a San Giustino”.

 

Nota

Preziosi riferimenti nella ricostruzione sono stati i seguenti libri:

“Lo Stato libero di Cospaia” di Filippo Natali

“Cospaia. Storia inedita della singolare Repubblica” di Angelo Ascani

“Tra Rio e Riascolo. Piccola storia del territorio libero di Cospaia” di Giuseppe Milani

“Cospaia tra tabacco, contrabbando e dogane” di Enrico Fuselli

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