Una specie di spazio / Miliardari in orbita

27 Luglio 2021

Il 20 luglio 2021, Jeff Bezos, il fondatore e presidente di Amazon e l’uomo più ricco del pianeta, decolla insieme a altri tre compagni di viaggio, tra cui il fratello Mark, su una “navicella” posta in cima a un razzo della Blue Origin, azienda astronautica che ha fondato e possiede, raggiunge lo spazio – o meglio, raggiunge un’altezza dal suolo terrestre tale da essere convenzionalmente indicata come “spazio” – e torna a Terra. Qualche giorno prima, l’11 luglio, un altro miliardario, Richard Branson proprietario della Virgin Galactic, aveva partecipato a un volo della sua compagnia. Jeff Bezos e Richard Branson, con Elon Musk e la sua Space-X, sono i protagonisti di questa strana, affascinante, inquietante “corsa spaziale” tra miliardari. Una gara allo spazio che assomiglia (molto vagamente) a quelle delle superpotenze durante la Guerra Fredda: dietro un sapiente storytelling (l’investimento in public relation per queste imprese è pari solo a quello ingegneristico) fatto di “sogni di bambino finalmente realizzati” o “gara tra Paperoni” c’è la conquista (se non proprio l’invenzione) di un enorme business fatto di appalti con le agenzie spaziali nazionali, cargo privati, turismo spaziale. 

Bezos comunque era contento. Ha infatti superato il rivale Branson di una ventina di chilometri in altezza oltrepassando la linea di Karman, che a 100 chilometri di quota rappresenta il confine tra l'atmosfera terrestre e lo spazio. 

 

 

Nel pomeriggio del 22 luglio incappo in un’immagine (il presente è anche l’epoca in cui, come mai prima nella Storia, “incappiamo” in immagini: a quante immagini poteva essere esposto un contadino medievale, fuori da una cattedrale? Benvenuti nell’iconosfera, per dirla con il Joan Fontcuberta di La furia delle immagini, Einaudi. Ma non divaghiamo). Ritrae il luogo d’atterraggio del modulo della Blue Origin, un assembramento di giornalisti, cameramen, ma anche persone vestite normalmente, che circondano quattro individui con una tuta blu (come operai spaziali?), uno è calvo, è al centro della scena, attira gli sguardi e le attenzioni di tutti gli altri soggetti, due hanno dei cappelli da cow-boy, una ha i capelli argentei di una donna anziana. 

 

Screenshot da Microsoft Flight Similator 2020.


Da qualche tempo faccio fatica a distinguere di primo acchito un’immagine fotografica da un’immagine di sintesi, una simulazione al computer, o anche un dipinto iperrealista. Un’esitazione, uno spaesamento cognitivo che mi prende spesso guardando le immagini dell’ultima versione del simulatore di volo di Microsoft, Flight Simulator: non è un caso del resto, dato che l’intelligenza artificiale del programma usa, per creare la grafica del gioco, le immagini satellitari dei luoghi reali. La Terra è stata mappata 1:1 da tempo ormai (la stanno mappando anche ora, in tempo reale, i satelliti), lo sappiamo, tra gli altri ce l’ha insegnato Franco Farinelli in La crisi della ragione cartografica (Einaudi), e ce lo ricordiamo ogni volta che usiamo google maps o un altro navigatore. Solo che adesso, dentro la mappa, possiamo anche volarci

Un simulatore di volo è un tipo di videogioco molto particolare: non c’è una storia da portare a termine, né particolari missioni da compiere (o meglio, ci sono ma non sono la parte più importante). È uno spazio virtuale in cui viaggiare, da esplorare: una seconda Terra in cui posso fare del turismo senza spostarmi da casa.

 

La biglia blu.


Il 20 luglio 1969, Neil Armstrong e Buzz Aldrin sono i primi uomini a mettere piede sulla Luna. Sembrava l’inizio del futuro. È per questo che Bezos ha scelto questa data per il suo volo di cinque minuti a gravità zero.

Blue Marble è il nome con cui è conosciuta una famosissima fotografia: quella del globo terrestre scattata dall’equipaggio dell’Apollo 17, il 7 dicembre 1972. È una delle pochissime immagini a ritrarre la Terra completamente illuminata dal Sole, che in quel momento era alle spalle degli astronauti. L’equipaggio si trovava a 45000 km dalla Terra: l’Apollo 17 fu l’ultima missione Apollo, l’ultima cioè a portare un equipaggio umano sulla Luna. Non esistono quindi altre e più recenti immagini dell’intero globo scattate da mano umana, con un occhio umano dietro l’obiettivo. Blue Marble è se non la prima di certo la più celebre e celebrata fotografia del globo nella sua interezza, nella sua globalità.

 

Il 20 luglio del 2001, vent’anni prima del volo di Jeff Bezos, i c.d. "fatti di Genova" (quando è entrata in uso quest'espressione edulcorante?) culminavano con l'omicidio di Carlo Giuliani. Centinaia di giovani e meno giovani in quei giorni a Genova protestavano contro la globalizzazione, contro un’immagine del mondo plasmata unicamente dagli scambi economici di una rete così fitta e vasta da coincidere con il mondo intero, con la globalità.

 

Quando incappo in una foto o un video delle violenze della polizia a Genova o dell’omicidio di Carlo Giuliani, Instagram mi offusca l’immagine con un avviso: Contenuti sensibili. Sono immagini che potrebbero urtare la mia sensibilità, dice l’algoritmo: se proprio voglio vederle devo cliccare.

 

 

Dicevo dell’immagine dell’atterraggio della Blue Origin. Ecco, subito non riesco a capire se è una fotografia, più probabilmente uno zoom da come è sgranata e a bassa risoluzione, o un dipinto (per texture, uso della luce, composizione delle masse). Ha qualcosa della pennellata acrilica dei quadri di Jack Vettriano, quei dipinti un po’ kitsch ripresi in innumerevoli stampe e poster. O forse a darmi l’idea di un quadro è la presenza delle persone vestite normalmente: cosa ci fanno in un luogo d’atterraggio, quello che dovrebbe essere la scena per eccellenza di scienziati o militari? Sembrano dei passanti, delle figure che come il pendolo di Flaubert nella lettura di Barthes svolgono la funzione di “effetto di realtà”: solo che è una realtà incongrua, surreale appunto, come l’atterraggio di un Ufo in mezzo a una strada qualsiasi che attira curiosi e passanti. Un oggetto alieno atterrato nelle nostre vite. Ma da dove viene, da quale spazio? Quale specie di spazio? E l’alieno è Jeff Bezos, è Amazon? È il capitalismo delle piattaforme, la trasformazione del lavoro, il precipitato di quarant’anni di politiche neoliberiste e di aumento delle diseguaglianze?

 

La privatizzazione dello spazio non vuol dire solo che società private entrano nel settore, partecipano a lanci, possiedono vettori e in generale diventano attori della space economy. Vuol dire anche che lo spazio inteso come luogo dell’immaginario, come dimensione fantastica e potenziale, viene occupato da un privato, da un singolo individuo. Non più uno Stato ma un’azienda, non più una bandiera ma un brand. Ma certo, le ideologie ci sono sempre: se la space-race degli anni della Cinquanta-settanta era uno scontro tra Usa e Urss, tra capitalismo e socialismo reale, tra “mondo libero” e “utopia socialista” a seconda di chi la raccontava, ora a occupare questo spazio ideologico e immaginario c’è altro. Ma cosa? A cosa fa spazio questo spazio? 

 

"Uno sventurato sottoprodotto della corsa allo spazio tra Unione Sovietica e Stati Uniti e dell’immensa pubblicità riversata sugli astronauti in gara, è probabilmente l’identificazione ancor più stretta, nella mente del pubblico, della fantascienza con i razzi e con le pistole a raggi di Buck Rogers". Così scriveva nel 1962 James G. Ballard, uno dei maggiori scrittori inglesi del secondo Novecento che proprio dalla fantascienza traeva il materiale immaginario per arredare le sue storie. Lo faceva in un testo (fondamentale per la fantascienza degli anni Sessanta e per quella successiva) in cui annunciava la sua personale corsa allo “spazio interno”, quell’inner space psichico, dell’immaginario, quel territorio inconscio di pulsioni contrapposto all’outer space in cui fino a quel momento si era baloccata la fantascienza. "L’unico pianeta veramente alieno è la Terra. In passato la SF ha propeso verso le scienze fisiche – astronautica, elettronica, cibernetica – ma l’enfasi dovrebbe slittare verso le scienze biologiche, soprattutto sulle loro manipolazioni narrative e creative, implicite nel termine science fiction". 

I lanci di Musk, Branson, Bezos sono molto prosaici, hanno poco del potenziale di meraviglia che avevano quelli degli anni Sessanta: non invitano a sognare un futuro, ma a progettare un presente, con voli più economici e alla portata di tutti (tutti quelli che appartengono all’élite di mega-ricchi, ovviamente). Eppure il loro auto-racconto è pervaso da una “nostalgia del futuro” tipica di un’epoca che sembra cronicamente incapace di immaginare “un altro mondo possibile”. 

“Sognavo questo volo da quando avevo 11 anni” ha detto Bezos. Una fantasia infantile realizzata (a quale costo? E per chi?). Fantascienza: nel 2016 Bezos ha interpretato un ufficiale della Flotta Stellare nel film Star Trek Beyond. Le piattaforme automatiche su cui atterrano i razzi di Space-X di Musk prendono i nomi delle astronavi nei romanzi di Iain M. Banks (anche se probabilmente non ha colto la dimensione di utopia comunista di suddetti romanzi). Roba da nerd.

 

Il 20 luglio 1984, usciva nei cinema americani il film Revenge of the Nerds (in Italia La rivincita dei nerds). E in effetti i nerd si sono presi la loro rivincita negli ultimi quarant’anni, soprattutto negli ultimi venti. 

A volte ho l’impressione che viviamo in un mondo uscito dal sogno bagnato di un nerd, una realtà costruita su misura del loro immaginario. A cominciare dal rifiuto, se non orrore, molto maschile, di un certo tipo di maschile, del corpo, della fisicità. A vantaggio di una molto più controllabile, meno ansiogena, più infantile, virtualità. 

Hannah Arendt apre Vita activa con il racconto del lancio del primo satellite artificiale, il russo Sputnik e le riflessioni che innesca. È colpita in particolare da un giornale dell’epoca che scrive del satellite, e del radicale cambio di prospettiva cosmica che questo evento comporta, come "il primo passo verso la liberazione degli uomini dalla prigione terrestre". La banalità dell’affermazione, scrive Arendt, "non dovrebbe farci trascurare il suo carattere straordinario; infatti benché i cristiani abbiano parlato della Terra come di una valle di lacrime e i filosofi abbiano considerato il corpo come una prigione della mente o dell’anima, nessuno nella storia dell’umanità ha mai concepito la Terra come una prigione per i corpi degli uomini, o manifestato realmente la brama di andare letteralmente fin sulla luna. Sarebbe questo l’esito dell’emancipazione e della secolarizzazione dell’età moderna, iniziate con l’abbandono, non necessariamente di Dio, ma di un dio che era il Padre celeste: il ripudio sempre più fatidico di una Terra che era la madre di tutte le creature viventi sotto il cielo?"

 

La critica culturale Sarah Sharma interpreta la partenza come un esercizio di potere patriarcale, "un privilegio che avviene a scapito della coltivazione e del sostentamento dell’autonomia collettiva". Un potere contrapposto al valore tradizionalmente materno della "cura". "La cura" scrive "è ciò che risponde alla natura incontrovertibilmente imbrigliata della dipendenza umana e della contingenza della vita, la mutua precarietà della condizione umana. La partenza della donna è una possibilità quasi mai contemplata, poiché storicamente le donne non potevano scegliere quando accettare o abbandonare un rapporto di potere iniquo, ancora meno di accettare o abbandonare quel rapporto in maniera spensierata".

Il mondo ha bisogno di cure, la Terra più che mai ha bisogno di qualcuno che se ne prenda cura. Ma non guardate me, io vado. Sono un uomo libero, voi potete al massimo fare turismo virtuale nel simulatore di volo.

 

Ma quale libertà? "La libertà invocata qui era la libertà dal governo, cioè la libertà dalle tasse e dalla regolamentazione, cioè la libertà di agire puramente secondo i propri interessi, senza dover considerare gli interessi altrui – che mi sembrava l’idea di libertà più spietata e logora possibile". Sono parole di Mark O’Connell in Appunti da un'Apocalisse. Viaggio alla fine del mondo e ritorno (il Saggiatore, traduzione di Alessandra Castellazzi), una serie di reportage sulle apocalissi contemporanee e le persone che ci fanno i conti: dai prepper americani, gruppi più o meno organizzati di esaltati – spesso di estrema destra – che si preparano all’imminente collasso della civiltà facendo incetta di provviste e munizioni, a una società del South Dakota che affitta bunker extralusso per sopravvivere all’Armageddon; da Peter Thiel, il miliardario della Silicon Valley fondatore di PayPal e consigliere di Trump, che ha comprato intere regioni della Nuova Zelanda per farne il proprio Eden post-apocalittico privato, alla colonizzazione di Marte, sogno di un pianeta di scorta plasmato da altri miliardari tech come appunto Bezos o Musk. Se nel suo precedente Essere una macchina, O’Connell aveva raccontato il sogno dei nerd super-ricchi di emanciparsi dalla morte individuale, dal decadimento fisico, dalla prigione della carne, in questo libro racconta il loro desiderio divorante di emanciparsi dalla morte collettiva, di fuggire letteralmente da un pianeta in fiamme, di lasciare indietro tutto e tutti, di vivere per sempre in una bolla di privilegio che si autoalimenta attraverso la spoliazione della ricchezza del pianeta e della comunità. 

 

Tuta blu e cappello da cow-boy. Estrazione del valore dal lavoro, aggressive politiche antisindacali, disruption di tutti i mercati tradizionali da una parte; mito della frontiera, dell’uomo libero che forgia il proprio destino, e conquista uno spazio vergine con un razzo dall’imbarazzante forma fallica dall’altra. 

D’altronde la parola "colonizzazione" racconta una storia di predazione e sfruttamento che non si può far finta di non sentire.

 

"Alexa, accendi la luce": ogni volta che impartiamo questo semplice comando ai device Amazon Alexa "viene attivata una vasta rete di competenze: un meccanismo complesso di sfruttamento di risorse, di lavoro umano e di computazione algoritmica in cui si intrecciano attività minerarie, logistica, distribuzione, previsione e ottimizzazione. La scala di questo sistema va quasi al di là della comprensione umana. Come possiamo iniziare a vederlo, a cogliere le dimensioni e la complessità della sua struttura interconnessa?". Se lo chiedono gli studiosi Kate Crawford e Vladan Joler in "Anatomia di un sistema AI", un saggio (contenuto in AI & Conflicts, Krisis Publishing) in cui ricostruiscono – nei limiti di ciò che è conoscibile e non protetto da copyright e segreto industriale – tutte le risorse consumate dietro un semplice comando che attiva l’intelligenza artificiale di Alexa. Dal litio estratto per costruire i chip, alla logistica per distribuire i device, all’estrazione di valore dai dati degli utenti che li utilizzano, all’impatto ecologico del sistema che li sorregge. "Ciò che è necessario per interagire con Amazon Echo va ben oltre lo stack tecnico di modellazione dei dati, hardware, server e reti. Lo stack si spinge molto più in là in termini sia di capitale, che di forza lavoro e di natura, richiedendo un’enorme quantità di ciascuno di questi. I veri costi di questi sistemi – sociali, ambientali, economici e politici – rimangono nascosti e potranno restare in questa condizione per molto tempo ancora".

 

Perdonatemi questi accostamenti, ma mi pare che ci sia un'equazione segreta che unisce queste date, questi 20 luglio, con l'oggi: la sconfitta di molti (profondissima, per quanto mi riguarda lungi dall'essere elaborata), la vittoria di pochi, il risultato è la distopia realizzata in cui siamo immersi. Il volo dei miliardari nello spazio, allora, è anche il racconto del padrone che osserva dall’alto, da fuori, i suoi possedimenti, dopo che la sua fame predatoria ha estratto tutta la ricchezza possibile da un pianeta di colpo ristretto a una piccola, fragile biglia blu.

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