Vita e destino di un capolavoro / Stalingrado di Vasilij Grossman

3 Maggio 2022

Coloro che hanno letto Vita e destino (1960; Adelphi 2008), il capolavoro dello scrittore ebreo ucraino di lingua russa Vasilij Semënovič Grossman (1905 -1964), ricorderanno di aver provato, almeno nelle prime 80 pagine, un senso di smarrimento: di alcuni personaggi si dava per scontato che si sapesse chi fossero e alcune situazioni sembravano essere cominciate molto prima, ma non se ne sapeva niente. Qualche critico consigliò di andare avanti facendo finta di nulla, come quando si entrava nei cinema a film già iniziato da un pezzo, e lasciarsi catturare dalla bellezza del racconto, dallo spessore e dalla complessità umana dei personaggi, da situazioni altamente drammatiche descritte con partecipato distacco come si conviene a un classico. In un romanzo di quasi mille pagine c’era inoltre anche il problema della buona comprensione dello svolgersi della vicenda: come in tutti i grandi romanzi russi, dopo un po’, l’affollamento di figure e nomi, ulteriormente ingarbugliati dai patronimici, faceva perdere al lettore l’orientamento (qualche buon’anima anglofona si incaricò di compilare, su internet, lunghe liste per ordine alfabetico con l’indicazione della rete di relazioni tra i vari personaggi). 

 

Tutto questo non era voluto. Grossman aveva concepito una grande opera, in più volumi: Vita e destino era preceduto da una prima parte intitolata Per una giusta causa, pubblicata in Unione Sovietica nel 1952. Poi, nel 1961, durante il disgelo kruscioviano, Grossmann inviò al mensile letterario Znamâ ("La bandiera") la seconda parte: Vita e destino, che aveva composto negli anni cinquanta. Il redattore capo di Znamâ, Vadim Mihajlovič Koževnikov, per timore di poter essere considerato complice delle tesi espresse da Grossman, segnalò il fatto al KGB. Pochi giorni dopo lo scrittore ricevette la visita di alcuni agenti che sequestrarono: la macchina da scrivere, i nastri, i manoscritti e gli appunti di Grossman, fra cui quelli riguardanti un terzo libro (Tutto scorre). 

 

Ora finalmente il primo grosso volume esce anche in italiano con il titolo che voleva l’autore: Stalingrado (sempre nell’ottima traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi pp. 892). Il titolo originario (Per una giusta causa), parafrasava le parole pronunciate dal ministro degli Esteri sovietico, Vjačeslav Michajlovič Molotov, all’inizio della guerra: “la nostra causa è giusta”. Comunque, alle commissioni politiche del partito non piacque affatto che i protagonisti del libro fossero intellettuali di estrazione borghese e che l’autore non avesse enfatizzato abbastanza l’eroismo delle truppe russe nella città assediata. Ma ciò che dette più fastidio ai censori fu il racconto delle sofferenze degli ebrei nell’Ucraina e nella Russia occupate dai tedeschi. Alla prima edizione, seguirono due diverse versioni riviste dall’autore nel 1954 e nel 1956, ognuna con caratteristiche diverse, conformi alla contingenza storica: mentre in quella del ’52 (uscita in piena repressione staliniana antisemita con il pretesto del “complotto dei medici”), venivano censurate tutte le parti che si riferivano a personaggi e situazioni che riconducevano agli ebrei e all’eccessivo peso dato al loro sterminio; nelle altre due edizioni, all’inizio della destalinizzazione, si procedette a una nuova e differente “epurazione”, alleggerendo tutti gli aspetti che esaltavano troppo il ruolo di Stalin. 

 

Stalingrado si apre con la famiglia degli Shaposhnikov e i loro amici riuniti a una festa. Mille e passa pagine dopo, verso la fine di Vita e destino, dopo che l’assedio è rotto, i personaggi sopravvissuti ripensano a quel momento con profonda tristezza. Il romanzo mescola la grande storia con i destini di tanti individui comuni. Inizia nell’aprile 1942 quando il treno di Mussolini entra nella stazione di Salisburgo, dove Hitler è in attesa di discutere una grande offensiva tedesca nella Russia meridionale. Segue raccontando la storia del semplice contadino russo Vavilov, che ha appena ricevuto i documenti per la convocazione alle armi e si preoccupa di non avere abbastanza tempo per lasciare la sua famiglia con la legna per durare tutto l’inverno. “Un contadino che lascia il suo villaggio per la guerra non sogna medaglie e gloria”, riflette Vavilov. “Sa che probabilmente sta per morire”.

 

Anche nei capitoli dedicati al nemico, sia che riguardi Hitler e i grandi generali che i soldati semplici, Grossman utilizza la lente della compassione per descrivere l’umanità con le sue virtù e difetti che caratterizza questi uomini, malgrado la loro profonda malvagità. Lo scrittore intende esprimere l’esaltazione di una “guerra popolare” in cui “grandi imprese possono essere compiute da persone semplici e comuni”: rende omaggio sia al sacrificio individuale che a quello collettivo che ferma l’avanzata nazista: "Chi scrive ha il dovere di raccontare una verità tremenda, e chi legge ha il dovere civile di conoscerla, questa verità". Attenendosi scrupolosamente a questo principio, a dispetto della censura e dei gravi rischi, Vasilij Grossman narrò in presa diretta le vicende del secondo conflitto mondiale sul fronte Est europeo. Stalingrado è un racconto biografico e polifonico di una guerra tremenda ed eroica, un’alternanza continua di dolori, orrore e gioie, illusioni e disincanto.

 

Dei soldati, provenienti dalle nazionalità più varie, interpreti e specchio della “spietata verità della guerra”, Grossman ci mostra le paure (fino ai numerosi atti di autolesionismo), gli eroismi, e persino la bestialità di alcuni che la guerra trasformò in predoni e violentatori. Un’opera che ci permette di ricostruire, al di là della retorica, la “Grande Guerra Patriottica” sovietica, l’esperienza umana fondamentale nella vita di Grossman (come di moltissimi sovietici). Da essa prese avvio la sua presa di coscienza critica e un percorso letterario che farà di Grossman uno dei più grandi scrittori russi di tutti i tempi e un lucido accusatore degli orrori dello stalinismo e dell’antisemitismo.

 

I curatori inglesi della nuova edizione di Stalingrado, Robert Chandler e Jurij Bit-Junan, hanno fatto un grande lavoro, anche sui taccuini dello scrittore, per ripristinare una versione il più possibile conforme al progetto originale. Nella postfazione, che precede un utilissimo indice analitico dei personaggi, Roberth Chandler parla di una “dilogia” ispirata a Guerra e pace di Lev Tolstoj. In realtà si deve parlare piuttosto di una “trilogia” incompiuta, perché anche Vita e destino avrebbe dovuto avere un seguito. La disillusione e l’amarezza per aver visto il tragico e violento volto del sistema sovietico, che già trasparivano nel rimasto inedito Vita e destino, portarono Grossman a scrivere un altro capolavoro con altri personaggi e una critica politica spietata con acute considerazioni sulla storia millenaria della Russia, sulla non-libertà del popolo russo, sulla fondazione di uno Stato onnipossente e illiberale la cui responsabilità è attribuita a Lenin, prima che a Stalin, che comunque viene da lui paragonato a Hitler.

 

Grossman, a differenza ad esempio di Michail Bulgakov, aveva creduto nel comunismo e aveva anche fatto parte della nomenklatura intellettuale sovietica. Quindi, anche nel momento dell’amara resa dei conti con un sistema violento e corrotto, era in grado di capire lucidamente certe motivazioni dei suoi rappresentanti. Questa è la forza del suo ultimo discorso. 

 

 

Quando la Germania invase l’Unione Sovietica, Grossman, che aveva due lenti degli occhiali spesse come fondi di bottiglia, tentò di arruolarsi volontario, ma fu respinto. Tramite alcune conoscenze nelle alte sfere militari riuscì ad essere aggregato all’esercito combattente, con tanto di divisa, come inviato speciale di "Krasnaja zvezda" (Stella Rossa), il giornale dell'esercito sovietico che seguì per oltre mille giorni su quasi tutti i principali fronti di battaglia: l’Ucraina, la difesa di Mosca e l'assedio di Stalingrado, che fu il punto di svolta nelle sorti della guerra. Alla sua figura di febbrile e fanatico corrispondente sul campo si è ispirato il regista Jean-Jacques Annaud nel film sull’assedio di Stalingrado Il nemico alle porte (2001), facendo vestire i suoi panni da un ottimo Joseph Fiennes. 

 

Le corrispondenze di Grossman ebbero un grande successo tra gli ufficiali e soldati sovietici, che si riconoscevano nei personaggi e nelle situazioni che descriveva, ma anche presso un vasto pubblico di cittadini ansiosi di ricevere notizie non troppo reticenti o contaminate dalla retorica ufficiale. Lo scrittore spesso cercava personaggi da mitizzare e le cui gesta enfatizzare, ma, nella maggior parte dei casi, coglieva perfettamente la varietà dei sentimenti e comportamenti degli esseri umani gettati disperatamente tra le braccia matrigne della guerra Questi articoli, i suoi taccuini di guerra e i saggi conservati negli Archivi, le lettere alla figlia e al figliastro, sono serviti a comporre il volume Uno scrittore in guerra. 1941-1945 (2005; Adelphi 2015), di sorprendente maturità e qualità letteraria. Tutto materiale che era servito a Grossman per scrivere, a guerra ancora in corso, il trionfalistico Il popolo immortale (1943), poi Stalingrado (Per una giusta causa) e Vita e destino.

 

Durante la guerra Grossman ebbe anche modo di raccontare come vennero liquidati gli ebrei. Fu tra i primi soldati a entrare nel campo di sterminio di Treblinka e descrisse quello che vide in un racconto memorabile: L’inferno di Treblinka, 1944; Adelphi 2010). Nel 1944, su “Stella Rossa”, comparve una sua corrispondenza intitolata: L’assassinio degli ebrei di Berdičev. Fino alla Prima guerra mondiale, la sua città natale, Berdičev, era un importante shtetl ucraino (circa 80% della popolazione era ebrea): dal 1861, con 41.617 abitanti ebrei, era infatti la seconda comunità ebraica dell’Impero russo. Per rafforzare il suo racconto, Grossman rappresentò in modo quasi idilliaco la vita degli ebrei nella sua città, prima della guerra, spiegando con questo l’iniziale loro incredulità per le sadiche vessazioni e torture, messe in atto dai tedeschi: “La gente non riusciva a credere che le umiliazioni e gli omicidi di quei primi giorni fossero compiuti dietro un ordine preciso; cercò dunque di presentare le proprie rimostranze alle autorità tedesche, sollecitandone l’intervento contro ogni eccesso ingiustificato. Il fatto era che migliaia di persone non potevano tanto facilmente rassegnarsi all’idea spaventosa che il governo di Hitler favorisse e approvasse tutti quegli atti di violenza. La loro ragione si ribellava all’inumana verità”. Descrisse puntualmente il loro massacro: un’orgia di diabolica violenza che culminò con le fucilazioni di massa, appena fuori città, sul Monte Calvo. 

 

Quel racconto venne da lui inserito nel volume collettivo Il libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945 (1994; Mondadori 1999), a cura di Vasilij Grossman e Il'ja Grigor'evič Ėrenburg. Era ancora in corso la lotta contro l'occupante tedesco, quando i due scrittori vennero incaricati dal Comitato Antifascista Ebraico di raccogliere tutte le testimonianze disponibili sul genocidio degli ebrei sovietici ad opera dei nazisti. Dopo il 1945 tuttavia il Comitato entrò nel mirino di Stalin e dell’NKVD. Le bozze del libro, già vistate e purgate dalla censura, vennero sequestrate e distrutte e così pure la prefazione di Albert Einstein, nella quale invocava per la prima volta il diritto di ingerenza negli affari interni di un paese per motivi umanitari. La figlia di Ehrenburg, Irina, riuscì però a salvarne una copia che verrà pubblicata per la prima volta, in edizione non integrale, solo nel 1980 a Gerusalemme. 

 

In Ucraina, sovietici e nazisti compirono massacri simili e indiscriminati. In Vita e destino Grossman fa incontrare in un lager tedesco il prigioniero Michail Sidorovič Mostovskoj con l’ufficiale delle SS Liss, un tedesco di Riga che conosceva il russo. Il tedesco fa un lungo monologo: “Voi credete di odiarci, ma è solo un’impressione: odiando noi, odiate voi stessi [...] E noi, attaccando voi, in realtà colpiamo noi stessi. [...] È terribile, è come sognare il suicidio. Può finire in tragedia... E se dovessimo vincere... Voi non ci sarete più, e noi, i vincitori, ci ritroveremo soli contro un mondo che non conosciamo e che ci odia. [...] Voi avete ucciso milioni di persone, e gli unici ad aver capito che andava fatto siamo stati noi tedeschi. [...] Chi guarda noi con orrore, prova lo stesso sentimento verso di voi. [...] Stalin ci ha insegnato molto. Il socialismo in un solo paese esige che si elimini la libertà di seminare e di vendere, e Stalin non ha esitato a far fuori milioni di contadini. Hitler s’è reso conto che il socialismo nazionalista tedesco aveva un nemico: l’ebraismo. E ha deciso di eliminare milioni di ebrei...”. Il russo rigetta l’idea che i due sistemi siano uno lo specchio dell’altro, ma torna in cella con molti dubbi (ed era comunque una novità che uno scrittore sovietico guardasse le cose, allora, da questa prospettiva). 

 

I due romanzi vanno letti in sequenza, come spiega bene Ferdinanda Cremascoli (Stalingrado. Il polittico di Vasilij Grossman, in: biblioteca di italianacontemporanea.org), che cerca di ricostruire in modo unitario l’opera di Grossman. Ma il salto tra il primo e il secondo è spiazzante, tanto che la lettura di Vita e Destino è imprescindibile per Stalingrado, che è un romanzo meno filosofico, più viscerale e ideologico. Va detto onestamente: non è un capolavoro come Vita e destino. È un buon romanzone scritto molto bene. Inoltre dà fastidio che, in diversi punti, purtroppo, si percepisca il resoconto sovietico ufficiale dell’assedio di Stalingrado e una celebrazione della politica staliniana (mentre Vita e Destino costituisce una profonda critica nei confronti di Stalin). 

 

Dopo il sequestro di tutte le sue carte, Grossman dedicò le sue ultime forze a riscrivere Tutto scorre: una copia del romanzo fu trovata tra le carte alla sua morte, nel 1964, e dopo una circolazione in samizdat, fu pubblicato a Francoforte nel 1970. Il libro, per certi versi, può essere considerato il “seguito” di Stalingrado e Vita e destino: pur nella sua diversità e con altri personaggi, completa la “trilogia” e rappresenta l’evoluzione dalla narrazione della guerra eroica fino alla consapevolezza del disastro di un sistema oppressivo che, anche nella conduzione stessa della guerra, sacrificò migliaia di uomini senza preoccuparsi del valore della vita umana. Un romanzo-testamento che pare seguire il modello del romanzo-saggio Viaggio da Pietroburgo a Mosca (1790) di Aleksandr Nikolaevič Radiščev (1749-1802), che per la sua condanna del dispotismo fu considerato dall'Imperatrice Caterina II più pericoloso di una guerra persa. Tutto scorre ha l'azione ridotta al minimo e dà origine a riflessioni di ordine morale o storico. Tema fondamentale è quello della colpa e delle responsabilità dei sopravvissuti nei confronti delle vittime dei regimi totalitari. Grossman narra la storia di Ivan Grigor'evič che, dopo la morte di Stalin, ritorna in libertà, dopo aver trascorso trent'anni nei Gulag sovietici.

 

Non riesce a riambientarsi né a Mosca né a Leningrado (dove, tra l’altro, si imbatte in un certo Pinegin: un compagno di università che lo aveva denunciato e che ora è un agiato burocrate). Ivan Grigor'evič si stabilisce infine in una piccola località della Russia meridionale dove trova lavoro come fabbro, specialità appresa a suo tempo nei lager, e si innamora di una povera vedova di guerra, Anna Sergeevna. I ricordi di Anna Sergeevna permettono di descrivere i terribili anni della collettivizzazione, dello sterminio dei kulaki e della carestia in Ucraina, provocata del regime sovietico e che provocò 5 milioni di morti agli inizi degli anni trenta.

 

Nel finale, Grossman fa considerazioni sulla storia millenaria della Russia, sulla non-libertà del popolo russo, sulla fondazione di uno Stato onnipossente e illiberale la cui responsabilità nel romanzo è attribuita, come si è visto, a Lenin prima che a Stalin. La vita di Ivan Grigor'evič si concluderà sulle coste del Mar Nero, dove sorgeva l’abitazione di suo padre. Questo libro conclude così un lungo racconto e riflessioni che sono forse, oltre ai grandi meriti letterari, la più lucida e feroce critica dell’Unione sovietica, come continuazione ed esaltazione del dispotismo russo. Grossman si chiese: “Le sofferenze umane saranno ricordate nei secoli a venire? O le lacrime e la disperazione svaniranno come il fumo e la polvere, spazzati via dal vento della steppa?”. 

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