Il Maestro e Margherita

16 Agosto 2023

Il Maestro e Margherita di Michail Afanas'evič Bulgakov (1891-1940) è uno dei più bei romanzi di ogni tempo. 

Per chi lo ha già letto, il romanzo – “opera aperta” piena di sottili ambiguità e zone d’ombra – mantiene la capacità di sorprendere e di stimolare nuove questioni interpretative; per chi non lo ha ancora letto, il senso di familiarità è dato dal fatto che il libro evoca miti, figure dell’immaginario e altri libri che sono archetipi della nostra cultura. Tali archetipi vengono però riproposti sotto una luce diversa e straniante, che è poi forse la sola forma di originalità concessa alla letteratura, che quasi mai “inventa” partendo da zero.

Le tenebre e la luce 

Certo non da zero parte Bulgakov, quando tra i protagonisti della sua opera sceglie il Diavolo, che sotto il nome faustiano di Woland arriva a Mosca (e al Faust rimanda anche il nome dell’eroina, Margherita) e come altro protagonista Gesù in persona (“Yeshua Hanozri”, “il nazareno”) e poi l’evangelista Matteo (“Levi Matteo”, il pubblicano) e infine Ponzio Pilato, figura memorabile e anch’essa “classica” per la sua capacità di continuare a sollevare infiniti discorsi critici, come ha mostrato Aldo Schiavone in un suo magnifico libro (Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria, Einaudi, 2016, in cui si trovano tra l’altro ragionate indicazioni bibliografiche delle recenti interpretazioni anglosassoni del Maestro e Margherita).

Su questo sfondo di dramma metafisico in cui si ripropone l’eterna battaglia tra bene e male, tra tenebre e luce (ma vedremo che le due parti forse non sono così tanto nemiche), l’autore colloca in maniera allusiva il proprio dramma personale e la tragedia storica in cui lui e l’Unione Sovietica erano immersi, cioè gli anni dello stalinismo trionfante. 

Le molte tonalità dell’opera 

Metafisico, storico, politico, Il Maestro e Margherita è tuttavia anche un romanzo scintillante come un vaudeville, ritmato (con un ritmo che è il caso di definire “indiavolato”) come una commedia hollywoodiana o come una comica di Buster Keaton (si pensi alla scena in cui il demone-gatto Behemot dà vita a una serrata sparatoria con una schiera di poliziotti in cui nessuno resta ferito, né i poliziotti né il gatto), ma anche romanticamente struggente come Le notti bianche, graffiante e amaro come una satira di Gogol. Dostoevskij diceva che tutti gli scrittori russi erano usciti dal Cappotto di Gogol: valeva per lui, ma tanto più per Bulgakov, che annoverava Gogol tra i suoi maestri riconosciuti. 

Probabilmente queste caratteristiche che ne esaltano la leggibilità hanno fatto sì che l’opera si propagasse nella cultura di massa attraverso alcuni (non sempre buoni) film e adattamenti televisivi, spettacoli teatrali e persino canzoni, se è vero che avrebbe ispirato in brano rock dei Rolling Stones “Simpathy for the Devil” e il brano punk dei Franz Ferdinand: il video della loro “Love to destroy” mostra appunto una Margherita che, trasformata in strega, spacca tutto nella casa di uno dei critici letterari che hanno rovinato il suo amante, il Maestro.

Mosca e Gerusalemme 

E veniamo alle vicende. È una calda giornata di primavera, a Mosca, in un anno che in una prima versione dell’opera era riconoscibilmente il 1929, mentre nella riscrittura che noi leggiamo è meno definito ma si sposta un po’ in avanti, nella prima metà dei drammatici anni Trenta della Russia sovietica: gli anni degli entusiasmi per il primo Piano quinquennale, delle prime significative sparizioni di persone sospette e soprattutto della nascita del “realismo socialista” (vedremo quanto pesi la riflessione sulla letteratura nell’economia generale dell’opera). E appunto di letteratura parlano i primi personaggi che incontriamo, in un grande parco pubblico, però stranamente deserto: il letterato Berlioz, a capo di una istituzione letteraria ufficiale, il Massolit (“Istituto per la letteratura di massa”) e un giovane poeta, Ivan Nikolaevič Ponyrëv, detto Bezdomnyj ("senza casa") al quale è stato commissionato un poema antireligioso. Berlioz non è soddisfatto: Ivan – che ha entusiasmo proletario ma è profondamente ignorante – si è limitato a mettere Gesù in cattiva luce, mentre avrebbe dovuto dimostrare che non era mai esistito. A questo punto si intromette nel discorso un misterioso straniero, che si presenta come “professor Woland”: elegante, con gli occhi di colore diverso, leggermente zoppicante, che sembra leggere nel pensiero, è capace di offrire ai due le sigarette della marca che preferiscono e soprattutto predice a Berlioz che di lì a poco sarebbe morto decapitato da un tram dopo essere per disgrazia scivolato su una chiazza d’olio di girasole rovesciato per errore da una donna. Soprattutto il professor Woland osa contraddire l’ateo Berlioz: gli spiega che l’essere umano non dirige affatto le sorti del mondo e, a proposito di Dio e di Gesù, garantisce che esistono entrambi; dell’esistenza del primo ha recentemente discusso con il “professor Kant” (divenuto evidentemente suo familiare) esaminando le famose prove ontologiche; del secondo può raccontare la Passione addirittura nel dettaglio, come se fosse stato presente ai fatti.

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Il secondo capitolo è proprio il racconto fatto da Woland di uno degli episodi più intensi del Nuovo Testamento: a Gerusalemme, l’incontro tra Yeshua Hanozri e “il crudele quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato”. Quello messo in scena da Bulgakov-Woland è un “Yeshua” che rettifica profondamente la tradizione evangelica. Yeshua si lamenta infatti con Pilato che un tale “Levi Matteo” (l’evangelista Matteo) lo segue ovunque annotando su una pergamena cose in cui egli si riconosce a stento. Pilato è sofferente nel fisico e nell’anima: perseguitato dall’emicrania, insofferente della città che è costretto a governare e dei suoi litigiosi e ostili capi religiosi, disgustato dell’umanità in generale, affezionato – ricambiato – solo al suo gigantesco e protettivo cane Banga, scettico, cinico, viene a poco a poco conquistato da quel “profeta” che sembra leggere i suoi pensieri, che parla anche greco e latino, che ritiene che non ci siano creature cattive e che alla fatidica domanda di Pilato, “Che cos’è la verità?” (una domanda sul cui senso Nietzsche avrebbe elucubrato a lungo) a differenza del Gesù evangelico che resta silenzioso, risponde candidamente: “La verità anzitutto è che ti fa male la testa” e lo guarisce. Pilato è talmente affascinato da Yeshua che vorrebbe liberarlo e tenerlo presso di sé per sempre. E tuttavia quando Yeshua ammette di avere predicato che “ogni potere è violenza sull’uomo, e che verrà un tempo in cui non vi saranno né potere né cesari né qualsiasi altra autorità”, Pilato deve rassegnarsi: condannerà quell’uomo, per timore di essere denunciato a Tiberio per indulgenza, in fondo quindi per viltà, ma ricava da quell’incontro e da quella ingiusta condanna la folle idea di essere diventato, proprio per ciò che ha fatto, immortale. 

I piani narrativi: parallelismo e convergenza

Come in una partita a scacchi, in cui le aperture e le prime mosse lasciano capire lo svolgimento successivo, così i primi due capitoli anticipano già le strutture e le tonalità dell’intero libro, che come si vede sono duplici: c’è un piano narrativo al presente, a Mosca, e c’è il racconto di ciò che nel remoto passato è accaduto a Gerusalemme. Nel finale, i due piani sapientemente verranno fatti convergere.

La parte quantitativamente prevalente del racconto è quella ambientata a Mosca. Nella Mosca sovietica Woland, accompagnato da una corte di buffoneschi (ma implacabili) demoni e diavolesse – Behemot che appare spesso in forma di enorme gatto, l’allampanato Korov’ev – Fagotto, l’assassino Azazaello, il cupo Abadonna, l’affascinante vampira Hella – si diverte, per così dire a sconvolgere con i suoi prodigi il grottesco piccolo mondo di piccoli uomini che in ogni possibile ambito – a dispetto dell’“uomo nuovo” che sarebbe dovuto nascere dalla rivoluzione – arraffano, trafficano, tradiscono coniugi, beneficiano di ogni minuscolo privilegio che l’appartenenza alla nomenklatura concede loro. 

 

Le diavolerie di Woland e della sua banda – che culminano in un grandioso spettacolo teatrale di “magia nera” – fanno finire diversi di questi omini nella clinica psichiatrica del professor Stravinskij. Ed è qui che finalmente, ma solo nel XIII capitolo, si incontra il personaggio eponimo del romanzo, l’uomo chiamato semplicemente “il Maestro”. Costui è l’autore del libro su Yeshua e Pilato i cui capitoli vengono alternati nel libro a quelli moscoviti. Il Maestro ha disperatamente provato a pubblicare il suo libro, così poco sintonico con i dettami della letteratura di regime, ma senza successo. Eppure, rifiutata da riviste ed editori, l’opera è stata ugualmente e paradossalmente stroncata sui giornali, al punto che il Maestro ne ha bruciato tutte le copie, ha perso la ragione e si è fatto ricoverare nella prima ricordata clinica psichiatrica. Non senza aver rinunciato anche a Margherita, la donna che lo amava incondizionatamente. 

Il recupero di quel libro e il salvamento del Maestro (e naturalmente di Margherita) è la vera ragione della presenza di Satana-Woland a Mosca: il demonio riunirà la donna allo scrittore, che per amore di lui gli chiederà un patto faustiano, ma soprattutto Woland resusciterà, per così dire, il manoscritto gettato nella stufa (“i manoscritti non bruciano”, dirà ad un certo punto), perché quel libro ha bisogno di essere completato dal Maestro; è un completamento che deciderà della sorte eterna di Pilato e dopo il quale il Maestro e Margherita potranno compiere anche il loro destino, che sarà Dio stesso a decidere (come del resto nel Faust) comunicando la decisione a Satana. 

Non diremo quale sorte e quale destino è riservato ai protagonisti perché i vecchi lettori lo conoscono già e ai nuovi non è opportuno togliere il piacere di scoprirlo. 

L’importanza della letteratura

Uno dei temi centrali del romanzo è la letteratura, anzi la parola scritta. L’importanza della letteratura è un fenomeno storico e politico dell’epoca e della Russia in particolare, una società in cui, prima e dopo la rivoluzione, gli scrittori, l’intelligencija, pensavano di avere il potere di cambiare davvero la società. Lo pensavano gli “eretici” come Bulgakov e lo pensavano i rivoluzionari ortodossi (celebre la formula di Stalin per definire gli scrittori: “gli ingegneri di anime”). 

Nel romanzo, tutto ruota attorno a un libro: scritto, oltraggiato dai critici, bruciato, resuscitato. La felicità prima e dopo la salvezza del Maestro dipendono in fondo dal suo libro, di cui, nelle pagine finali, si legge che “è stato letto” nientemeno che da Gesù stesso, che in base a quella lettura ha preso una decisione. Ma anche la storia di Gesù, a ben vedere, dipende da un libro, quello che Levi Matteo scrive e soprattutto riscrive: quando, in uno dei capitoli finali, Pilato confessa a Levi Matteo che è stato lui a far uccidere Giuda (che non si è quindi suicidato), Levi Matteo, che fino a quel momento avrebbe riempito le sue pergamene di frasi sconnesse che Gesù stesso aveva giudicato assurde, chiede a Pilato un unico dono: una nuova pergamena e si accinge così a una riscrittura della sua testimonianza, e forse non solo per correggere l’episodio relativo a Giuda. In questa centralità della parola scritta, che è l’essenza e la ragione di vita di Bulgakov, si recuperano gli elementi autobiografici dell’autore sottesi alla narrazione del romanzo.

La dimensione autobiografica

Elementi che in effetti sono numerosi. Russo di Kiev, Michail Afanas'evič era figlio di un professore di teologia. Laureatosi in medicina, da medico militare dalla parte dei “bianchi” aveva preso parte alla feroce guerra civile e alle guerre per bande che avevano imperversato in Ucraina tra 1918 e 1920. Pochissimo interessato alla professione medica, Bulgakov nel 1921 si era trasferito a Mosca per fare a tempo pieno lo scrittore. Le vicende della guerra civile avevano ispirato uno dei suoi romanzi, La guardia bianca e una pièce teatrale, I giorni dei Turbin, in cui si racconta appunto l’inevitabile sconfitta e rovina di una famiglia “bianca”. Nei primi anni dopo la guerra civile, Bulgakov riesce a barcamenarsi nel mondo letterario e teatrale, pur senza avvicinarsi al partito, pubblicando racconti commedie e drammi. I giorni dei Turbin in particolare viene a lungo tenuto in cartellone perché piaceva a Stalin, che si recava spesso a vedere quel dramma. Con una punta di sadismo, il testo piaceva a Stalin per le ragioni opposte a quelle che avevano ispirato il suo autore: la rovina dei Turbin doveva ammaestrare il pubblico circa l’ineluttabilità storica della vittoria della rivoluzione sui vecchi ceti borghesi. 

A mano a mano che il potere staliniano diventava sempre meno tollerante verso ogni sfumatura di dissenso, precipitavano anche le sorti letterarie di Bulgakov, che rischiava di seguire il destino di tanti letterati russi appartenenti a quella generazione che era stata “dissipata” (come recita il titolo di un celebre libro di Roman Jakobson: Una generazione che ha dissipato i suoi poeti) dalle circostanze materiali o dall’oppressione ideologica: Esenin suicida (1925), egualmente suicida Andrej Sobol’ (1926), fucilato, nel 1921, Nikolaj Gumilëv, marito di Anna Achmatova; Aleksandr Blok morto, nel 1921, forse di privazioni per la carestia, forse semplicemente di tristezza; morto, pure nel 1921, Victor Chlebnikov, di malnutrizione.

Nel 1928, preoccupato per ciò che scriveva e pensava, sempre più criticato dalla stampa, Bulgakov getta nella stufa, come il Maestro fa col suo libro, un suo romanzo “sul diavolo”, che era il primo abbozzo del Maestro e Margherita, e esattamente come pensa di fare il Maestro nel romanzo, comincia nel 1931 a riscriverlo basandosi sulla memoria, sostenuto dalla sua terza moglie, Elena Sergeevna Šilovskaja, la donna che ispira la figura di Margherita. 

Un personale incontro col “diavolo” 

Nel marzo del 1930 Bulgakov fa qualcosa di eccezionale ricevendo un riscontro altrettanto eccezionale. Prende carta, penna e probabilmente il coraggio (o l’incoscienza) a due mani e scrive “Al governo dell’Urss” spiegando che non riesce più a trovare lavoro né riviste che pubblichino ciò che scrive, che rischia quindi di morire di fame, che la censura non dovrebbe esserci e che in dieci anni di attività letteraria era stato citato dalla stampa sovietica 301 volte di cui 298 in modo ingiurioso; in conclusione, chiede il permesso di emigrare. 

Il 17 aprile a Mosca c’erano stati i funerali di Majakovskij, suicidatosi pochi giorni prima, a cui avevano preso parte 150.000 persone. Forse Stalin avrà pensato che altri suicidi di letterati popolari non erano convenienti per l’immagine del potere e così prende il telefono e chiama Bulgakov, a sorpresa. Elena Sergeevna, a caldo, prende nota e quindi abbiamo un attendibile “verbale” di quella chiamata:

Stalin: "Abbiamo ricevuto la sua lettera. L'ho letta insieme ai compagni. Riceverà una risposta favorevole, anche se non mi sembra il caso di lasciarla partire. Ma davvero vuole andare all'estero? Le siamo venuti tanto a noia?"
Bulgakov: "Negli ultimi anni ho molto riflettuto se uno scrittore russo possa vivere lontano dalla patria, e mi sembra di no."
Stalin: "Lo penso anch'io. Dove vuole lavorare? Nel Teatro dell’Arte?
Bulgakov: "Sì, ma quando ne ho accennato mi è stato opposto un netto rifiuto."
Stalin: "Presenti una domanda, credo che acconsentiranno. Noi dovremmo incontrarla, parlare con lei”. 

Bulgakov: “Sì, sì, Iosif Vissarionovic, ho molto bisogno di parlare con lei”. 

Stalin: “Bisogna trovare il tempo e incontrarci, necessariamente. E ora le auguro ogni bene”.

Anche Bulgakov aveva avuto, insomma, il suo personale incontro con il “diavolo” e, come per il Maestro, l’incontro aveva significato per lui non la gloria (lo scrittore continuò a incontrare difficoltà fino alla sua morte, avvenuta nel 1940, per una malattia), ma almeno la possibilità di vivere. E di scrivere e quindi di concludere Il Maestro e Margherita. 

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G. Graziani, M. Marino, A. Scarpellini, L'uomo nuovo: il ritorno di Bulgakov

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