Nutella senza pane

18 Ottobre 2022

“Pà… non siamo come voi, noi siamo fluidi...” 

È stata questa l’osservazione conclusiva di mia figlia – lei quasi diciottenne. – al mio tentativo di riflettere insieme sulle continuità o meno tra il mondo eterosessuale e quello gay. Consapevole di una definizione impossibile di “normalità”, cercavo un distinguo tra le diverse “estetiche”, tra il diritto alla procreazione rispetto a quelli dei figli, anche rifugiandomi nel mio vissuto personale, nella frequentazione di amicizie in cui la differenza di genere non era mai stata un problema.

Al suo noi siamo fluidi, basito, incasso lo spostamento di prospettiva e mi taccio.

Gioventù fluida in molti campi del vivere, fluida loro malgrado, privi delle certezze economiche, degli ancoraggi culturali, delle sicurezze comportamentali dei genitori e con un’idea di futuro nettamente più fragile, mutevole e incerta di quello che la mia generazione ha vissuto alla sua età.

Dunque mi taccio… il mestiere di insegnare mi ha insegnato che lo scambio è sempre bidirezionale, che nell’ascolto e nell’ascoltarsi mentre si insegna c’è sempre la possibilità di imparare.

Generazione fluida… sì, è possibile, eppure… eppure se penso alla concretezza vitale che accompagna i giorni, i nostri come i loro, se penso alle scelte alimentari e ai gusti di mia figlia come a quelli di tutti i suoi amici resto perplesso...

È di recente uscita per Rubbettino, in collaborazione con la Fondazione Appennino, Buon Appennino. La cultura del cibo nell’Italia interna, un libro a più mani con i contributi di Mauro Baudino, Benedetta Centovalli, Guido Conti, Giuseppe Lupo, Raffaele Nigro, Giorgio Nisini, Onofrio Pagone, Romana Petri, Antonio Riccardi, Mimmo Sammartino, Vito Teti.

Un piccolo libro che si legge con piacere tra escursioni antropologiche – quelle di Vito Teti sui cibi di confine tra cultura albanese e latina – e un approccio narrativo che accomuna tutti gli altri contributi. Tra i riti agrari, il maiale e i suoi salumi (Giuseppe Lupo), il pane e i sapori d’Appennino (Raffaele Nigro), il castagnaccio tra territorio e memoria del territorio (Benedetta Centovalli) e così via, fino a un racconto vero e proprio intorno alla zuppa cuccia e alle frittelle chiamate crostole (Mimmo Sammartino) e sempre seguendo le tracce dell’antica cultura alimentare degli Appennini. Perché è lungo la catena appenninica che il libro traccia un’escursione leggera e allo stesso tempo fedele nel nostro paese e nel suo recente passato. Del resto, ricorrendo alla famosa definizione di Petrarca – “il bel paese ch'Appennin parte e 'l mar circonda et l'Alpe” – gli Appennini sono questi e sono loro che caratterizzano la grande parte di quelle che oggi vengono chiamate aree interne.

Dunque un libro sul filo della memoria personale e delle tradizioni, quelle che rimangono una delle ricchezze culturali del nostro paese (sono oltre 300 i prodotti d.o.p e i.g.p in Italia; la Francia in Europa è seconda, distanziata, e con una superficie di territorio quasi doppia). E poi soprattutto il ricordo e le esperienze che gli autori hanno fatto in tempo a vivere e poi a raccontare, tra studio, testimonianza, nostalgia…

Già, gli Appennini… la loro cultura alimentare è un vero e proprio giacimento di tradizioni ma c’è da chiedersi (domanda solo retorica ormai) se queste ultime possono bastare come testimonianza di territori e di un tempo che appaiono al tramonto, di generazioni che pur avendo conosciuto quelle tradizioni prima o poi le seguiranno …

Su queste pagine, Doppiozero ha condiviso da parte di diversi autori il tentativo di rileggere al presente quelle tradizioni, di dare voce alla componente immateriale, alle storie profonde che il cibo tradizionale, quello degli Appennini in particolare, può offrire alla fame di valori, identità, curiosità, cultura nascoste in un cibo selezionato da generazioni. Ricette immateriali appunto è il titolo dello speciale di Doppiozero, per un presente che non ci vede più affamati di cibo e calorie ma piuttosto di un nutrimento che da sempre è stato in grado di legare le famiglie come le comunità, di dare identità alle stesse come ai territori. Non siamo più affamati di cibo e calorie e quelle tradizioni oggi potrebbero quasi tutte vivere una loro inaspettata rivincita, potrebbero avere nutrimenti adatti per turisti e consumatori, potrebbero essere cioè “passato” che diventa economia.

mMa il punto è anche un altro… se torno a mia figlia, alla sua generazione e alla loro fluidità alimentare, è facile accorgersi dello sdoganamento di ogni rigidità e confine… sushi e susherie, briocherie, pizze sì ma alla texana, piadine e pizzette, muffin, poke e quant’altro. È solo il trionfo del dolce, del salato, frizzante, croccante che riguarda le giovani generazioni di ogni epoca?

Può essere ma non potrebbe esserci anche qualcos’altro in questa ricerca della novità, in questo loro affidarsi e arrendersi alle novità, alla contaminazione… finanche alla confusione alimentare?

Il dubbio, come tutti i veri dubbi, strisciante nei giorni, è se questa loro fluidità venga fuori non tanto da una loro caratteristica, piuttosto da una nostra mancanza e incapacità, quella di non essere riusciti a insegnargli il senso del tempo. 

La mia generazione – tra le prime “nata consumatore” – che fece della nutella un mito (Nanni Moretti docet) ma che fu comunque ancora educata dai padri al senso del tempo, sarebbe mancata.

Lo stesso Nanni Moretti nel film Caro Diario, in un dialogo surreale a Casal Balocco, scendendo dalla Vespa e rimproverando a un residente la sua scelta abitativa, afferma a proposito degli anni sessanta “eppure allora Roma era bellissima”. Sì la mia generazione ha fatto in tempo a conoscere nelle cose il senso dei giorni anche in città… perdendolo.

Eppure, nati e cresciuti nei “paese dei balocchi” – abbiamo pur visto o almeno intuito – nei genitori, nei nonni e nei loro racconti, nei paesi – il tramonto di un mondo antico, in qualche modo siamo ancora riusciti a percepire nella profondità del tempo la fragilità e insieme la forza dei legami tra generazione e generazione… e poi quel corpo collettivo che scoprivamo nella condivisione del cibo e delle tradizioni alimentari e che legava parenti, il paese e tutti come in un abbraccio. 

È lì, soprattutto nel cibo condiviso che sta il tempo solo umano che lega chi c’era a chi resta, transustanziazione tra cibo e sentimento, l’unica condivisone possibile in una continuità che tutti comprende. Noi abbiamo fatto in tempo a viverla, soprattutto se per sorte e per fortuna abbiamo frequentato e vissuto gli Appennini, da qualche parte e in qualche modo, negli anni del boom economico e della grande trasformazione. Siamo stati generazione cresciuta in un’educazione sghemba tra passato e modernità negli anni in cui l’intera nazione si precipitava verso gli irresistibili luccichii delle città e del benessere. Il funerale della vecchia società avveniva mentre la tavola imbandita della modernità, irresistibile, veniva apparecchiata nella stanza a fianco. Se non lo abbiamo visto, di certo l’abbiamo intuito.

In quegli anni, ai padri impegnati a darci il pane sarebbe rimasto per tutta la vita il rimpianto e la nostalgia, a noi i semi di un’educazione che molti avrebbero smarrito. Gli uni e gli altri, per ragioni diverse, non hanno celebrato quel funerale.

Sì, forse la fluidità alimentare dei nostri figli, il loro caos alimentare, fatto di scelte esotiche, di strani accostamenti dolci salati croccanti, se resiste ancora oltre una certa età è un fallimento; un nostro fallimento; generazione nata privilegiata e che non è riuscita a restituire ai figli con i sensi, le parole, la condivisione il senso del tempo. Noi che non abbiamo lasciato sufficiente testimonianza di quel funerale o che dentro di noi lo abbiamo rimosso, occultato… 

Così nessuna meraviglia se quel senso del tempo, i nostri figli, fuori dai loro libri di storia, lo avvertono soprattutto nel presente. Nessuna meraviglia del trionfo del sushi e del poke e di altro ancora… nessuna meraviglia se a loro quel corpo collettivo che tutti abbraccia arrivi per vie diverse, come nel rito dei concerti, cantando insieme una canzone di un mediocre cantante, dopo un sushi o un poke e prima di un muffin o un donutz, in un bar, all’alba. 

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