Oggetti d'infanzia | L’apparecchio dei denti

21 Gennaio 2013

Una vendetta tardiva, vana come tutte le vendette, eppure dovuta, e dolce, a suo modo. Perché con questo particolare oggetto d’infanzia, amaro come pochi altri, ancora nel ricordo a quattro decenni di distanza, bisognava prima o poi regolare un conto aperto, facendolo passare avanti ai molto amati e ancora rimpianti oggetti perduti o anche ai semplici odori e sapori e rumori familiari, lo scatto del coperchio di una scatola di latta, l’odore di vernice dentro gli armadi, il dolce pungente di certi biscotti, oggi tutti dispersi come relitti che il mare ci rigetta, come dicono i poeti. Ma l’apparecchio dei denti no. Lui sta in una classe a parte, la classe della paura, dell’ostinazione, dell’odio bianco, del sentirsi esultare dentro.

 

Lui, nella fattispecie, era una cosa doppia, dalla consistenza indefinibile e vagamente oscena, una specie di conchiglia, di un color malva chiaro simile nel suo spessore di resina traslucida a quel tono rosato che ha la gengiva o il sotto lingua quando scrutiamo allo specchio la mucosa umida di saliva. Corredate le due valve da una corona d’acciaio, un filo sagomato ad arco e poi piegato e ripiegato fino ad assumere l’aspetto di un congegno meccanico. Al centro, nella fessura che la attraversava nel senso della lunghezza, una specie di vite, un cilindro forato dove l’inserimento di un apposito ago consentiva la divaricazione dell’apparecchio, operante per compressione l’allargamento della mandibola e dell’arco del palato, cosicché gli ancora così infantilmente plastici tessuti potessero accogliere l’ingombro di una dentatura troppo affollata. I miei denti infatti, non più quelli da latte, come li chiamavano, già caduti e sostituiti, davano scoprendosi la sensazione di un’ammassarsi anarchico, di uno scappare in avanti, o all’indietro, di un torcersi e flettersi disordinato, come se invece di dentina e di smalto fossero fatti di una plastica morbida e lucida.

 

Ed è per correggere questo disordine, questa impensabile asimmetria nella mia faccia di bambino, che mia madre, inflessibile guardiana di un ordine infantile già tutto proiettato alla scala mitica e impensabile dell’età adulta, pensò bene in quei primissimi anni settanta dello scorso secolo, ancora tutti impregnati per i bambini borghesi di una certa austerità tradizionale, di pantaloni corti e calzettoni al ginocchio, di goffe scarpe ortopediche, di berretti di velluto, di giacchini e cappottini e golfini, tutte miniature di altrettanti capi d’abbigliamento adulto, pensò bene dicevo di non rassegnarsi al crescere irregolare dei miei denti, al loro disturbante sporgersi in avanti. Si pensò così, dopo rapido consulto, di sottopormi al giudizio di un appropriato specialista, un Ortodontista, parola nuova, per me temibile e oscura, che entrava di colpo nell’uso familiare.

 

Così fu che in un certo giorno, dovevo avere probabilmente otto o nove anni, fui sottoposto a una delle prime vere iniziazioni della mia vita: ovvero la realizzazione dei calchi delle due arcate mascellari superiore ed inferiore, impronte fatte in una misteriosa sostanza bianca simile a chewing-gum masticato a lungo, applicata tramite quelle che somigliavano a palette metalliche grossolanamente sagomate, fredde e pesanti al contatto delle gengive e della lingua. Cavate dalla bocca e congedato il paziente stupefatto, ingannato dall’apparente rapidità dell’operazione (lui, il paziente, si era forse illuso che in quel procedimento si riassumesse la parte fastidiosa della cura, illusione come si immagina ben presto dissipata), le impronte intraprendevano la loro trasformazione del temibile ordigno che sarebbe stato impiantato nella mia bocca.

 

Del giorno fatale ho questo ricordo: un ambulatorio seminterrato cui si accedeva scendendo una piccola rampa di scale, luce fredda, puzza di disinfettante di ospedale, piccole stanze ognuna equipaggiata da una poltrona di smalto color avorio, Dove? Mettiti qui e aspetta che il dottore arriva subito, e intanto veniva appoggiata su una mensola lì accanto una scatolina dall’aria sospetta, la forma di un mezzo cilindro, plastica bianca flessibile, chiusura a scatto, devo aver pensato cercando distrazione nei dettagli rassicuranti. E la scatola si apriva nelle mani del medico, ne sbucavano appunto i due piccoli oggetti, due piccoli maledetti torturatori pronti a saltarmi addosso. Ciò che seguì è facile da immaginare: le dita infilate in bocca, a spalancare senza tanti riguardi la mandibola, e poi con gesto secco, una valva alla volta, l’apparecchio spinto contro le gengive. Ho detto dell’aspetto inquietante, ma la vera pena capii di colpo era il sapore, un sapore terribile, di plastica velenosa, di acido, di cloro dolciastro, di antisettico, e tutte queste cose insieme a un sentore di vomito che mi saliva da dentro, un sapore che trasudava dalla bocca, dal naso, dalle labbra, come se ne fossi stato imbevuto. Un sapore, anzi un odore-sapore, qualcosa di nauseante, forse la prima cosa a cui abbia davvero attribuito la qualità di una sostanza interamente malevola, fredda, indifferente, compiaciuta della propria missione di avvelenamento.

 

Ma la vera tortura non era ancora iniziata. Perché con tutto il disgusto per l’odore, per l’aspetto osceno e minaccioso, la sensazione di oppressione e di smania indescrivibile che provocava la pressione sulla gengiva, l’apparecchio conteneva una minaccia ancora più grande, inimmaginabile. Me ne accorsi immediatamente non appena cercai di articolare qualche parola, forse una sola, Come farò a... E già al come venne fuori un farfugliamento orrido, un biascicare della lingua e della saliva contro il palato fesso dell’apparecchio, che dava a consonanti, vocali, sillabe e parole un’eco gorgogliante, una specie di sciacquettio, un risucchio umiliante e ridicolo. Mi si imponeva non solo una museruola, una morsa dolorosa, ma più profondamente e chiaramente di proposito mi si ostruiva il parlare, facendolo simile a quello di un vecchio sdentato, di un ubriaco da film, di una maschera, di un carattere da farsaccia scadente. Il mio pallore aumentava a ogni parola, la nausea, il disgusto mi sommergevano; al culmine, terrorizzato, credo di essermi alzato di scatto dalla poltrona di smalto bianco e di essere andato a sbattere contro il carrello degli strumenti, rovesciandolo con uno strepito raccapricciante.

 

La sentenza era comunque inappellabile, almeno nell’immediato. Si trattava di una servitù installatasi dentro il mio stesso corpo, di un nemico subdolo che in nome di un’improbabile redenzione futura mi rendeva grottesco, mi ammutoliva, mi trasformava nel bersaglio scontato della crudeltà dei compagni di classe. L’odio, l’odio feroce che nutrivo per l’apparecchio equivaleva in fondo anche a detestare me stesso per quei denti stupidamente storti, per la mia debolezza, per il mio esser stato ragionevole, illudendomi che obbedendo ad autorità parentali e corpo medico potessi se non altro sentirmi meno colpevole, È per il tuo bene, giuro si poteva ancora dire allora, È per il tuo bene.

 

Non durò a lungo. Dopo mesi, forse un anno di pena, metti, rimettiti, perché hai tolto l’apparecchio, ricordati, dove hai, dove ho messo l’apparecchio, e anzi dopo altri apparecchi, perché ogni tanti mesi l’orrenda cosa andava rinnovata per ritrovare intatto il suo gusto schifoso, la plastica tossica non doveva perdere un grammo del suo potere mortifero, alla fine ecco l’apparecchio non lo portavo più. Me lo appoggiavo in bocca, fingendo, per uscire di casa al mattino, nei pochi minuti dopo la colazione, credo latte e cacao e pane abbrustolito, e fino al portone della scuola. E poi basta, via, rimesso nella scatolina scema con la chiusura a scatto, sepolto nello zainetto, in fondo, che non osasse più saltare fuori quella cosa. In una classe maschile (non ho fatto in tempo a godermi le miste, alle elementari), la mia sciagura era diventata intollerabile. Vada per gli occhiali, i pantaloni corti, la sostanziale rotondità, vada anche per la merenda nel cestino, fatto proprio di vimini sottili intrecciati, così deliziosamente nostalgico, e invece finto già allora e stigma della mia dipendenza da famiglia nemica delle già ubique merendine confezionate, vada tutto questo, alla fine, ma l’apparecchio no, la voce biascicata, il risucchio, la bavetta, no, le s trasformate in sccc, la distruzione di ogni serietà, di ogni ritegno, no. Come potevo urlare anche solo Passa! o Presente! se ogni s si trasformava in uno sfrigolio liquido? e le r inesistenti? e gli scherzi, le prese in giro, le umiliazioni? interrogato non rispondevo più, troppa la paura del gorgoglio, dell’inciampo, della risata. No. No.

 

Finì così. Dopo rimproveri, discussioni, pianti, urla, si convenì in casa mia che dopotutto non erano così storti i miei denti. Non ho mai perdonato però l’apparecchio per quei due anni di pena. Non lo rimpiango. Non lo vorrei ritrovare. Già rivederne uno in fotografia mi fa star male. Se chi legge questo scritto ne ha uno, lo butti via. Spero che nessun bambino mai ne abbia più bisogno, non di quel genere lì almeno, ma a quanto pare gli Ortodontisti hanno capito il loro errore e oggi nessuno usa più quel modello. Sarà. A me di quell’esperienza resta chiarissima una lezione: parlare, articolare, inventare, difendermi e casomai attaccare a parole era per me una questione letteralmente vitale. Combattere contro l’apparecchio, ribellarmi al suo dominio, voleva dire tenere la testa alta, e in fondo difendere la mia dignità. Volevo essere un bravo animale parlante, ecco qui, e nessuno schifoso apparecchio mi avrebbe tolto questo diritto. Nemmeno dieci anni dopo mi sarei guardato allo specchio e avrei trovato i miei denti orrendamente storti. E così sono rimasti.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO