L’eredità è un'opera del tempo / Puccini al lago

16 Maggio 2018

Alla fine avrei voluto fotografare i copertoni. Grande amante delle auto, Puccini. Stanno allineati sulle mensole ai margini del garage. Un’assurdità, si potrebbe dire: di tutte le cose magnifiche di cui la casa è piena, fotografare gli oggetti più dimessi, dei semplici resti di una passione, e non certo di quella per cui il Maestro è famoso. Davanti alla ricchezza della casa i copertoni raccontano una storia minore e la raccontano quasi involontariamente. È la storia di una passione di cui sono i testimoni muti. Ci stanno come resti immobili di un’epoca e di tutta una vita. Forse qualsiasi testimonianza ha a che fare con questo carattere di resto. Per elegante che sia una casa-museo è sempre inseparabile dal carattere di resto di cui sono saturi tutti gli oggetti, le immagini, gli spazi che permettono quella che abitualmente chiamiamo la ricostruzione di un’esistenza. 

Ma anche i copertoni non li si può fotografare. Alla Villa Museo Puccini sulle rive del Lago di Massaciuccoli in provincia di Lucca, non si può fotografare niente, e questa scelta ha indubbiamente le sue ragioni. Chi cura il museo prova a limitare che delle immagini escano da qui, quasi per timore che possano sostituire una visita fatta in carne e ossa o che possano anticipare la sorpresa del visitatore. Ecco perché, diversamente dal solito, questo testo di Genius Loci manca quasi completamente di immagini, tranne quelle degli esterni della villa. 

 

La visita dentro queste pareti resta così un’esperienza fisica. La si compie attraversando lentamente le stanze del pianterreno della villa, ascoltando la voce registrata della guida. In un’epoca di dominio delle immagini è una scelta coraggiosa che scommette sull’esperienza, contro una follia documentaria che, potendo, documenterebbe tutto. Fosse pure ciecamente, come un ciclope che regga l’immenso progetto di una enciclopedia fotografica del mondo. Anche senza vedere niente, giusto per portarsi a casa uno scatto come souvenir, magari un selfie con il ritratto del Maestro. Con quella maniera normalmente compulsiva che abitualmente riempie i nostri telefoni di migliaia di scatti.

Non che manchi un rapporto con le immagini: le pareti ne sono piene. Nella casa-torre che Puccini inizia a trasformare all’inizio del Novecento nella villa borghese a due piani che vediamo oggi, e che nel 1925, alla morte del padre, il figlio Antonio destina alla memoria storica, esse tratteggiano un racconto visibile di una vita e della creazione di un’opera. 

 

La sala d’ingresso, dove Puccini componeva le sue opere, la attraversiamo sotto lo sguardo del Maestro, moltiplicato nei tanti ritratti che ornano le pareti. Alle pareti anche i quadri degli amici pittori, che testimoniano dell’ambiente che un tempo deve aver dato vita a queste stanze e alla comunità di artisti raccolti attorno al lago. 

 

 

Le fotografie esposte parlano di un’epoca in cui le si regalava con dedica, particolarmente nell’ambiente del teatro e della musica. La dimensione iconografica pende tutta dalla parte del passato, del documento e della testimonianza. Qui la fotografia viene riconosciuta non nel suo acclamato diritto odierno – spesso invadente e molesto – di documentare e informare, ma unicamente nel carattere che le è stato proprio alle sue origini: quello di evocare gli spiriti e le presenze dell’oltretomba. Non di rendere presente ciò che è assente, riproducendone le fattezze, ma unicamente di evocare la vera voce di un tempo, che la foto non semplicemente riproduce, ma a cui appartiene, essendone essa stessa parte integrante. Qui la fotografia è evocazione, appello, parte di una seduta medianica giocata non sulla voce o sullo spostamento di oggetti, ma sulla luce, unica traccia degli assenti. 

 

È anche per questo che quei copertoni mi sono sembrati, loro malgrado, i numi tutelari di una casa: numi inapparenti e quasi segreti, ben inteso. Posti per all’altro all’uscita e non all’ingresso. Eppure capaci di restituire ciò che in una casa-museo trapassa la dimensione museale per raccontare la casa stessa e la vita domestica al di là delle stesse intenzioni espositive del museo. Anche loro sono, a ben guardare, degli eredi.

 

È questa la domanda fondamentale che Villa Puccini pone, aggirandosi per i suoi ambienti: cosa significa ereditare? Non parliamo evidentemente di quella incontinenza del possesso che ha armato schiere sempre più affollate di figli assassini, che nell’uccisione dei legittimi proprietari, i loro genitori, vedevano un modo di anticipare l’agognato momento: mettere mano al patrimonio di famiglia. I loro destini sono carne per ogni lettura criminologica che se ne vorrà fare. Qui è d’altro che si parla, altro è in gioco: l’eredità è testimonianza, non cancellazione. Solo in questa risposta data alla voce degli assenti c’è responsabilità. Penso alle difficoltà connesse con l’eredità anche perché la voce che accompagna la visita è quella della nipote Simonetta, l’ultima erede diretta del Maestro, che filtra discretamente da un apparecchio che ciascuno di noi visitatori tiene incollato al suo orecchio. Descrive con precisione non solo il contenuto delle stanze, ma anche le storie che nascondono. 

 

Anche gli eredi sono, inevitabilmente, dei resti, come gli oggetti del Museo. Sono dei “sopravvissuti postumi”, come li avrebbe chiamati un contemporaneo di Puccini, il filosofo dell’arte Aby Warburg. Sono sopravvivenze capaci di segnalare qualcosa di vivo dentro queste stanze, al di là di goni rischio di musealizzazione dei luoghi. Ereditare vuol dire ricevere qualcosa come un compito e una domanda. Come compiere i passi necessari per garantire la trasmissione storica tra generazioni? Come presentare al mondo postumo di tutti noi contemporanei, ciò che in realtà appartiene a ogni tempo? Ecco il compito dell’erede: non si tratta di entrare in possesso di qualcosa, ma di sostenere la passione della differenza, di assumersene la tensione, testimoniando dell’inevitabile difformità che si apre tra presente e passato, tra l’immagine della casa quando si affacciava direttamente sul lago e l’esistenza oggi di un abnorme edificio blu qualche metro più in là della villa, che scopro essere un teatro d’opera.

 

Grazie alla loro tenacia gli eredi permettono non solo che degli oggetti – o la stessa casa – sopravvivano loro stessi all’incuria del tempo. Permettono soprattutto che quegli oggetti abbiano una voce, parlino. Sono dei traghettatori, come su un fiume che occorra attraversare da parte a parte: non è mai il passato a tramandarsi al presente, ma unicamente ciò che del passato riesce a balzare verso il futuro. Molto si perde, come il lago su cui si apriva la villa e che ora è arretrato dietro una piazza costruita in seguito (questo pomeriggio ci gira rabbiosamente un pischelletto di paese sulla sua bici da acrobazie). E quando la stessa signora Puccini compare in giardino, per una fortunata coincidenza, è facile accorgersi che appartiene alla stessa tenacia.

 

Al di là della stanca aneddotica che inevitabilmente si accumula su un’icona come il compositore della Bohème peggio della polvere, la sua voce racconta un Puccini intimo attraverso il racconto della genesi del museo: le scelte, i progetti, le soddisfazioni e i rammarichi. L’eredità è un’opera del tempo, non la si è mai realizzata una volta per tutte. Spesso bisogna rincominciare daccapo. Nessun museo già istituito mette a riparo dalla barbarie della distruzione, è uno sforzo colossale. Così tutto s’intesse d’affetto, presso l’erede, come potrebbe essere altrimenti? 

Villa Puccini è una preziosa scommessa tra il ruolo della fotografia e quello della voce, tra mostra e narrazione, tra quelle che, in definitiva, non sono altro che due delle forme di sopravvivenza del mondo che ci appartengono. 

 

Alla memoria di Simonetta Puccini 

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