Agamben. Tutto è reale

14 Giugno 2022

Non credo di essere il solo ad aver sempre amato nei libri di Giorgio Agamben la finezza con cui gli argomenti vengono prima posti e poi svolti, mediante riferimenti spesso sorprendenti. Da Walter Benjamin, di cui è stato curatore in Italia, Agamben pare aver appreso al meglio l’arte di coltivare percorsi all’apparenza marginali, ma che finiscono per andare al cuore delle questioni. Non sorprende, in un certo senso, che un lavoro teorico di tale finezza abbia spesso scontato un’accoglienza fredda, nonostante la sua ottima collocazione editoriale. Questa non-accoglienza, modesta quanto i suoi detrattori, ha significato dover passare dalla ricezione all’estero prima di ricevere attenzione nelle discussioni nella lingua in cui quei lavori erano originariamente scritti. 

Un’altra caratteristica speciale dei suoi libri – penso in particolare al ciclo di Homo sacer – è sempre stata l’idea di costruire delle parti che si trovano a occupare una posizione eccentrica, ma strategica, rispetto al resto del libro. A queste sezioni, redatte in uno stile differente, viene solitamente affidata una funzione difficile da definire, ma essenziale rispetto all’argomento trattano. Accade così per i passi del progetto Homo sacer indicati da un alef (ℵ), che costituiscono come delle aperture improvvise di prospettiva rispetto a quanto il discorso andava sviluppando. O si pensi al Prologo iniziale di L’uso dei corpi (Homo sacer IV/2), dedicato alla figura di Guy Debord e alla sua vita, in un certo senso eterogeneo e, al tempo stesso, perfettamente calibrato rispetto alle finalità della ricerca (poi Debord non tornerà più all’interno di tutto il testo, se non en passant un’unica volta).

Sono passaggi che con la terminologia strutturalista di Gérard Genette potremmo definire “soglie”: spazi di transizioni tra una parte e l’altra di un testo e della sua macchina argomentativa; sono rotture della continuità, capaci proprio per questo di permettere passaggi della riflessione come per effetto di un’accelerazione o di un’intensità impreviste di quanto si era messo insieme sino a quel punto. Il dispositivo letterario di queste soglie non consiste semplicemente nell’introdurre dentro il testo dei ritagli o degli inserti, ma nell’attuare delle vere e proprie pratiche – letterarie, stilistiche, retoriche…, comunque le si voglia definire – che sono altrettante deviazioni ovvero delle linee di fuga. Più esattamente, sono delle derive che imprimono un’intensità imprevista al testo complessivo e al suo andamento più o meno regolare. Come nella pratica situazionista, è dalla loro andatura imprevista che uno spazio prende corpo e apre brecce impreviste alla sua leggibilità. Da Benjamin Agamben eredita come tutte e tutti noi la consapevolezza che questa esperienza della soglia, per precaria e inapparente che sia, costella i nostri percorsi, di qualsiasi tipo essi siano. Ogni soglia è, insieme, un ostacolo e un trampolino di lancio, se saputa usare con attenzione. 

Non fa eccezione a quanto detto la Soglia che apre la prima parte di questo nuovo lavoro, L’irrealizzabile, sottotitolo: Per una politica dell’ontologia. Diremo subito cosa questa Soglia non è: non è una premessa che anticipi le condizioni alle quali un discorso può avere luogo; non è un’introduzione che dispieghi i passaggi che avranno poi effettivamente luogo nel libro; non è neppure una prefazione a mo’ di invito alla lettura. Questa Soglia come le sue sorelle di altri libri entra infatti direttamente nel discorso, prendendo subito per le corna il tema. Lo fa tuttavia appunto nella maniera singolare di una deriva: mostrando in un certo senso il “da dove” della sua domanda, mostrando cioè – a volte non senza il brivido del prestigiatore e la sua segreta soddisfazione – la lontana origine di tale domanda, che si ritrova perfino in ambiti nei quali non la si sarebbe mai sospettata di sostare e forse non la si sarebbe nemmeno cercata. Ed ecco, dunque, prima ancora che il discorso abbia luogo, il colpo di teatro, il piccolo choc che si premura di avere l’attenzione del lettore, ma che soprattutto ne acuisce l’ascolto.

C’è del rigore in tutto questo. Peccherebbe di ingenerosità chi non volesse ammetterlo, confondendo magari il colpo di teatro con un numero da baraccone, escogitato solo per stupire o per attirare i gonzi. In particolare, le dieci pagine di questa Soglia sviluppano l’idea portante del libro, quella per la quale una possibilità non corrisponde mai alla sua realizzazione, ma come tale è sempre già perfettamente reale. È quindi ozioso, oltre che errato, domandarsi quali siano le condizioni della sua realizzabilità. La Soglia sviluppa questa tesi a partire da alcuni autori che non torneranno nel resto del libro e ai quali, cioè, lo sviluppo dell’argomentazione rinuncerà a fare ricorso. Come nelle contraintes della letteratura sperimentale dell’Oulipo, anche la filosofia non è priva di sue regole, rigorose per quanto non dichiarate, alle quali essa non può sottrarsi, perché mancherebbe all’incontro con quanto è in gioco nella sua ricerca. 

È a questa Soglia che limiterò qui la mia lettura. Il punto di partenza dell’ipotesi su cui il libro si sviluppa è il verbo “realizzare”. Apparso tardivamente in italiano prima del ‘700, conosce oggi un uso tanto più frequente quanto, direi, sintomatico dell’epoca, che sente il bisogno di ricorrervi a ogni passo: realizzare i propri sogni, le proprie aspirazioni. Oppure: una vita realizzata. Realizzabili sarebbero pertanto quelle cose che, da un grado puramente potenziale, siano capaci di passare alla realtà per mezzo di un atto che, appunto, le realizza ossia le invera, come si sarebbe detto nella lingua filosofica di un tempo. Questa apparente ovvietà dei termini non fa che nasconderne il significato sfuggente, destinato a restare inascoltato nella sua contraddizione se non viene interrogato con attenzione. La tesi del libro di Agamben è che anche le possibilità non possiedono un’esistenza puramente ipotetica, ma partecipano a quanto è reale e in quanto tali non hanno bisogno di alcuna realizzazione. Ne consegue che le cose reali sono, propriamente parlando, irrealizzabili, cioè inaccessibili all’idea che esista una realizzazione di quell’esistenza che abitualmente in filosofia si chiama “in potenza”. 

Agamben

È almeno dall’Etica di Spinoza in poi che la filosofia dovrebbe aver imparato come la potenza delle cose non rappresenti mai la loro semplice possibilità di esistere, ma coincida con l’esistenza stessa, ossia con quella forza che Spinoza chiama conatus e che mantiene le cose nella loro esistenza o, come sarebbe più corretto dire, le mantiene nella loro attualità. È una forza-di-esistenza o vis existendi, come dice Spinoza, immanente all’esistenza, reale quanto lo è l’esistenza che esiste grazie a essa. Questo conatus è il modello esemplare di una potenza che non conosce spinta a realizzarsi perché è già tutta realizzata nelle cose così come esse sono e nelle loro composizioni. La potenza in quanto tale è sempre reale, prima di ogni possibile realizzazione. Non esiste, dunque, unicamente nella prospettiva di un atto in cui dovrebbe trapassare, estinguendosi come potenza, ma è essa stessa sempre attuale. Non è mai una potenza a venire, ma sempre assolutamente presente nelle differenti sue espressioni. 

Il modello esemplare della filosofia spinoziana mira già a quel compito che si presenta oggi più che mai urgente, quello di ricucire le fratture concettuali di cui il pensiero occidentale ha costellato la realtà. In particolare la nostra cultura scinde abitualmente il possibile e il reale come dimensioni incommensurabili. Ma, come Agamben sa bene, è stata proprio questa scissione ad aver permesso un determinato sviluppo della stessa cultura occidentale. In particolare la scissione della realtà secondo le dualità di essenza ed esistenza o di possibilità e attualità, ha offerto il dispositivo durevole con cui, da un lato, si è sviluppata la conoscenza scientifica e, dall’altro, lo stesso potere occidentale ha trovato in tale scissione i modi storicamente mutevoli della sua sovranità e del suo controllo esercitato sui corpi e sulle vite.

È con la ricerca di un’essenza considerata distinta e, anzi, precedente e superiore all’esistenza che la tecnologia e la stessa dottrina del potere trovano una loro condizione decisiva di sviluppo, approfondendo quella scissione. Così la dimensione della possibilità, mediante la quale per lo più pensiamo la realizzazione dei nostri atti di libertà, risulta essere la condizione che permette di pianificare e di progettare e, soprattutto, di controllare e indirizzare le azioni umane. Si ritrova qui uno dei presupposti di riflessione presenti in altri libri di Agamben, per cui il potere dell’Occidente, nei suoi modi mutevoli, implica sempre delle distinzioni ontologiche e, memore della lezione di Furio Jesi, implica quella “macchina mitologica” capace di rendere tali distinzioni un canone consolidato. 

Per questo motivo oggi alcune tra le ricerche più avvincenti della filosofia contemporanea convergono sull’idea di immanenza nella quale riluce l’occasione per risalire oltre la scissione fondamentale che caratterizza il pensiero e le pratiche dell’Occidente come pratiche di dominio. Questa idea dell’immanenza comporta la necessaria destituzione dell’idea di progettualità che ha costituito e ancora costituisce la struttura portante dell’imperialismo sedicente civilizzatore e (oggi) democratico dell’Occidente. Solo un gesto inoperoso, capace di uscire dal paradigma dell’ergon ovvero dell’opera, sarebbe in grado di mettere fuori gioco l’organizzazione concettuale occidentale, senza avvilirsi in un’opposizione tanto duratura quanto inefficace e sostanzialmente affine o perfino complementare a quanto contesta. 

Come mostrano i tanti segni che si accumulano sulla superficie all’apparenza confusa del nostro tempo, si diffonde l’esigenza di calarsi più a fondo nell’esperienza che attinge a tutto quanto di reale incontra e di sostituirla alla pro-iezione del pro-getto, all’anticipazione temporale che annulla il tempo o che lo trasforma in affanno, all’enfasi posta sulle innumerevoli possibilità che la nostra società ci metterebbe dinnanzi e che si traduce nell’ipnosi della società della merce. Si tratta dell’esigenza sempre più diffusa, per quanto spesso in modi oscuri, di mettere in gioco un’altra logica che non quella vagamente ansiogena della realizzazione, la quale si traduce per lo più nella catena del passaggio coatto da un consumo all’altro, magari in nome di forze vitali, come la libertà o il piacere, che quella stessa catena nega. Del resto, sulla crescita a dismisura delle possibilità, l’Occidente degli ultimi decenni ha basato buona parte del suo appeal.

È un paradigma che sembra costruito apposta per una società di consumatori, che tiene legata la loro libertà a un’idea di scelta tra possibilità diverse, ma che soprattutto si incardina sulla costante coazione a scegliere e a saper scegliere, come conseguenza dell’immaginario di una “vita realizzata”. È questa la realtà paralizzata nella quale fingiamo di riconoscerci ma ci è di giorno in giorno più estranea. Qui ci viene in soccorso l’indicazione su cui si chiude la Soglia, secondo la quale è solo la consapevolezza che esiste qualcosa di irrealizzabile e, più esattamente, di “assolutamente irrealizzabile” a permetterci di agire “sull’accadere storico che si è pietrificato nei fatti come un termine (Ende), cioè spezzandolo e annichilendolo”. Questa istanza destituente, che Benjamin avrebbe chiamato “messianismo” o anche “nichilismo”, necessaria alla politica, non si lascia realizzare nella forma di un potere costituito. Non è nei termini di una “realizzazione”, per lo più immaginaria e autocelebrativa, che si pratica una nuova politica, ma unicamente a partire da un gesto capace di disertare il normale corso degli eventi. Non si tratterà allora di pensare la trasformazione della realtà in nome della possibilità, ma unicamente di partecipare al suo divenire seguendo quelle forze anarchiche – cioè, alla lettera, senza origine e senza destinazione – che già la abitano.

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