Sesso postmoderno

27 Giugno 2013

Sarebbe Eros a doverci salvare dalla depressione, Eros a strapparci dall’inferno narcisistico, dal lento precipitare in noi stessi, prigionieri del sempre identico. Ma oggi dell’Altro non si fa più esperienza e, come scrive Byung-Chul Han, Eros agonizza (Eros in agonia, Nottetempo).

Prestazione e risultato, lo si è ripetuto fino all’eccesso, sono i nuovi dèi ai cui altari ci sacrifichiamo, e l’Altro, in questa prospettiva che ci riguarda, si riduce a specchio: a lui il compito di confermare il nostro ego. Chiamiamo Altro quello che, in fin dei conti, Altro non è: siamo noi, con le nostre ripetizioni, i nostri fantasmi, i nostri ideali.

«Io posso»: il soggetto si sottomette alla violenza della libertà, che lo conduce all’autosfruttamento. Bauman ne Gli usi postmoderni del sesso (il Mulino) sottolinea che alla «sana costituzione» richiesta dai poteri di controllo, si è sostituito il diktat della «forma fisica» dei nuovi poteri, che addestrano attraverso la seduzione e la creazione di bisogni. Non vi è un limite, alla forma fisica: non può essere misurata, né fatta oggetto di comparazioni; è il nome che si dà a un confine destinato a essere spostato indefinitamente, a una tensione a potere sempre e di più.

Fare di se stessi un progetto da plasmare, isolandosi, forse anche per proteggersi, dalla possibilità dell’imprevisto, da variabili non in nostro controllo, da accidenti. Come Sisifo ogni giorno da capo: ogni giorno un nuovo specchio, ogni giorno la sua insufficienza. È compito impossibile, che porta con sé, come spettro, il senso di colpa per quel fallimento di cui si è, in quanto soli attori, unici responsabili. Evitare l’errare: il procedere incerto, l’indugiare, ogni deviazione. L’economia della sopravvivenza, tesa all’efficacia e rivolta al risultato, è diametralmente opposta alla non economia che caratterizza il desiderio; Eros apre a una temporalità differente da quella dell’immediatezza del presente replicabile, una temporalità che include il negativo: l’attesa incerta da un lato, la nostalgia di un passato irrimediabilmente perduto dall’altro.
Non è un caso che l’indebolimento, la perdita di padronanza, che segue l’incontro con l’Altro porta con sé, come dono, una potenza che ha il carattere dell’espansione e include una dose di dissipazione; e non è a caso che si configuri, appunto, nella forma di un dono: sfugge all’utilità, rompe la relazione di scambio, implica un sovrappiù, dichiara l’insufficienza del principio di utilità.

Edificarsi come soggetti di prestazione è escludere in maniera radicale la possibilità dell’incontro: l’Altro è quell’irriducibile che segna, per definizione, il luogo del «tu non puoi».

L’amore è invece sempre più addomesticato, il corpo in salute, l’io edificato in una monolitica identità immaginaria. E in questo quadro le decisioni, che sono interruzioni e hanno qualcosa della ‘fine’, sono sempre più faticose. La morte, ancorché soltanto parziale, è espunta dal nostro orizzonte.

Ma l’incontro così impedito non è soltanto l’incontro erotico, e non è nemmeno soltanto l’incontro d’amore. È il sogno, di cui ci priviamo: l’essere parlati dalla notte, per rubare le parole a Peter Handke (Un anno parlato dalla notte, Moretti&Vitali) che riporta sulla pagina, con la propria matita, sogni che provengono da un caos che si fa beffe dell’ordine linguistico. Paradossalmente, e più radicalmente, sottratta è allora la possibilità di accedere a quell’Altro che ci riguarda, che siamo, quello che crediamo di proteggere e custodire: perché l’inferno dell’Uguale è l’inferno della ripetizione. Non è un caso che Lacan rifiuti di pensare che il transfert possa essere codificato, come vorrebbe la teoria psicoanalitica classica, e lo illumina come incontro: singolare, imprevedibile, che espone l’analista stesso, bucandolo. È soltanto nell’incontro come singolarità assoluta, come evento, che si dà la possibilità di accedere alla verità del soggetto, quella verità che è altrove dalle sue parole, dai compiti che si prefigge, dal controllo che esercita su se stesso a partire dalla regolamentazione del proprio corpo.

 

L’Altro allora è catastrofe, rovesciamento, morte. Uno scacco radicale ne segna la nostra relazione: sempre un passo di là dal nostro desiderio di possederlo, afferrarlo, comprenderlo. E l’incontro d’amore rivela allora la nostra solitudine definitiva, e si fa beffe di ogni tentativo di consolazione e controllo.

Bataille apriva il suo saggio sull’erotismo dichiarando «dell’erotismo si può dire che esso è l’approvazione della vita fin dentro la morte»: eros comporta la relazione con il negativo e la sua potenza ha a che fare con la dissoluzione, dice di un eccesso che abita il nostro corpo, una sovrabbondanza che travalica la sessualità, i fini riproduttivi. Il desiderio che l’erotismo esprime è sempre desiderio di altro, di un oltre, ecco perché si lega alla trasgressione. È quanto sottolinea Gerard Pommier, psicoanalista francese, nel suo ultimo libro (Del buon uso erotico della collera e di qualche sua conseguenza, Cortina Editore): il potere erotico della collera di cui facciamo esperienza – lo stato di sovraeccitazione sessuale che può seguire un litigio furioso tra amanti – è legato alla necessità di rifondare il ‘divieto che permette’ di cui l’erotismo si nutre, rifondarlo in un tempo senza Dio, né sacro.
Con buona pace di chi rivendica con orgoglio la propria ‘animalità’ a letto, la Natura è persa, da un pezzo e per sempre, e la collera ha piuttosto a che fare con la particolare configurazione che assume il complesso di Edipo: il padre deve essere portato sulla scena e ucciso, scrive Pommier, per eccitarsi sessualmente e «copulare all’ombra del suo spettro».

Oggi tuttavia di questo eccesso, di questa collera, ne abbiamo davanti agli occhi una forma trasfigurata, una forma che rivela ancora una volta, e troppi fatti di cronaca ce lo ricordano, l’ostinazione di padronanza, la tirannia del controllo: l’Altro è dimenticato. La violenza come desiderio di sopraffazione e appropriazione, che si veste d’amore rappresentandone il punto più lontano, mira infatti a ridurre l’altro a sé, a togliere quella distanza che è condizione di possibilità del desiderio.
Voler possedere l’altro, volerlo assoggettare, conoscere, significa puntare a positivizzare la sessualità, a ridurre a oggetto l’alterità, il volto a faccia.

L’emancipazione postmoderna dell’erotismo sia dall’amore che dal sesso, e dalla promessa di immortalità in essi contenuta – come riproduzione nella specie da un lato, come speranza eterna dall’altro – ha tra le sue conseguenze una sessualità più libera, complessa e polimorfa, e tuttavia, sottolinea Bauman nelle sue lungimiranti riflessioni, l’emancipazione non ha prodotto alcuna liberazione, né ha favorito il formarsi di un tessuto di relazioni interpersonali. Anche l’erotismo risponde agli imperativi della prestazione, ai nuovi micropoteri; è anche lui al servizio delle identità «multiple, flessibili, evanescenti dell’umanità postmoderna».

Saturati dall’eccesso di controllo e informazione, educati, cifra del capitalismo, alla rimozione della dépense, abbiamo cancellato la possibilità di uno spazio indefinito, insaturo, vuoto, necessario alla fantasia erotica. Uno spazio silenzioso, di cui, come scrive Byung-Chul Han, anche il pensiero ha bisogno.

Freud, l’analista, al contrario di Breuer, il medico, fonda la psicoanalisi scegliendo di non rifiutare Eros per servirsene: prende in carico Anna O. e con lei il suo amore di transfert. Lascia spazio alla parola della paziente e tace. Si fa custode del silenzio.
Solo accogliendo una dimensione negativa è possibile restituirsi la possibilità dell’evento, della parola, dell’arte, della politica. Apertura all’imprevedibile. Altrimenti possiamo sempre cercare protezione, e certezze, in tecnici, guaritori, stampelle, teorie, diete dimagranti e dati.

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