Speciale

Speciale ’77 / Tano D’Amico. Un’archeologia dell’innocenza

24 Giugno 2013

Quattro fotografie. Una sequenza. Primo frame: una strada asfaltata, un marciapiede, un’aiuola rinsecchita, alberi, automobili parcheggiate; il punto di vista è diagonale, ad altezza d’occhio. Un giovane con cappotto scuro e berretto in testa sta correndo: nella mano sinistra impugna una pistola. Davanti a lui un altro ragazzo, con un impermeabile chiaro, fa una strana mossa, si lascia andare, le gambe si piegano, anzi si accartocciano sotto il corpo, bloccato nell’istante in cui il movimento non si è ancora arrestato ma la caduta è già inevitabile. Porta i guanti. È ferito. Un istante dopo, siamo alla seconda fotografia, il primo sopraggiunge, gli afferra il braccio destro, cerca di trascinarlo via. Nella mano destra ora stringe due pistole, un’automatica e una a tamburo. Nella terza immagine l’inquadratura è più ravvicinata: il ragazzo è a terra, i pantaloni inzuppati dal sangue che lascia una traccia sull’asfalto e gli macchia il viso. Qualcuno gli regge il braccio sinistro, due paia di gambe si avvicinano dall’altro lato. E infine l’ultima fotografia: il ferito è steso a terra, una specie di smorfia gli contrae il viso da attor giovane, gli occhi un po’ velati, le mani senza più guanti strette sul ventre. Qualcuno, fuori dall’inquadratura, tiene stretta con gesto deciso una cintura intorno alla sua coscia sinistra, mentre un altro sembra esaminare la sua gamba destra. A destra, un uomo in giacca a vento si è chinato e gli posa una mano sulla spalla, altri si avvicinano. La composizione ha qualcosa di fermo, di classico, fa pensare a una Deposizione rinascimentale, ma anche a una foto di guerra, con quel corpo maschile steso in obliquo tra gambe e braccia protese a toccarlo. Siamo a Roma, in piazza dell’Indipendenza, è il 2 febbraio 1977. Il ferito si chiama Paolo.

 

 

 

 

Queste fotografie di Tano D’Amico, tra le sue più note, aprono simbolicamente quella che nel linguaggio giornalistico dell’epoca fu chiamata la stagione della “P38”, l’irruzione cioè delle armi sulla scena delle manifestazioni di piazza. Sono fatalmente tra le immagini più viste, un marchio quasi, di quell’anno agitato, le si trova ancor oggi costantemente ripubblicate su giornali, riviste, saggi, copertine, pagine di internet, a dimostrare probabilmente anche l’attrazione ossessiva esercitata dal sangue. Sono un’etichetta, una scorciatoia, un dispositivo di ripetizione che replica all’infinito eccitazione, allarme, paura. Ma sono anche icone, messaggi intenzionati, costruzioni retoriche. Chi le ha scattate è il fotografo italiano che ha più di ogni altro legato il suo nome a quella stagione, e ancora da una posizione assai diversa rispetto all’illustre tradizione del reportage. Tano D’Amico non è infatti solo un testimone coraggioso e impassibile, un obiettivo che registra infallibilmente gli eventi; non resta all’esterno, è parte in causa, è un simpatizzante, un militante. È il fotografo di Potere Operaio e di Lotta Continua, cui si deve la documentazione più completa dei movimenti giovanili di opposizione degli anni settanta. È uno dei pochi a fare fotografie dall’interno, dal punto di vista di chi sfila nei cortei, di chi occupa le scuole, le facoltà, le case sfitte. E viene chiamato spesso prima che si verifichino i fatti, è l’inviato speciale del Movimento, colui che deve fissarne l’immagine, sfidando gli stereotipi e i giudizi negativi diffusi dai media borghesi e dalla stessa stampa di sinistra. Con un’intuizione sintomatica, e sin dal 1968, la sinistra extraparlamentare comprende di dover esercitare un controllo e una selezione sulle immagini destinate in primo luogo ai suoi stessi simpatizzanti, a rappresentare i momenti in cui si esplica la lotta politica ed emergono le identità che la animano. Tano D’Amico sarà la superficie sensibile dove questa realtà rimarrà catturata, il cronista di un’epoca di cambiamenti tumultuosi, di entusiasmi e di semplificazioni.

 

 

Qual è il tratto specifico di questo modo di fare fotografia? È solo una questione di soggetti, di luoghi, di scelte di visuale, o c’è invece anche un modo, uno stile, di ritrarre gli eventi, qualcosa che nella struttura dell’immagine segnali una diversità non desunta dai “fatti”, il punto di vista di chi scatta e insieme il giudizio su ciò che accade? Un altro scatto. Sempre Roma, sempre 1977. Sullo sfondo, un po’ sfocato, uno schieramento di agenti con caschi e scudi. In primo piano, sulla sinistra, un gruppetto di giovani, una ragazza e un ragazzo che si tengono per mano e sembrano impegnati in una conversazione amorosa. Tra loro e il gruppo di poliziotti c’è uno spazio vuoto che si estende su buona parte della fotografia. Il vuoto dell’attesa, dell’incertezza, del tempo che pesa, certo. C’è in questa immagine una perfetta esemplificazione della retorica di D’Amico, della sua volontà di fornire del Movimento un’immagine bella, pura, da contrapporre allo stereotipo del sovversivo “brutto sporco e cattivo” che è moneta corrente nei media mainstream. Nella sua programmatica, ingenua anche, contrapposizione tra un’intimità fragile ma determinata e il meccanismo insensibile che sta per mettersi in moto, tra l’umanità delicata dei due adolescenti e la greve uniformità militaresca che li fronteggia, si profila una lettura semplificatrice, di ascendenza brechtiana, un intento didascalico: noi e loro, il coraggio delle idee, lo slancio generoso contro l’insensibilità, la confusione colorata contro il grigiore delle uniformi...

 

 

 

 

Ci sono altri esempi possibili: ecco una ragazza dall’espressione imbronciata o semplicemente stanca, la testa abbandonata sullo zaino posato sui sampietrini; ed eccone un’altra, vestita con una strana mantella da educanda, il viso infantile e bellissimo, un ovale perfetto, lo sguardo trasognato, così simile a un angelo di una pala d’altare del primo Cinquecento. O ancora il giovanotto con i baffetti che legge disteso su un prato Che fare? mentre accanto a lui una ragazza addenta un frutto con un gesto incurante, o le molte altre scattate in raduni, concerti o assemblee all’aria aperta, in cui circola sempre un’aria di festa, ma di festa leggera, senza eccessi, in cui una specie di pudore trattiene tutti sull’orlo di un abbraccio collettivo che pure si sente vibrare tutto intorno. C’è in tutti questi casi da parte del fotografo un’identificazione con i suoi soggetti prima ancora che politica di natura chiaramente affettiva, sentimentale. È la manifestazione figurativa di una prossimità, che punta a rendere visibili i legami, le “situazioni” emotive, dandone però una versione poetizzante, idealizzata, concentrata sulla scena “esterna”, per così dire, sul teatro della piazza e della strada, del corteo e dell’assemblea per isolarvi sistematicamente i dettagli capaci di fornire un’immagine, un’anima – un’identità – a un’insieme frammentato di impressioni e scorci fugaci. Non stupisce che questa formula abbia incontrato un’ampia e duratura fortuna non solo nelle fotografie dello stesso Movimento ora raccolte in quello straordinario album generazionale che è I ragazzi del ’77 di Enrico Scuro, ma a distanza di decenni nelle foto del movimento 2011, mantenendosi integro nel salto di millennio, di tecnologia, di modalità di diffusione:  la fotografia della coppia di Vancouver che si bacia sullo sfondo di un minaccioso cordone di polizia(occasionalmente sospettata di essere un falso), ne è probabilmente l’esempio più noto e iconico.

 

Nelle fotografie di Tano D’Amico il singolo sembra non perdersi mai nella massa, non ne viene riassorbito, ma sembra consolidare anzi la sua singolarità, il suo tesoro interiore; è il sogno di quell’accordo armonico tra uno e mondo che tutte le utopie di liberazione, dal romanticismo a oggi, hanno cercato senza riuscirvi di salvaguardare dall’attrito con la violenza, col fondo metallico e indifferente della storia. Ed è anche un modo diretto per mostrare come la vecchia idea leninista del primato collettivo si ibridi nel ’77 con la predilezione di gusto dada e situazionista per la festa permanente, per l’happening che abolisce gli spazi privati e rovescia tutto nella dimensione pubblica, che mette a soqquadro la città in un dispendio di energie apparentemente inesauribili. Al pari del drago di cartapesta portato in trionfo per le strade di Bologna che scorgiamo in un’altra fotografia, il Movimento attraversa le città spinto dalla forza primitiva della sua immaginazione, animalmente inconsapevole dei pericoli che lo insidiano da dentro e da fuori e che finiranno per ucciderlo.

 

 

Non mancano ovviamente in questo album le immagini più violente, più concitate, i momenti di scontro. Forse la fotografia più famosa di D’Amico, se non la più riuscita, proprio per il valore di testimonianza smascherante che all’epoca e ancor oggi continua a possedere, è quella che mostra il poliziotto in borghese, pistola alla mano, scattata in piazza della Cancelleria a Roma il 12 maggio del 1977, vero e proprio scoop che risultò decisivo per smascherare le versioni ufficiali sull’uccisione della studentessa Giorgiana Masi quello stesso giorno. L’indomani il fotografo è sulla scena di quella morte, a ponte Garibaldi. A terra, un’aiuola improvvisata, delimitata da frammenti di travertino, coperta di mazzi di fiori, di fogli scritti. Sullo sfondo un’agitazione improvvisa, agenti della Celere con casco e manganello, delle ragazze che fuggono. La fotografia ha un formato panoramico, allungato, è un formato epico, come nello schermo del cinemascope o in un quadro di storia ottocentesco (e in quanto tale D’Amico lo impiega spesso nelle sue fotografie di “piazza”). Da destra, correndo, due ragazze accorrono urlanti, le bocche spalancate, le espressioni sconvolte, come le Marie del Compianto di Niccolò dell’Arca a Bologna o due Furie vendicatrici. L’evento tragico si misura nella sua risonanza più intima ma anche iscrivendo il dolore in una dimensione compiutamente storica e politica, nell’occupazione, nella perturbazione dell’indifferente spazio pubblico; la fatalità di una morte senza colpevoli è denunciata in quest’immagine con l’efficacia di una requisitoria.

 

A trentacinque di distanza e certo da un punto di vista più accorto, meno ottimistico, l’elemento immateriale eppure così palpabile di queste immagini, l’innocenza, rimane perfettamente decifrabile. Quell’innocenza, la chiave magica caparbiamente ricercata dal Movimento, può essere pensata oggi solo come malinconia, come un’ombra di una mancanza, come impossibilità. Ma le foto di Tano D’Amico, con tutto il loro umanistico ottimismo, la francescana attenzione per gli umili, la loro temperatura emotiva inconfondibilmente italiana (da Rossellini a Pasolini), la mostrano invece come una sorta di prodigiosa apparizione, una specie di lampo che per un attimo sembra avere il potere di annullare le ombre, di rimuovere gli errori, la cecità, il velleitarismo e l’inconcludenza di tutta un’epoca. L’innocenza di un’eterna adolescenza mostrata come pura potenzialità, intatta, ancora densa di promesse non realizzate. Queste immagini ci raccontano di un’autoillusione, di un’ingiustificata euforia, di un’infausta esaltazione collettiva: furono offerte come uno specchio ai ragazzi del ’77 che vi riconobbero immediatamente e volentieri la propria immagine, il riflesso dei propri sogni, senza percepirvi però il buio che vi stagnava, le pseudoconsolazioni che esse fornivano con sospetta generosità.

 

Per noi, oggi, spogliate dal loro involucro retorico, forse non rappresentano soltanto i documenti di un’epoca morta, chiamati a supportare di volta in volta una diversa liquidazione storica, a dar man forte a un chiarimento definitivo ancorché ironicamente postumo che ci aiuti a distanziare quello spiacevole e troppo spesso tragico grumo di fallimenti. Sono anche la prova visiva, tangibile quasi, di un futuro irrealizzato, qualcosa che in modo imperfetto toccò nell’Italia di allora e a maggior ragione tocca anche adesso il nodo della nostra relazione con l’eredità e l’identità collettiva, che sfidò con l’eccesso delle sue energie il cinismo obbligato e il pessimismo della ragione politica, che interrogò con gli strumenti imperfetti dell’immaginario quella dimensione plurale, quel tessuto che ci definisce come esseri relazionali e che ci riesce così difficile oggi rinnovare, assordati come siamo dallo spettacolare trionfo di un’individualità indiscussa quanto del tutto irrilevante.

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