Roma / Paesi e città

7 Marzo 2012

Abito al Pigneto, a Roma, da molti anni. A un paio di chilometri da casa mia, alla Marranella, a Torpignattara, sono stati uccisi quel padre e quella bambina cinesi mentre tornavano a casa dal loro esercizio commerciale; ho delle amiche che li conoscevano. Gli assassini non sono stati presi, uno dei due l’hanno trovato impiccato all’altro capo della città.

 

 

Il Pigneto, la Marranella, Torpignattara fanno capo alla stessa circoscrizione amministrativa, il VI Municipio: sono quartieri confinanti, che entrano uno dentro l’altro e si confondono, quartieri fratelli dai destini simili e diversi. Aree di prima periferia non lontane dalle mura, in una zona produttiva, hanno la vocazione ad accogliere chi giunge in città con pochi mezzi; hanno assistito, durante il fascismo, all’arrivo di nuclei popolari allontanati dal Centro. Stanno dentro la scia delle case di fortuna, del piccolo abusivismo a uso familiare, delle baracche, che ha segnato il Novecento a Roma. Ma hanno visto anche, negli anni Trenta, lottizzazioni a villini e palazzetti, case economiche e popolari. Poi negli anni Cinquanta e Sessanta, il sacco. Sono zone con una consapevolezza politica elevata, che vantano una solida partecipazione alla Resistenza. Qui, numerosi cineasti, Rossellini, ma soprattutto Pier Paolo Pasolini, hanno trovato i loro set e una immagine del sottoproletariato urbano e dei ceti popolari che ha fondato poi una tradizione. Il proletariato e il sottoproletariato romano che ci immaginiamo nativo è frutto d’incroci, di incontri: ci sono dentro immigrati abruzzesi e marchigiani, “baresi” insieme ai deportati del centro storico. Se arrivi in treno a Roma dal Meridione, vedi susseguirsi caos e garbo, casette a cui la patina degli anni ha regalato nobiltà e decoro e scorci di speculazione che neanche il tempo riesce a ingentilire.

 

 

La Marranella è il punto più basso dei tre quartieri. Fino agli anni Trenta c’era un fosso sporco, una marrana. Ci galleggiavano i rifiuti, ci gracidavano le rane. Il 10 gennaio, alla fiaccolata per chiedere sicurezza c’era l’intera comunità cinese, che, per la prima volta qui a Roma manifestava la sua presenza politica. Con le fiaccole accese scivolava per le vie di Torpignattara, imboccando strade in discesa e fermandosi in uno dei punti più bassi del quartiere. Se chiudevi gli occhi potevi ancora avere l’impressione che i piedi penetrassero nell’acqua.

 

Torpignattara ha reagito meno di quanto mi fossi aspettata: accanto ai cinesi, con le fiaccole in mano c’erano molti cinquanta-sessantenni politicamente attivi, nel Pd, in Sel, in Rifondazione; c’erano poi rappresentanze degli immigrati, consistente era quella bengalese; ma non c’era la partecipazione massiccia che avevo immaginato. Come se la gran parte degli abitanti del quartiere, che assisteva alla fiaccolata in silenzio teso e pieno di rispetto, dichiarasse però la faccenda non sua, rifiutasse di farsene carico. Come se scegliesse di pensare al quartiere come al teatro casuale del delitto, non colpevole né vittima. In realtà il delitto pazzesco e insensato ha radici profonde nella forma che ha preso la piccola delinquenza a Roma in questi anni e visibilmente nei nostri quartieri. Autori potenziali di delitti gravi come di piccoli furti, giovanissimi, manovalanza pronta e spesso attiva delle camorre, spesso sotto l’effetto di stupefacenti, sempre disperati, aggressivi, stazionano prediligendo speciali angoli di strada.

 

 

Fino a pochi anni fa soprattutto al Pigneto, ma anche a Torpignattara e in misura minore alla Marranella, i prezzi delle case salivano vertiginosamente, una vita mondana giovane, colta ed elegante attraversava le strade ogni sera. Il territorio del nostro Municipio attraeva professionisti giovani, colti, dalla mentalità aperta alla ricerca di case dal prezzo ancora abbordabile. Questa gioventù era attratta dalla prossimità dal centro, dalla patina nobile che la cinematografia aveva riversato sui quartieri, ma anche dalla memoria della Resistenza e da una cultura diffusa popolare e tollerante. Speculazioni edilizie si moltiplicavano. Alcuni degli abitanti storici vendevano le case e si spostavano più giù, nella seconda e nella terza periferia. Continuavano a arrivare immigrati, seguendo la vocazione storica dei tre quartieri: bengalesi, senegalesi, maghrebini, rumeni, peruviani, cinesi. Anche qui, proprietari di appartamenti speculavano sulle necessità delle persone. Nello stesso isolato c’erano quelli che vivevano in dieci in due stanze, c’era la vecchietta nel suo spoglio bilocale, c’era la coppia benestante che si godeva l’attico.

 

 

Non che le contraddizioni mancassero, ma non balzavano all’occhio, non per prime. Per molto tempo è sembrato che lo spirito di tolleranza, che accomunava vecchi e nuovi abitanti, l’istintiva solidarietà dei lavoratori verso i lavoratori, fosse sufficiente a fare da collante; se non sufficiente a superare i confini invisibili, capace di renderli innocui, non minati: sufficiente a fare dei nostri quartieri una enclave di pace, ben altra cosa dall’Esquilino, quartiere così prossimo, dove, al contrario, le tensioni si respiravano con l’aria. Certo, qualche furto c’era. Zone di spaccio non mancavano. Qualche rissa era inevitabile. Negli anni ricordo anche un paio di colpi di pistola. Ma insomma, cose da mettere nel conto. L’attenzione andava ai negozietti d’artigianato, al fiorire delle librerie caffetterie, alle gallerie d’arte, alla gente a passeggio, ai ristoranti buoni per ogni curiosità, per ogni tasca.

 

 

Poi, a un certo punto, qualcosa è cambiato. È successo in significativa concomitanza con l’assestarsi della giunta Alemanno e con l’acuirsi della percezione della crisi. Il livello di violenza spicciola nei nostri quartieri è salito in modo sensibile. Nei ristoranti costosi con le stufe all’aperto vengono ancora a cena giovani professionisti dall’apparenza facoltosa, ma è assai difficile che riescano ad andarsene senza averci rimesso il portafogli o la borsa. E questo sarebbe anche normale: mettere accanto degrado e ricchezza provoca inevitabilmente uno stridore. Capita che qualcuno pisci in pieno giorno poco lontano da un negozio e che al rimprovero del negoziante torni armato e lo accoltelli. Ci sono strade da percorrere rigorosamente su uno dei due marciapiedi, pena trovarsi derubati o peggio. Le zone di spaccio sembrano inamovibili, e a tarda sera capita che siano teatro di risse violente.

 

 

Sembra finita l’età d’oro del Pigneto, e anche la speculazione che si ostina a tirar su i suoi palazzetti, s’è fatta torva e disorientata, come non capisse più qual è il suo target. Può darsi che, per istinto, l’amministrazione comunale non veda di mal occhio il fiorire e il moltiplicarsi di attività microcriminali, furto e spaccio; che d’istinto conti sull’aumento delle tensioni tra nativi e immigrati, tra nuovi e vecchi residenti, tra gruppi di diverse origini e nazionalità, nella speranza che, come per gravità, si materializzi la richiesta di una risposta forte, autoritaria, in termini di ordine pubblico, di sicurezza.

 

Intanto, le camionette che da qualche tempo stazionano per le nostre strade, sempre più numerose e più visibili, non hanno messo un freno né al furto né allo spaccio. Le saracinesche dei punti di ristoro, delle librerie, vengono sfondate, le casse svaligiate. Quale che sia la ragione dell’apparente inefficacia della loro presenza, prendersela con la camionette, e dimenticare il problema tragico che alle loro spalle permane e cresce, è un errore. Siamo abituati a pensare alla criminalità spicciola come a uno scotto da pagare, inevitabile, talmente ovvio da portarci a distogliere lo sguardo. Forse è ora di renderci conto che la delinquenza e la forma che prende va letta in termini politici anche a Roma, non solo a Napoli o in Sicilia.

 

 

Non è accettabile morire tornando a casa. Non è accettabile che a un angolo di strada, sotto i nostri occhi, un ragazzo di vent’anni ne accoltelli e ne uccida un altro. È successo pochi mesi fa di fronte al cinema L’Aquila, ma succede troppo spesso. Non è accettabile che questo grado di violenza diventi la condizione normale, l’angoscia la risposta ovvia. Non è una cosa ammissibile che un ragazzo di vent’anni pensi di avere la rapacità come unica risorsa, la criminalità come unica agenzia.

 

Non possiamo accettare questo spreco come un cosa normale, cose che capitano e che non capitano a noi. Il sistema complesso della delinquenza non prevede innocenti, ma vittime e carnefici sì, è il sistema di potere e di produzione di ingiustizia al suo grado più efferato: ci sono italiani e stranieri tra i carnefici, ci sono italiani e stranieri tra le vittime. A monte, si devono combattere leggi sbagliate che spingono verso la delinquenza chiunque arrivi senza documenti, ma a valle, le istituzioni, i cittadini organizzati, il terzo settore, i partiti, le parrocchie, i comitati di quartiere, i centri sociali, noi, dobbiamo metterci in grado di andare tra i briganti (che hanno vent’anni) a offrire scelte, opportunità, vie d’uscita (qualcuno già lo fa). Non dobbiamo farlo da soli perché è pericoloso e mettersi in pericolo non porta a niente: ma è una necessità oltre che un dovere, perché al grado di disperazione in cui versano, oggi o domani ci mettono niente ad ammazzarci; dobbiamo avere il coraggio di fare tutto quello che possiamo per mandare in galera gli sfruttatori.

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