Breve viaggio / Tra le montagne

6 Settembre 2020

In questa estate 2020 abbiamo avvertito ancora il disagio, la paura, il desiderio di distanza portati dal coronavirus. Anche il mondo delle librerie e delle case editrici è stato ferito dalla pandemia. Eppure in tanti è forte il desiderio di accostare libri e montagne, seguendo fili e temi diversi, inseguendo passioni, sogni e rimpianti. 

L’ultimo libro di Marco Albino Ferrari, Mia sconosciuta, è sorprendente. Avevo letto le sue opere precedenti, parlato con lui tante volte, provando ammirazione per lo scrittore e per l’organizzatore di redazioni, avvertendo sempre un sottile distacco tra lui e le sue storie, tra lui e gli altri. Mi è parso sempre molto concentrato e attento nel misurare le parole. Questa vicenda è invece intima e personale, racconta il rapporto con Rosamaria, sua madre: una donna libera, colta e interessante, che ama le montagne e il pianoforte, tanto affascinante quanto inconcludente; forte e tenace ma alla fine sempre sconfitta, in amore, nella vocazione per la musica e per l’arte, nel costruirsi una vita davvero autonoma.

 

Il loro legame passa per i libri e le montagne, i sogni e le delusioni. Sono importanti le pagine in cui l’autore racconta il suo ritorno in Val Veny, sotto il Monte Bianco, la salita sino al pulpito roccioso del bivacco Hess (2.958 m), davanti a montagne e ghiacciai di grande e selvaggia bellezza. Ferrari vuole ritrovare le impressioni di tanti anni prima, quando era salito lassù con la madre. “Il bivacco è fissato alle rocce con tiranti d’acciaio. E le rocce formano un pulpito proteso nel vuoto, a tremila metri, sopra il ghiacciaio. Oltre il ghiacciaio, oltre i crepacci velati dai vapori serali, oltre la parete grigiastra, gli ultimi raggi colpiscono il filo della cresta fin sulla cima, dove sale nel vento un ciuffo di neve arrossata. È l’estate dei miei dieci anni”. 

Il desiderio di riscoprire il passato della madre, e quindi anche il suo, scatta dopo i funerali del suo miglior amico d’infanzia e di scalate, Alessandro Pansa, intellettuale e alpinista per diletto, morto d’infarto all’apice di una importante carriera manageriale. 

 

Sino ad allora Ferrari aveva sempre evitato cerimonie e commemorazioni, in linea con quanto pensava sua madre, che le giudicava inutili e retoriche. Invece quel funerale cambia tutto. Ferrari sente la necessità di voltarsi indietro. La sua ricerca si svolge soprattutto attraverso diari, lettere e foto custoditi in una cassapanca dai tempi della scomparsa di lei: vuole decifrare le vicende e le scelte di una madre con la quale ha vissuto per tanti anni senza mai arrivare a capirla fino in fondo. 

Ferrari non ha conosciuto suo padre, un pittore olandese che Rosamaria del resto aveva frequentato pochissimo. Lei aveva amato profondamente invece Edi Consolo, un uomo colto e affascinante, esperto di sci e di alpinismo. Durante la guerra era stato impegnato in missioni rischiose in Svizzera per finanziare la Resistenza, divenendo poi famoso come “inventore di paesaggi”, ovvero originali raffigurazioni grafiche e pittoriche di montagne e ambienti alpini. Insieme a lui aveva scalato tante cime del massiccio del Monte Bianco. Aveva anche fatto progetti per una vita futura. 

 

 

Tra i personaggi di questa storia, troviamo anche un altro caro amico di Ferrari, il forte scalatore Luciano Barbieri, scomparso nel ‘97 sotto una valanga in Val Canale. La morte affiora più volte nel libro, certe voci e certi volti scomparsi si imprimono nella memoria, anche se di concreto non rimane nulla, solo alcuni oggetti e tanti ricordi. Come dice Rosamaria: “Sono i ricordi che fanno rivivere i propri cari, non una tomba su cui piangere”.

La trama del libro incuriosisce e appassiona, quando arriva alla fine lascia nel lettore un senso di malinconia e di amarezza, per tutte le possibilità rimaste inarrivabili, per il dolore di chi resta.

La scrittura di Ferrari è come sempre accurata ed evocativa, ma forse più che in passato, e con una maggiore tensione e partecipazione emotiva. Le montagne sono presenti come nei libri precedenti, ma stavolta sono più scenario che protagoniste.

 

Quest’ultimo lavoro è scritto in uno stile narrativo originale ed evocativo. L’eleganza della scrittura è forse un modo per tenere una distanza da dolori e inquietudini, in un libro dove Ferrari fa i conti con il legame più importante della sua vita, e anche con sé stesso. Mentre lo si legge pare di comprendere meglio anche la curiosità e l’interesse per Ettore Castiglioni, il grande alpinista appassionato di solitudine e di musica, cui in passato ha dedicato due libri. E la determinazione che gli ha consentito di guidare per tanti anni Meridiani Montagne, l’unica rivista di montagna che sia sopravvissuta alla crisi del settore, e di scrivere e pubblicare libri importanti. Nel libro cerca di capire e raccontare sua madre, ma alla fine il lettore scopre soprattutto Marco Albino Ferrari, la biografia diviene in parte autobiografia.

 

A volte le pagine di Mia sconosciuta raccontano disagi così intimi da lasciare sgomenti, a volte invece, quando l’autore si accorge di aver detto troppo, calano improvvisi silenzi e omissioni. Saper scrivere vuol dire anche saper tacere e lasciar spazio al non detto, e Ferrari ci riesce benissimo. 

Ferrari aveva esplorato la materia del suo libro due anni prima. Per tanti anni direttore di Meridiani Montagne, aveva dedicato l’ultimo numero da lui guidato, quello del gennaio 2019, proprio al Monte Bianco, con un approfondimento sul Bivacco Hess e un altro su Edi Consolo. Tra le pagine affiora anche una foto della madre, non nominata, e in copertina una magnifica immagine del bivacco, davanti all’Aiguilles de Trélatête e al Glacier de la Léx Blanche. A chi leggerà Mia sconosciuta, consiglio di recuperare e sfogliare quel bel numero di Meridiani Montagne.

 

Lo scenario che circonda il bivacco Hess è presente anche nel libro di Enrico Camanni Una coperta di neve, in una delle tante pagine dove la montagna diviene protagonista: “Inquadrò il monte che dagli anfratti dell’Estelette toccava i graniti dorati del Trient bucando le frontiere. Lo pensò con lo stupore innocente di un ragazzo degli anni settanta, quando la Brenva era il suo Himalaya e sul Miage salivano i cercatori d’oro. Sapeva ancora perdersi tra i pilastri abitati dagli angeli, le creste cavalcate dai draghi medievali e le seraccate navigate dai velieri. Posti mai vissuti, perché i luoghi svaniscono con la conoscenza. Erano i suoi viaggi fantastici e li difendeva con i denti per non invecchiare”.

Il romanzo è ambientato davanti alle cime della catena del Monte Bianco, tra Val Ferret, Val Veny e Valdigne. È il terzo con protagonista la guida alpina Nanni Settembrini, dopo L’ultima Camel blu e La sciatrice. La trama non è quella di una crime story, ma c’è comunque da decifrare un mistero, apparentemente senza soluzione. Settembrini è determinato a capire, a scoprire se la neve copre un delitto, un incidente, o magari un suicidio. Mentre indaga, percorrendo luoghi e parlando con chi conosce spicchi di verità, torna ogni tanto con la mente alle stagioni della propria vita: scelte senza ritorno, destini a scomparto, la consueta paura di legami definitivi.

 

 

Settembrini affronta i problemi con la lucidità dell’alpinista abituato a decifrare ogni metro che sale, e a misurare le proprie forze e possibilità, ma non trattiene le emozioni, cerca solo di controllarle. È incerto nell’assecondare le passioni, sa che qualunque scelta causa rimpianti, ed è stanco di rincorrere illusioni; così, la tensione di una salita su roccia e la concentrazione per risolvere il mistero diventano una via di fuga. 

Disincantato ma idealista, indignato davanti agli scempi ambientali e alle ingiustizie, pronto a improvvise partenze per viaggi imprevisti come a brusche frenate emotive: un entusiasta che porta a spasso uno zaino pieno di malinconie. “Nanni entrò nel bar con una specie di sorriso, si sedette al tavolino e senza quasi guardarla disse: Racconta”. 

 

Si vorrebbe diventare amici di uno così. Viene voglia di salire o risalire le sue vette di roccia e di ghiaccio, in uno scenario alpino unico al mondo. E si vorrebbe corteggiare Martina, disinvolta psichiatra attratta dagli enigmi umani e dalle montagne. Il loro viaggio improvvisato, in auto, dalla Val d’Aosta al Sud Tirolo, attraverso il Parco nazionale svizzero e la Val Mustair, segue un percorso tra i più belli e romantici che si possa fare con una donna al fianco. A chi legge viene voglia di scuotere Settembrini, di incoraggiarlo a lanciarsi nell’avventura. 

Le prime due pagine del libro raccontano di una valanga, e sono di altissima ed efficace tragicità, poi la storia si dipana con ritmo narrativo e cura dei dettagli, alternando momenti di tensione ad altri di sfuggente ironia. Le digressioni sono interessanti e attinenti, come i ricordi giovanili di Torino e una bella citazione di Piero Gobetti, la crisi delle librerie indipendenti e il desolante confino dei libri di montagna nelle sezioni “tempo libero”, la fine dei ghiacciai per i cambiamenti climatici e lo sfruttamento delle montagne per divertire turisti di gusti grevi e omologati. Camanni evita di fare la morale o proporre soluzioni, si limita a suggerire con garbo, a chi sa ascoltare.

Quando si giunge alla fine, si esce dalla storia con un piacevole senso di leggerezza. L’incompiutezza delle scelte del protagonista, la difficoltà di comprendere davvero e del tutto il mistero di una tragedia “coperta dalla neve”, rendono la storia reale e del tutto credibile. È un libro che fa compagnia, e fa bene all’anima di chi ama le montagne, le buone letture e la libertà. 

 

I libri di Mauro Varotto, compreso l’ultimo, Montagne di mezzo, portano lontano dalle alte vette, fanno conoscere monti, pendii e alture degli altipiani, Lessinia, Alpago, Sette Comuni e tanti altri, quelli della fascia pedemontana, delle faggete e dei lariceti, dei terrazzamenti coltivati, dei villaggi abbandonati e delle nuove casere. 

In Italia, le aree montane sono abitate solo dal 12 per cento degli italiani, ma occupano un terzo del territorio nazionale. Mauro Varotto, docente universitario di Geografia a Padova, ha dedicato molti studi alla “montagna media”, quella compresa tra i 600 e i 1500 metri di quota, che occupa ben il 74% della superfice montana del nostro Paese. Montagne di mezzo è un saggio che contiene molte informazioni ma anche un invito implicito a viverlo e a tutelarlo questo territorio, con colture non estese e non intensive, realizzando e migliorando terrazzamenti, incentivando i piccoli allevamenti, favorendo uno sfruttamento intelligente delle risorse idriche e arboree. Uno sfruttamento che, come diceva Mario Rigoni Stern, “della natura colga l’interesse senza intaccare il capitale”. 

 

 

Varotto condivide la riflessione di Marco Revelli riguardo le tre apocalissi che si sono abbattute sulle nostre montagne nel corso del Novecento: la prima guerra mondiale, i rastrellamenti e gli incendi dei nazifascisti contro i partigiani, lo sviluppo industriale degli ultimi decenni. Quest’ultima è stata la catastrofe più irreparabile. Molte valli si sono riempite di capannoni, tanti fiumi sono stati inquinati e avvelenati, lo sfruttamento idrico forsennato ha causato tragedie con migliaia di morti, la realizzazione di devastanti impianti sciistici ha portato ferraglia e cemento per un divertimento effimero e di breve durata. Proprio nelle montagne di altezza modesta si sono visti negli ultimi anni gli effetti più devastanti dei cambiamenti climatici, che ha lasciato senza neve orrendi scheletri di impianti per turisti di bocca buona, mantenuti con fondi pubblici e neve finta.

 

Nel suo saggio Varotto denuncia tanti stereotipi, ad esempio quello della montagna luogo di una presunta sapienza del vivere che attende il cittadino in fuga. Il turista occasionale gode del silenzio, del verde e dei panorami, di rado si domanda come vivano e quali problemi debba risolvere chi abita le terre alte. Tra monti e valli invece, come in pianura, si possono trovare anche follia, disperazione e male di vivere. La rigenerazione interiore dipende da noi stessi non da immaginari luoghi rifugio, alpini o marittimi che siano; come diceva Hugo Pratt: “Viagiar descanta, ma chi parte mona torna mona”. 

Un altro stereotipo è quello della montagna come luogo della tradizione e della naturalità, contrapposto alla barbarie della città. Molte campagne pubblicitarie puntano su questa illusione di salubrità montana: acque minerali dichiarate purissime ma distribuite in mostruose quantità di bottiglie di plastica, bresaole alpine realizzate con carne bovina proveniente dal Brasile, formaggi prodotti con latte proveniente dall’Europa dell’Est, marmellate con etichette tradizionali ma realizzate con materia prima proveniente dai campi della Bulgaria, mele provenienti da valli alpine ma cariche di pesticidi e fitofarmaci. Si tratta di contesti non comparabili per rischi e affidabilità, ma accomunati dallo stesso ingannevole stereotipo.

Una vera naturalità e un’alta qualità dei prodotti delle montagne sono in realtà obiettivi possibili e auspicabili, ma passano per la diversificazione dei prodotti, per la piccola produzione, per la cura dei boschi e del sottobosco e, come sempre, per la conoscenza. Per anni scuole e uffici postali sono stati dismessi dai piccoli paesi montani, le nuove strade sono servite più a far fuggire verso la pianura che a salire stabilmente in alto. 

L’ambiente inquinato e le alte temperature delle pianure potrebbero invece presto spingere molti a spostarsi verso le terre alte, dove nuove colture sono oggi possibili a quote prima impensabili, ma perché tutto ciò sia possibile occorre ripensarne l’urbanistica, l’agricoltura e i servizi. Molti “nuovi montanari” si stanno impegnando a seminare e a raccogliere, ad allevare animali e ad avviare piccole imprese, amalgamando competenze acquisite negli studi con esperienze e tradizioni locali. 

 

Va cercato un equilibrio di medio e lungo periodo tra la cura dell’ambiente naturale e le attività umane: no a disboscamenti selvaggi che impoveriscono e rendono fragile il territorio, magari per fare spazio a piste da discesa, sì a manutenzioni di strade e casere, alla pulizia del sottobosco, e al contrasto dell’avanzata incontrollata della vegetazione spontanea.

Le montagne alte consentono l’avventura e il brivido di una bellezza infinita, ma un numero limitato di possibilità di vivere e lavorare, tutte focalizzate su alpinismo e turismo, le montagne di mezzo invece hanno possibilità ben più diversificate, ma vanno studiate e comprese, finché siamo in tempo.

Il libro, alla fine, contiene un breve epilogo che riassume le sue tesi per la rinascita della montagna. Il saggio di Varotto è un libro importante, perché aiuta a capire i problemi di tanta parte del nostro Paese, e suggerisce soluzioni per il prossimo futuro, nel nostro interesse e di chi verrà dopo di noi. 

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