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Martin Eden, il “grande romanzo americano”

28 Giugno 2025

Che sia Martin Eden il “grande romanzo americano”, quello che meglio di altri può rappresentare la letteratura d’oltre oceano? Forse, anche se non è mai stato compreso del tutto, sin dalla prima pubblicazione nel 1909. Venne interpretato come un epico inno all’individualismo, mentre per London era un emblema della sua sconfitta. In ogni caso il libro, da poco ristampato da Mondadori tradotto da Cecilia Scerbanenco con introduzione, note e bibliografia ben curate da Davide Sapienza, ha affascinato generazioni di lettori: è la storia di un giovane povero e senza istruzione, ma con la passione di leggere e imparare, che lotta per uscire dall’anonimato e dall’indigenza, e trovare un posto nella società e nella letteratura. Palesemente autobiografico, ripercorre in parte la breve ma intensa vita di London, le difficoltà e fatiche vissute sin da bambino, la tenacia e le illusioni della giovinezza, fino al disincanto, senza rimedio in Martin, disperato ma speranzoso sino alla fine in Jack.

John Griffith Chaney nasce a San Francisco il 12 gennaio del 1876, da una madre irrequieta e disattenta, Flora Wellmann, e da un padre che non lo riconoscerà mai. Il cognome gli deriva dall’uomo, John London, che sposa sua madre qualche mese dopo il parto. Unico vero affetto in quegli anni, la balia Jenny Prentiss. Jack dovrà presto lasciare la scuola e iniziare a lavorare in piccole fabbriche, addetto a lavori pesanti e ripetitivi. A 15 anni, grazie a un piccolo prestito di Jenny acquista una barca e si unisce ai razziatori di ostriche nella baia di San Francisco, è un lavoro illegale e rischioso, ma per la prima volta si sente libero e responsabile del proprio destino. A 17 anni si imbarca come mozzo su una nave diretta verso il Giappone e l’Artico: in quella traversata scopre il fascino dei grandi viaggi per mare, e ne trae ispirazione per il suo primo racconto, Story of a Typhoon Off the Coast of Japan (Tifone al largo delle coste del Giappone), che vince un concorso letterario e viene pubblicato sul San Francisco Examiner.

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Nel luglio del 1897 la sua vita prende una svolta: sono gli anni della corsa all’oro nel Klondike, una regione dello Yukon, in Canada al confine con l’Alaska, e Jack decide di imbarcarsi e partire. Inizia così un’avventura durissima, in luoghi e condizioni estreme, che non gli porterà alcuna ricchezza materiale, ma un patrimonio di storie viste e vissute che pochi anni dopo diverranno racconti e romanzi. L’epopea della Frontiera, dell’avventura verso terre sconosciute e senza confini è finita, a partire dal 1890 non esistono più “terre libere”. La corsa all’oro è tutt’altro, è una follia collettiva in terre estreme che arricchirà ben pochi, tra foreste e montagne disabitate, con il freddo che d’inverno può toccare i 45 gradi sotto zero.

Al ritorno in California, a quelle esperienze si aggiungeranno mesi di letture appassionate (Kipling, Melville, Stevenson, Conrad, Darwin, Spencer, Marx e altri), e il tutto si amalgama alla capacità di scrivere e raccontare, in modo fluido e coinvolgente. Ai giorni nel Klondike dedicherà romanzi brevi di grande successo come The Call of the Wind (Il richiamo della foresta) del 1903, White Fang (Zanna Bianca) del 1906, Smoke Bellew del 1912, e molti racconti, alcuni dei quali rappresentano forse il vertice della sua attività letteraria, ad esempio To Build a Fire (Preparare un fuoco) e Love of Life. Va smentita l’idea che London, abile nell’ascoltare e nell’evocare storie, scrivesse di getto senza rivedere le sue pagine, basti pensare che di To Build a Fire realizzò nel tempo ben tre versioni, sino a ottenere un risultato che alzasse il tono e il senso della storia, che le desse una valenza universale. I romanzi e i racconti ambientati nel Grande Nord riscuotono un grande successo di vendite, London diviene uno scrittore famoso e ben retribuito. Un successo che, nonostante le riserve di un grande critico letterario come Emilio Cecchi, arriverà anche da noi in Italia, e durerà fino ai giorni nostri. È nota la passione di Primo Levi per quelle storie ambientate tra nevi e foreste, nata in gioventù e proseguita negli anni della scrittura, basti pensare a uno dei suoi racconti più belli, Ferro, ispirato (il tema della carne dell’orso) al romanzo di London Smoke Bellew.

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Il richiamo della foresta di Jack London. L'edizione Nuages illustrata da Nicola Magrin.

Alla conoscenza di un mondo estremo fatto di ghiacci e di boschi e di grandi silenzi, London accompagna quella dell’estrema desolazione nei sobborghi più poveri delle città, negli States ma anche a Londra. A San Francisco e in tante città americane ha conosciuto miseria e sfruttamento sin da piccolo, lottando con tutte le forze per uscirne sia come individuo sia come membro della parte più debole della popolazione, in cerca di riscatto e di giustizia. E a Londra, nel 1902 decide di sprofondare nell’East End, per vedere e fotografare il degrado civile e umano di gente disperata, affamata e senza speranze. Ne ricaverà un reportage giornalistico oggettivo, un pamphlet lucido e indignato, The People of the Abyss, pubblicato un anno dopo. London eccelle nel reportage anche quando gli viene impedito, a lui come agli altri giornalisti, di avvicinarsi alle zone di combattimento tra russi e giapponesi, nel conflitto del 1904-1905. Reagisce fotografando la vita nelle retrovie, cogliendo un’umanità povera ma vivace, del tutto ignara delle motivazioni della guerra. Nel 1906 completa il suo grande trittico giornalistico raccontando e fotografando i disastri lasciati dal terremoto nella sua San Francisco. Per chi volesse vedere le foto di queste tre grandi avventure da inviato speciale, anomalo ma attentissimo, consiglio Le strade dell’uomo, l’accurato libro fotografico edito da Contrasto nel 2015 che, oltre a riunire le immagini e alcuni testi dei reportage, aggiunge le foto scattate dallo scrittore durante la crociera dello Snark.

Martin Eden esce nel 1908 a puntate sulla rivista Pacific Monthly, l’anno dopo in volume. È un romanzo di formazione, un genere letterario che vanta capolavori come Tom Jones di Henry Fielding e The Luck of Barry Lyndon di William Tackeray: un giovane nessuno, un povero marinaio, grazie al suo coraggio e alla sua determinazione guadagna un posto al sole, salendo la scala sociale e facendo brillare il proprio talento. E tuttavia la disillusione è in agguato, una volta divenuto uno scrittore affermato e raggiunta l’agiatezza, Martin Eden scopre tutta la fragilità etica e umana di quel successo. The Winner Take Nothing sarà anni dopo il titolo di un romanzo di Ernest Hemingway, un autore che deve molto a London, e nulla alla fine resta fra le mani di Martin.

Martin Eden è un’opera sostanzialmente autobiografica, almeno nella povertà iniziale, nei sogni e nella lotta tenace del protagonista, nella gioia di scrivere e di pubblicare, ma London non è un narratore, è un romanziere. Vuole raccontare la sconfitta di un individualista, di un sognatore, vuole far capire che la vera bellezza della vita sta nella lotta non nel successo. Se questa era sicuramente l’intenzione dello scrittore, il risultato è in realtà tutto da decifrare: le fatiche e le battaglie di Martin sono ammirevoli, la caduta finale è giusta e inevitabile? Nell’ambiguità del romanzo si riflette quella di London, spesso oscillante tra gli ideali socialisti, poggiati soprattutto sull’empatia per i deboli e gli sfruttati, e il desiderio di affermazione individuale che lo accompagnerà per tutta la vita.

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Qualcuno ha accostato il suicidio di Martin Eden a una possibile morte per suicidio di London, una tesi improbabile: nonostante le difficoltà fisiche e morali – tra queste la distruzione per incendio del grande ranch che aveva costruito con passione e sacrifici nella Valle della luna –, London rimase sino all’ultimo innamorato della vita e del suo mestiere. Non smise mai di credere nella letteratura e nell’umanità, e nella possibilità di cambiare il mondo. Voleva vivere, la morte arrivò per il crollo di un fisico provato da anni di fatiche e di alcol, e di cure non adeguate.

Lui stesso, in una preziosa lettera del 17 gennaio 1910 che Sapienza acclude in coda al volume, traccia la distanza dal suo personaggio: “Martin Eden si è ucciso, io sono ancora vivo. Perché sono vivo? Perché ho fede nell’uomo, una fede che Martin Eden non ha mai conquistato”.

Oltre le esperienze vissute, nel libro affiorano in modo esplicito le letture predilette del protagonista: Herbert Spencer e il suo darwinismo sociale, Joseph Conrad e i suoi eroi che resistono alle tempeste del mare e della vita. A un certo punto, entusiasta per la storia che ha in mente di sviluppare Martin paragonò il racconto, ancora da scrivere, con le storie degli scrittori di avventure marinaresche e si sentì infinitamente superiore. «C’è solo un uomo che potrebbe arrivare a queste altezze» mormorò «ed è Conrad. Ma anche lui dovrebbe alzarsi e stringermi la mano e dire: “Ben fatto, Martin, ragazzo mio”.»

London scrive il libro mentre naviga nell’Oceano Pacifico a bordo dello Snark, lo yacht fatto costruire con i proventi dell’attività letteraria, e con il quale immaginava di girare intorno al mondo insieme alla moglie Charmian. Nel suo libro The Log of the Snark, Charmian racconta che, durante quei viaggi, Jack amava leggere ad alta voce, a lei e ai marinai, le pagine di Conrad: Youth – «un capolavoro del quale lui ed io non eravamo mai stanchi, sebbene lo avessimo letto molte volte» – Typhoon, «per la delizia dei marinai» e The End of the Tether, «Abbiamo trascorso l’ultima luce del giorno leggendo The End of the Tether di Conrad, Jack con il libro, mentre il resto di noi sedeva intorno alla cabina di pilotaggio a guardare una città dorata dal sole accendersi sul rosso orizzonte del tramonto, e le onde del mare color rosa e ametista». A Youth London si ispirerà per uno dei suoi racconti ambientati nell’oceano, The Seed of McCoy.

Martin Eden, proprio per la ricchezza di citazioni filosofico-letterarie e discussioni sul senso della vita con Ruth, la donna che ama, e con l’amico-mentore Russ Brissenden, poteva cadere nella trappola del romanzo a tesi, in realtà la freschezza, credibilità e vivacità del racconto, vero cuore pulsante del libro, reggono e assorbono ogni digressione, in un fiume narrativo equilibrato e veloce, che si chiude con uno dei più memorabili finali della storia della letteratura americana: “Era sceso troppo in profondità. Le sue mani e i suoi piedi non sarebbero mai riusciti a riportarlo in superficie. Gli sembrò di galleggiare fiaccamente in un mare di visioni sognanti. Colori e luci lo circondavano, lo ricoprivano, lo invadevano. E quello cos’era? Sembrava un faro, ma era all’interno del suo cervello: una luce bianca e forte che lampeggiava. Lampeggiava sempre più rapidamente. Ci fu un lungo suono sordo e gli sembrò di cadere lungo una grande, interminabile scalinata. E, da qualche parte, là in basso, Martin sprofondò nell’oscurità. Questo era tutto ciò che sapeva: che era sprofondato nell’oscurità e, nell’istante stesso in cui lo seppe, smise di sapere”.

Il romanzo darà ispirazione a molti autori del Novecento, in primis a Francis Scott Fitzgerald per il suo The Great Gatsby, del 1925. In Italia, Mario Rigoni Stern riprenderà il titolo di uno dei racconti di Martin Eden, Il vino della vita, nella raccolta di storie brevi Amore di confine, del 1986.

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Jack London e Charmian Kittredge a bordo dello Snark.

Negli anni successivi London cercherà di spingersi oltre la soglia del romanzo e del racconto ispirati alle proprie esperienze soprattutto con The Iron Heel (Il tallone di ferro) del 1908, cui deve molto 1984 di George Orwell (il titolo tra l’altro prende spunto da una significativa data contenuta nel libro di London), The Scarlet Plague (La peste scarlatta) del 1912, che tanti anni dopo ispirerà The Road di Corman McCarthy, e The Star Rover (Il vagabondo delle stelle) del 1915. Tre romanzi visionari, iniziati sulla spinta di sentimenti politici progressisti e umanitari (nel primo l’orrore dei regimi totalitari, nel secondo la denuncia del crudele sistema carcerario), pagina dopo pagina aspirano entrambi alla creatività pura e alla libertà più vera e assoluta. Il risultato artistico è stato oggetto di apprezzamenti non scevri da riserve, ma è ammirevole il desiderio di London di non fermarsi al successo delle storie di terre estreme e di mari lontani, di sondare l’abisso della mente umana, di cercare oltre.

Jack London muore poco tempo dopo, il 22 novembre 1916, ha solo quarant’anni ma una vita intensissima alle spalle, e un fisico provato da molti malanni, non ultimo l’abuso di alcol. Ha mille avventure nella memoria, un’altalena di vittorie entusiasmanti e dure sconfitte, e sente ancora il desiderio di guardare avanti, di non mollare finché regge il cuore. Ma qualcosa si spezza in quel novembre del 1916, mentre è ancora alla ricerca di qualcosa di più, dalla vita e dalla letteratura.

Di London viene spesso citata una riflessione sulla vita: “Preferirei essere cenere che polvere. Preferirei che la mia fiamma bruciasse in una vampa brillante piuttosto che ammuffire. Preferirei essere un magnifico meteorite, con atomi che bruciano e si infiammano, piuttosto che un pianeta immobile e assopito. La natura dell'uomo è vivere, non esistere. Non ho intenzione di sprecare i miei giorni nel tentativo di prolungarli, voglio viverli”.

In nessun libro di Jack London possiamo leggere queste righe, si tratta solo di affermazioni a lui attribuite, ma ne rendono bene lo spirito, libero e indomabile.

In copertina, Un acquerello di Nicola Magrin ispirato a The Call of the Wild di Jack London.

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