Sebastião Salgado: fotografare il Mondo
Sebastião Salgado è scomparso ieri a 81 anni a Parigi, lasciando un vuoto impossibile da colmare in chi ama la fotografia, in chi ha avvertito il gran soffio di libertà dei suoi orizzonti in bianconero, e in chi crede che si possa e si debba lottare per salvare il nostro pianeta dal degrado ambientale e umano che lo attanaglia.
Sono passati più di dieci anni da quando Wim Wenders realizzò il documentario Il sale della terra, una biografia per immagini del grande fotografo brasiliano, un viaggio nei cinque continenti per raccontarne la bellezza e le tragedie. Tra i luoghi viaggiati e filmati nelle riprese, la valle del Rio Doce in Brasile, dove Salgado è nato l’8 febbraio del 1944, e Parigi, dove ha iniziato a scattare foto, e poi l’Antartide e il Circolo polare artico, la Nuova Guinea e l’Amazzonia, l’Etiopia e il Ruanda, il Centro America e la Siberia. I paesaggi sono aperti su ghiacciai e montagne, foreste e deserti, miniere a cielo aperto e mari in tempesta, ma anche su guerre, carestie e migrazioni: uno sguardo esteso e profondo sul nostro pianeta, su meraviglie da conoscere e preservare, su follie criminali che sembrano non lasciare traccia nella coscienza dell’umanità. All’inizio del film, una voce fuori campo ricorda che fotografare deriva dal greco φῶς (phōs) che vuol dire luce, e γράφειν (gráphein) che significa scrivere, disegnare. È questa l’arte di Salgado, mostrare le luci e le ombre della Terra mediante la scelta rigorosa del bianco e nero, l’alta definizione di primi piani e sfondi, la passione per la profondità di campo. “La mia fotografia non è una forma di militanza, non è una professione. È la mia vita. Adoro la fotografia, adoro fotografare, tenere in mano la fotocamera, giocare con le inquadrature e con la luce. Adoro vivere con la gente, osservare le comunità e anche gli animali, gli alberi, le pietre. Per me la fotografia è tutto questo e non posso dire che siano decisioni razionali quelle che mi portano in giro a vedere il mondo. È un’esigenza che proviene dal profondo di me stesso. È il desiderio di fotografare che mi spinge di continuo a ripartire”. (Dalla mia Terra alla Terra, Contrasto, 2014).
Il suo mestiere avrebbe potuto essere un altro, dopo gli studi in economia e finanza svolti in Brasile aveva lavorato presso alcune istituzioni internazionali, come l’Organizzazione internazionale del caffè a Londra. È la moglie Lélia Wanick che gli trasmette la passione per la fotografia, e Salgado, dopo qualche incertezza, a metà degli anni Settanta decide di abbandonare quell’impiego solido e sicuro, scegliendo il fascino rischioso di un mestiere che lo porterà in giro per il mondo e ne farà un maestro dell’immagine. Attraverso anni di duro lavoro e difficoltà di ogni genere, ma anche con un incredibile colpo di fortuna. Il 30 marzo 1981 si trova in un luogo dove non avrebbe dovuto essere, a pochi metri da Ronald Reagan nel momento in cui tentano di assassinarlo. Le sue foto dell’attentato fanno il giro del mondo. La sua carriera cresce anno dopo anno, costruendo e consolidando un modus del tutto personale e riconoscibile di ritrarre la realtà. Collabora con agenzie fotografiche importanti come Sygma e Gamma, ed è Henri Cartier-Bresson in persona a volerlo nel team della Magnum. Sino al 1994, quando con la moglie fonda la Lélia Wanick Salgado Amazonas Images, un’agenzia dedicata esclusivamente alle sue fotografie.

Salgado nel corso degli anni realizza foto di originale bellezza e profondità, e al tempo stesso non ha alcun timore nell’inquadrare e denunciare orrori e tenebre che affliggono tanta parte dell’umanità. Gli studi e l’esperienza in ambito finanziario lo rendono conscio dei disastri dell’economia di mercato nei Paesi in via di sviluppo. Vede e raccoglie la sofferenza di tanti esseri umani per la guerra e per la fame, descrive la fatica del lavoro manuale e pesante (La mano dell’uomo. Workers, Contrasto, 2001) e la disperazione delle migrazioni, seguita e documentata viaggiando in 35 Paesi (The Children: Refugees and Migrants, Aperture, 2005 e la sua ristampa aggiornata Exodus, Taschen, 2021).
Racconta la progressiva distruzione dell’ambiente e del paesaggio nel nostro pianeta, ma un giorno avverte che mostrarla non gli basta più, decide di agire per cambiare qualcosa, dove e come può. E così, nel 1998, dopo la scomparsa dei genitori, insieme alla moglie Lélia Wanick, si attiva per restituire alla natura il grande appezzamento di terreno di loro proprietà, i 700 ettari di terra arida e disboscata della Fazenda Bulcão, ad Aimores, nello Stato di Minas Gerais. L’Instituto Terra, creato insieme a lei, ne agevola la trasformazione in riserva naturale e dà il via a una riforestazione che porta alla piantumazione di ben due milioni e mezzo di alberi di oltre 300 specie. Inevitabile pensare al racconto di Jean Giono L’uomo che piantava alberi, ma il progetto non è una favola: all’inizio era parso di ardua realizzabilità, invece centra tutti gli obiettivi immaginati, rinasce una foresta atlantica ricca di fauna e flora, di esemplare biodiversità. Salgado come Fitzcarraldo, il sogno di un visionario con i piedi saldamente piantati nella terra diventa una salvifica realtà.
“La riforestazione è solo uno dei modi per far girare al contrario le lancette del tempo. Gli alberi possono giocare un ruolo speciale per contrastare le emissioni di biossido di carbonio, responsabile del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici” spiegarono anni dopo Léila e Sebastião. Riforestare un angolo del mondo è stato un modo per agire, per andare oltre la mera denuncia del disastro ambientale in corso, un impegno che continua ancora adesso, con programmi di espansione della riserva e la piantumazione di altri milioni di alberi. “Per Lélia come per me, sarà sempre fondamentale condurre una vita che sia partecipe della propria epoca. Sarà sempre fondamentale restare attivi” (Dalla mia Terra alla Terra). Il do or die, usque ad finem, di Joseph Conrad, perché il modo più serio di affrontare la vita, e anche la morte, è agire in modo da dare un senso al nostro fuggevole passaggio sulla Terra. Avere uno scopo, e lasciare un segno, qualcosa che dia speranza. Sebastião Salgado c’è riuscito.

La mostra Ghiacciai, in esposizione al MART di Rovereto e al MUSE di Trento, è solo una scheggia del mondo di immagini realizzate nel corso di decenni, ma è un frammento di eclatante bellezza e di grande valore etico-ambientale. Avviene in coincidenza con l’Anno internazionale per la conservazione dei ghiacciai, promosso dalle Nazioni Unite per stimolare azioni concrete finalizzate a rallentarne lo scioglimento. Negli ultimi decenni i cambiamenti climatici ne hanno determinato la riduzione a una velocità che ha sorpreso e allarmato, non solo per la scomparsa di meraviglie della natura ma anche per le gravi conseguenze sulla vita animale e vegetale in ampie parti del pianeta, sulla salute e sulla sopravvivenza degli esseri umani che le abitano. La durata dei ghiacciai sembrava eterna, garantendo acqua e frescura alle pianure: adesso è possibile prevederne la fine non in centinaia di anni a venire, ma in decine, i ghiacciai europei potrebbero scomparire entro la fine del secolo. Molti cicli di raffreddamento e riscaldamento della Terra si sono susseguiti, ma nel corso di migliaia di anni, non di pochi decenni, non alla rapidità e intensità degli ultimi cinquant’anni. Nonostante il mondo scientifico sia unanime nell’evidenziare rischi e pericoli, è difficile scalfire i muri di una diffusa e arrogante ignoranza.

Le foto esposte a Rovereto e a Trento risalgono agli anni 2005-2009, alcune erano apparse nella mostra Genesi e nel libro omonimo, nonché nel film di Wenders, ma la gran maggioranza sono inedite. 54 sono visibili sino al prossimo 21 settembre presso il MART, appese a pareti dipinte di blu per espressa richiesta del fotografo brasiliano, 10 sono sospese nel grande spazio aperto su più piani del MUSE, e vi resteranno fino all’11 gennaio 2026.
Il catalogo le riproduce tutte con cura e qualità di stampa. Dispiace l’assenza di un testo che ne racconti la storia, che descriva il senso di Salgado per l’Antartide, per quei cieli e mari uniti da immensi iceberg, per il meraviglioso mondo animale che vive sui ghiacci. Le foto sono state scattate tra Patagonia (Campo de Hielo, con il ghiacciaio Perito Moreno) e Capo Horn, Mare di Weddell e isole Falkland, Georgia del Sud e Isole Sandwich Australi, ma anche in Canada. Il Campo de Hielo Sur, al confine più estremo tra Cile e Argentina, è per estensione la terza calotta glaciale del mondo dopo Antartide e Groenlandia, racchiude una cinquantina di ghiacciai. Mari mossi e cieli densi di nuvole, iceberg imponenti come fortezze di ghiaccio, corse gioiose di pinguini e voli di albatri, un condor solitario che sorvola il ghiacciaio Perito Moreno, in tutte le immagini un’epica estensione di spazi. “Mi piace fotografare in grande. Ci sono sempre molte informazioni nelle mie immagini. Per poterle includere devo dare spazio e per poter dare spazio devo avere profondità di campo” (Digital Camera, intervista a Sebastião Salgado, n° 183, novembre 2007).

Le foto sono precedute da un breve saggio di Elisa Palazzi sulla riduzione dei ghiacciai, utile come corollario, ma forse inadeguato a reggere da solo un catalogo con opere di questa grandezza estetica ed etica. Sarebbe stato bello riproporre il testo di Salgado intitolato Pianeta Sud, che apre Genesi; ne riporto qui un breve passaggio: “Questa regione delle Ande meridionali è talmente inaccessibile che a tutt’oggi è stata esplorata solo in parte. Ci spostavamo a piedi, dormivamo in tenda, nonostante le temperature inferiori allo zero, cullati dal brontolio costante dei ghiacci che si trascinavano dietro pietre e rocce”.
In una foto scattata nelle isole Sandwich Australi, tra le più impressionanti per forza visiva e coinvolgente inquietudine, si vede un albatros in volo radente tra onde e ghiacciaio. Tornano in mente i versi della Ballata del vecchio marinaio di Coleridge, with my crossbow / I shot the albatros,l’ingiusta e assurda uccisione che porta alla rovina il vascello e il suo equipaggio. Salgado è consapevole che è stato superato il punto di non ritorno – lo ha ripetuto più volte in tante in interviste –, per colpa del cinismo e dell’ignoranza degli uomini, ma vuole provare a farci aprire gli occhi sul meraviglioso mondo che stiamo perdendo, con l’unico strumento a sua disposizione, la macchina fotografica.
La forza e la magia delle sue immagini consentono di far vedere e far capire quello che gli studi scientifici non sempre riescono a trasmettere: l’ambiente del nostro pianeta è allo stremo, le sue bellezze e le sue risorse naturali si stanno esaurendo. All’intuizione e all’arte visiva non manca di aggiungere una lucida e documentata consapevolezza: “Il punto di non ritorno è già stato superato. La velocità della distruzione cresce in modo esponenziale. Il riscaldamento sta accelerando, intere aree diventano deserti, il mare sempre più caldo emana sempre più anidride carbonica” (Salgado, Corriere della sera, 23 maggio 2021).
Dopo aver ammirato pagina dopo pagina i suoi ghiacciai in viaggio tra mare e nuvole, penso alla frase dello scrittore francese Villiers de l’Isle-Adam che Leonardo Sciascia volle incisa sulla sua tomba a Racalmuto: “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”. E di un fotografo, di un uomo, come Sebastião Salgado.
In mostra al MART di Rovereto e al MUSE di Trento
In copertina, Tra l'Isola Bristol e l'Isola Bellingshausen, Isole Sandwich Australi, 2009. (C) Sebastiao Salgado, Contrasto.
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