Arte salvata alle Scuderie del Quirinale

28 Marzo 2023

Opere d’arte di valore inestimabile caricate su mezzi di ogni genere, spesso a mani nude e con imballi di fortuna; storici dell’arte che oltre a stilare elenchi di opere imprescindibili, perlustrano il territorio italiano in bicicletta o in bianchina e istruiscono i parroci su come costruire strutture di protezione contro il pericolo imminente; soprintendenti che si trasformano in esperti di logistica strategica individuando ricoveri e nascondigli e ideando percorsi, sviando ostacoli per salvare le opere delle quali si sentono responsabili sia dalla distruzione sia dalla confisca da parte dei nemici; direttori di musei che prelevano, trasportano e custodiscono personalmente, con mezzi e soluzioni ideati di volta in volta, i pezzi più importanti che sono stati loro affidati: tutto questo viene narrato nella mostra “Arte Liberata 1937-1943. Capolavori salvati dalla guerra” ancora per poco visitabile alle Scuderie del Quirinale (fino al 10 aprile). Tutte esperienze realmente vissute; protagonista un manipolo di persone, per lo più soprintendenti e funzionari dello Stato, che tra il 1939 e la fine della Seconda Guerra Mondiale operarono con forza di volontà, tenacia e inventiva straordinarie al fine di salvare il patrimonio artistico italiano gravemente minacciato dalla guerra. 

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I fatti si svolgono nel traumatico periodo intercorso tra il 1939 e il 1945, quando l’Italia di Mussolini entra in guerra e quel patrimonio è esposto a gravissime distruzioni per via dei bombardamenti, oltre che alle continue razzie dell’esercito tedesco, che si intensificano a partire dall’armistizio del 1943.

Le prime due sale della mostra narrano alcuni antecedenti che illuminano il contesto tramite l’abbinamento di due straordinarie opere con alcune fotografie e documenti d’epoca. I nazisti, su indicazione di Hitler e di Göring in particolare, orientano le proprie mire alle opere d’arte fin dall’epoca dell’asse Roma-Berlino del 1936. L’Italia fascista tende ad assecondare le loro avidità collezionistiche. In particolare, il progetto di Hitler era di edificare a Linz, in Austria, il Führermuseum: un grandioso museo disegnato da Albert Speer dove esporre migliaia di opere capaci di illustrare l’ideale di atemporale bellezza che il regime avrebbe ereditato dall’antichità classica; un modo per affermarne l’ascendenza antica e legittimare così la ambizione di potenza del Reich. La nascita di questo museo sarà per lui un’ossessione. Hitler ne prevede l’inaugurazione per il 1950, e continua a fantasticarne fino all’ultimo, addirittura fin nel bunker sotto la Cancelleria, dove il grande plastico è stato trasportato e allestito. In mostra una grande fotografia lo ritrae mentre osserva intensamente il modello.

Nelle prime sale della mostra due straordinarie opere sono dunque abbinate a fotografie e documenti d’epoca e alle relative narrazioni. 

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La prima opera esposta è il Discobolo Lancellotti, del cui esodo forzato dall’Italia si narra la vicenda. Il Discobolo era considerato un punto di riferimento dell’ideale ariano di bellezza virile, quindi dell’estetica nazista; estetica eloquentemente testimoniata dal documentario di Leni Rifenstal sulle Olimpiadi di Berlino nel 1936. Il Führer lo aveva visto di persona in occasione del viaggio di Stato nel maggio 1938 e aveva deciso di impossessarsene, probabilmente con l’idea di destinarlo poi al Führermuseum. All’esportazione dell’opera, notificata sin dal 1909, si oppone Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale, estremamente attento alla tutela del Patrimonio. 

Al contrario, Galeazzo Ciano, potente genero del duce e ministro degli Esteri, è poco sensibile ai valori culturali e incline a compiacere gli alleati tedeschi. Insieme a Filippo D’Assia, principe tedesco marito della figlia del re Vittorio Emanuele III Mafalda di Savoia, collocato da Hitler alla guida della commissione per l’acquisto delle opere d’arte italiane, Ciano ottiene che il principe Lancellotti venda il capolavoro. Il Discobolo finisce così provvisoriamente nella Glyptothek di Monaco di Baviera. 

La seconda opera presentata è il Cerbiatto di Ercolano, sottratto dal Museo archeologico di Napoli su istanza di Göring, con la complicità dell’antiquario fiorentino Eugenio Ventura. In cambio di sedici opere italiane di grande pregio tra cui il Cerbiatto stesso e due cassoni dello Scheggia, uno dei quali è in mostra, il gerarca nazista, nel marzo 1943, cede a Ventura opere di Renoir, Manet, Van Gogh, Cézanne e altri impressionisti derubate dal Commando nazista Reichsleiter Rosenberg nella Francia occupata. 

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In mostra, insieme all’opera, c’è una foto in cui il Cerbiatto compare di fianco a Hitler e Göring. Sullo sfondo si vede la foresta di Schorfheide. Siamo a Carinhall la tenuta da 100 mila acri che Göring orgogliosamente possiede. La scultura funge da ornamento da giardino. A Carinhall si tengono imponenti battute di caccia. Cronache e fotografie d’archivio riferiscono di massicci abbattimenti di cervi.

Le opere di cui Göring si approprierà a titolo personale sono numerosissime. Tra le altre ci sarà la Danae di Tiziano, che infatti risulta campeggiare nel 1944 nella sua camera da letto: un’opera che aveva fatto parte, con il tesoro di san Gennaro, e con molti tesori di Capodimonte, Ercolano, Pompei e del museo Archeologico nazionale di Napoli, di un gruppo di beni dell’area campana che il Soprintendente Bruno Molajoli aveva cercato di salvare, ricoverandoli prima nell’Abazia di Montecassino, poi a Spoleto, nel tentativo di salvare il tutto dai previsti bombardamenti alleati, che infatti a breve distruggeranno Montecassino. Purtroppo le casse erano state però intercettate e dirottate per una selezione destinata alla collezione di Göring.

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E questo è il tema vero e proprio della mostra; che dopo aver fatto accenno alla brama d’arte del nazismo, si concentra sugli sforzi di una serie di figure, per lo più alti funzionari dello Stato, che con un senso di responsabilità da amministratori pubblici e la passione da intellettuali e studiosi si adoperarono strenuamente per salvare il patrimonio italiano dalla guerra, dai bombardamenti, delle devastazioni, dalle requisizioni. Con spirito d’iniziativa e pragmatismo, in dialogo con l’amministrazione statale centrale, essi agirono dapprima sotto la direzione di Bottai, fascista ma anche intellettuale – di questa figura basti dire che sua è la legge 1041 del 6 luglio 1940 che ancora oggi è alla base del sistema della salvaguardia, dei vincoli, della protezione delle opere d’arte in Italia – che in vista di possibili bombardamenti aveva organizzato piani di protezione antiaerea per i monumenti all’aperto e una accurata strategia di trasferimento e messa in sicurezza dei tesori dei musei; poi, soprattutto dopo l’8 settembre, di fronte a un’urgenza sempre più stringente, basandosi soprattutto sull’iniziativa individuale, sebbene quasi sempre concertata con gli altri in uno straordinario sforzo corale. 

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Il riferimento è a figure come Pasquale Rotondi, allora trentenne, Soprintendente nelle Marche, uomo coltissimo, studioso e allo stesso tempo pragmatico, che salvò quasi diecimila opere d’arte. Incaricato, alla fine del 1939, di raggruppare beni provenienti da ogni parte del territorio nazionale in un grande ricovero da predisporsi a Urbino, egli si rende però conto che sotto la collina di Urbino era stato scavato un tunnel per un arsenale dell’aeronautica. Di fronte all’altissimo rischio Rotondi ripiega sulla rocca ubaldinesca di Sassocorvaro. Nel frattempo svuota Palazzo Ducale dalle sue opere, e percorre il territorio marchigiano con qualche camioncino per mettere in salvo il patrimonio delle chiese e dei musei civici marchigiani. Un lavoro immenso, lo definisce giustamente nel saggio in catalogo Luigi Gallo. 

Nelle vicende del periodo i colpi di scena non mancano. Tanto più che man mano che la linea nemica avanza, le opere dovranno essere spostate, con mezzi e risorse in progressiva diminuzione e rischi sempre più alti. Per esempio, tornando a Rotondi, nel 1943 le truppe tedesche salgono fino a Carpegna, dove in quel momento sono custoditi, tra l’altro, i Caravaggio romani di San Luigi dei Francesi e di Santa Maria del Popolo, le opere del Castello Sforzesco e di Brera, e dipinti da musei e da chiese di Venezia, compreso il tesoro di San Marco. Chiedono di verificare le casse. Per un caso la cassa che viene aperta non contiene opere, ma “solo carta” che non risulta interessante, sebbene in realtà si tratti degli spartiti musicali di Gioachino Rossini. Le casse sono salve – e se in mostra è possibile vedere la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca e altri capolavori come quelli di Signorelli e Barocci, è anche grazie a questo episodio. Dopo una lunga trattativa, possono ripartire. Verranno portate provvisoriamente a Urbino, nei sotterranei di Palazzo Ducale. Da lì, nel gennaio 1944, dovranno ripartire a fari spenti nella notte, dirette verso la Città del Vaticano, che tra il 1943 e il 1944 darà ricovero a 900 preziosissime casse. Questa volta alla guida dei convogli c’è Emilio Lavagnino, funzionario a riposo della Soprintendenza di Roma. 

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A molte altre di queste vicende la mostra fa riferimento, senza alcuna spettacolarizzazione. Non aneddoti, ma momenti cruciali di una storia vissuta. Come quando, in mancanza di alternative e con i tedeschi alle porte, la Tempesta di Giorgione e il San Giorgio di Mantegna provenienti dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia vengono nascoste in casa, nel chiuso di una stanza, sotto un letto presidiato dalla moglie di Rotondi, stesa da un malessere d’occasione. 

Numerose, in questa storia di resistenza, le protagoniste femminili.

Una è Palma Bucarelli, già ispettrice della Galleria Borghese a soli 23 anni, e poi anima della Galleria Nazionale d’Arte Moderna che, da sola, alla guida di una Fiat Topolino o di camioncini trovati per l’occasione, porta le opere della Galleria d’Arte Moderna nel ricovero di Palazzo Farnese di Caprarola; per poi tornare personalmente a recuperarle a pericolo scampato. Un’altra è la dinamicissima Fernanda Wittgens, che da Milano coordina con tempra il trasferimento da Brera nell’Italia centrale.

“Sarebbe troppo bello essere intellettuale in tempi pacifici, e diventare codardi, o anche semplicemente neutri, quando c’è un pericolo” dichiara lei. Nel 1944 viene anche arrestata come antifascista e per i suoi rapporti col mondo culturale ebraico. Non da meno l’inflessibile Jole Bovio Marconi. Archeologa, direttrice del Museo nazionale di Palermo e poi Soprintendente di Palermo e Trapani, tra il 1939 e il 1943, Bovio Marconi riesce a organizzare il trasporto da Palermo di 220 casse di beni e di 135 gabbie. Infine, ad onta della mancanza di risorse e di ogni mezzo tecnico – mezzi a lungo, ma inutilmente, reclamati – riesce a far trasportare dal Museo nazionale all’Abbazia di San Martino delle Scale le Metope di Selinunte – una per ogni viaggio perché troppo grandi e pesanti –, i mosaici romani di Palermo, le magnifiche grondaie leonine del Tempio della Vittoria di Himera. Tutto questo entro il 3 aprile 1943: appena in tempo, perché il 5 aprile un bombardamento alleato si abbatte sul Museo danneggiandolo gravemente. 

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Peraltro durante i bombardamenti Jole Bovio Marconi rimane nei suoi uffici, affronta il rischio, evita che nella confusione si generino saccheggi, fa riparare i danni per quanto possibile, rincuora il personale. Infine sarà lei a collaborare da subito con i Monuments men alleati sbarcati in Sicilia per contribuire al recupero e al ripristino dei beni artistici italiani, e, nel mentre, a operare affinché i lavori di ricostruzione del museo avvengano in tempi brevi; con esiti quali il bellissimo allestimento di Palazzo Abatellis da parte di Carlo Scarpa. 

Carolina Italiano nel saggio in catalogo ne descrive la tempra e l’inflessibile determinazione a proteggere il patrimonio pubblico, rivendicando nello stesso tempo i meriti delle donne socialmente attive, sempre troppo poco riconosciuti. 

Moltissimo ancora emerge da questa mostra: dalle figure degli antiquari collaborazionisti a quelle dei Monuments men, dalla questione del patrimonio librario alle vicende legate alla restituzione delle opere che erano partite per altri paesi. Ma soprattutto dal caleidoscopio di opere, fotografie, documenti, filmati emergono la passione, l’energia e le capacità di persone che nell’emergenza hanno saputo dare il meglio di sé; che hanno operato spinti dalla consapevolezza del valore di ciò che era capitato loro in sorte di dover proteggere; e che poi rientrarono nei ruoli ordinari, continuando a svolgere i propri compiti di tutela e di valorizzazione del patrimonio artistico senza accampare pretese rispetto a quanto compiuto. 

Photo credit Alberto Novelli.

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