La vulnerabilità di Jimmie Durham a Napoli

24 Febbraio 2023

Per Jimmie Durham l’arte, come la poesia, come la musica, non si presta all’esegesi. Si tratta piuttosto di un modo di comprendere ed esprimere la realtà nel suo complesso, al di là delle analisi, della frammentazione. E infatti il suo lavoro consiste in larga parte nello sfidare le separazioni, a partire da quella tra l’essere umano e il resto del mondo.

In questo senso possono essere lette le sue opere, generate da ciò che lui stesso definiva combinazioni illegali tra elementi appartenenti ai diversi regni del creato. I suoi intrecci, infinitamente variabili, tra materiali eterogenei e apparentemente incongrui, equivalgono a un’indagine in profondità alla ricerca delle radici comuni di ciò che esiste. In questo senso possono essere lette le parole “Humanity is not a completed project”: una frase sintetica e radicale, come lo è stata ogni sua espressione, oggi adottata come titolo dell’ampissima mostra personale dedicatagli dal Museo Madre di Napoli che, insieme alla Fondazione Morra Greco, lo ricorda a un anno dalla morte. Come asserisce la curatrice Kathryn Weir, “attraverso la sua profonda sensibilità per i materiali e il linguaggio, l'incessante messa in discussione dei principi primi e le strategie sviluppate di assemblaggio poetico e di articolazione spaziale”, Durham “ha dedicato la sua pratica alla decodifica critica delle immagini e dei simboli naturalizzati che sono alla base dei sistemi culturali dominanti”.  

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Gli incontri imprevedibili che sostanziano il suo lavoro riguardano sovente oggetti trovati, scartati, ridotti a “rifiuti” in quanto giunti apparentemente al limite estremo della loro possibilità di utilizzo; materiali che normalmente sfuggono all’attenzione o risultano troppo al di sotto di ogni valutazione per essere classificati. Coerente con l’intento che impregna tutta la sua opera, quello di illuminare il valore di ogni singola cosa, spinto da una sorta di riguardo per i margini, per il rimosso della società e attratto sempre dalle energie e dalle potenzialità latenti delle cose e delle persone, Durham evidenzia la dignità di questi materiali, presentandoli non solo come depositi di storie capaci di dirci chi siamo, ma come entità a cui ci accomuna proprio la caducità. 

È così, accogliendo in forma poetica l’idea di vulnerabilità, che Durham, tra le maggiori personalità artistiche degli ultimi decenni, opera, nell’arco di tutto il suo percorso, un ininterrotto processo di revisione antigerarchica e di critica nei confronti delle certezze dell’uomo occidentale; un processo che investe ogni ambito del pensiero, ogni piano dell’esistenza individuale e collettiva, fino a fenomeni di ampia scala attinenti tematiche geopolitiche. In questo suo percorso rientra la rilettura del passato coloniale europeo, da lui interpretata come un’urgenza.  

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Del resto l’esistenza di Durham è sempre stata all’insegna dell’impegno. Un impegno portato avanti con lucidità, rigore, fermezza, schivando ogni legnosità didattica in nome di un profondo senso di empatia e di un grande umorismo, usato sempre in chiave demistificante. 

Intellettuale, attivo come poeta prima ancora che come artista visivo, la sua prima mostra personale è del 1965. Cherokee di origine, nel 1969 dagli Stati Uniti, dove è nato, si trasferisce a Ginevra dove studia scultura e performance all’École nationale supérieure des beaux-arts; per poi tornare negli U.S.A.nel 1973, lasciarsi coinvolgere nell’American Indian Movement e diventare il primo rappresentante di una minoranza presso le Nazioni Unite.

Nel 1987 però, deluso da un lato dal malinteso di un’identità concepita in termini restrittivi, dall’altro dalle inaccettabili politiche governative riguardanti il movimento Indiano, insieme all’inseparabile compagna, l’artista Maria Thereza Alves, Durham abbandona di nuovo gli U.S.A., questa volta definitivamente. Si trasferisce dapprima a Cuernavaca, in Messico, dove resta fino al ritorno in Europa nel 1994. Qui, dopo aver vissuto in paesi diversi, finisce per stabilirsi tra Napoli e Berlino. Nel 2019 la Biennale di Venezia gli conferisce il Leone d’Oro alla Carriera. Lui accoglie il riconoscimento nello stesso modo in cui ne aveva accolti altri: cantando; perché, come l’arte, anche la gioia non si presta alla didascalia e alla parafrasi.

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A Napoli questa storia è narrata non solo dalla grande retrospettiva del Madre, ma dalla Fondazione Morra Greco che gli rende omaggio attraverso una sorta di mostra – ritratto: alcune opere, ma soprattutto oggetti, grafiche, fotografie, tappeti, video, scritti, poesie e documenti, e i frammenti della sua libreria con testi di John Berger, Frans de Waal, Paul Gilroy, Hobsbawm, Paulo Freire. 

In entrambe le mostre a trasparire è l’idea di restituire alle cose dignità e la possibilità di presentarsi nella propria essenza e integrità; di decostruire, attraverso l’arte, le sovrastrutture che le circondano, e con esse i concetti cardine della civiltà del consumo. C’è inoltre la volontà di scardinare ogni retorica, ogni atteggiamento assertivo, di mettere in discussione il senso di stabilità che rende l’individuo perentorio e lo sottrae al dubbio imbrigliandone l’attitudine critica. 

Da qui, per esempio, la sua critica nei confronti dell’architettura, soprattutto nella sua accezione monumentale e celebrativa. Dell’architettura vanno invece recuperati il corpo e i materiali, e gli aspetti legati al lavoro, al fare, al costruire; ciò che è normalmente invisibile, che sta sotto il rivestimento, che precede la rifinitura delle superfici; le “interiora”, insomma, e il rimosso. Per estensione, l’artista affronta così la questione di ciò a cui si dà spazio o ciò che si cela; di ciò che si dice o si omette; ed esprime un rifiuto per la simulazione e per gli effetti speciali, evocando la possibilità di sottrarsi all’infingimento e alla messinscena.

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Se le sue sculture e le sue installazioni, ma anche i video, i disegni, i testi, le fotografie, equivalgono dunque a commenti sulla natura degli oggetti e sull’importanza di ogni entità, vivente o inanimata, fino alla più trascurata, ben si spiega la sua predilezione per le relazioni che vanno oltre l’umano. Quelle con le pietre: modeste, sottovalutate, in realtà onnipresenti e fondamentali, per esempio come utensili primari. Durham le studia nelle loro tipologie, esponendole a vario titolo; e ne sperimenta ogni utilizzo, fino al punto di calare grandi massi su un’Ape Piaggio, su un’automobile o addirittura su un aereo da turismo. Ma non c’è mai veemenza in questi gesti; c’è piuttosto gusto della sperimentazione, e l’intento di verificare il risultato, di saggiare, con grande ironia, le forze delle une, le possibilità di resistenza degli altri, gli esiti dell’interazione; la constatazione della cedevolezza dei mezzi umani; e la curiosità per le nuove forme che si vengono a formare.  

Mosso dai medesimi intenti Durham si è spesso avvicinato anche agli animali; attraverso la cui rappresentazione si è voluto esprimere sull’assurdità di ogni forma di presunzione umana. Basti pensare alla serie scultorea dei mammiferi più grandi d’Europa:

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ogni scultura nasce dalla combinazione del cranio di un animale con un corpo fatto di pezzi di vecchi mobili, vestiti usati e altri elementi di origine industriale. Così, con un atteggiamento che oscilla tra poesia e paradosso, di questi abitanti del continente, decisamente sottorappresentati, Durham evidenzia l’imponente bellezza. E va da sé il legame diretto che esiste tra queste riflessioni e quelle riguardanti le tante, impotenti minoranze nel mondo odierno.

Museo Madre, Napoli - Humanity is not a completed project, a cura di Kathryn Weir. Fino al 10.04.2023
Fondazione Morra Greco, Napoli - Jimmie Durham: And now, so far in the future That no one will recognize Any of my jokes, a cura di Salvatore Lacagnina. Fino al 10.04.2023

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