Cesena / Paesi e città

22 Febbraio 2012

Il quartiere Fiorita è nato nel dopoguerra col piano Fanfani. L’I.N.A. casa e l’I.A.C.P. hanno individuato in quel terreno, delimitato dalla ferrovia e dal parco dell’ospedale Bufalini, l’area per dare la casa alle famiglie bisognose. Un gran mal di testa viene al capofamiglia quando alla fine del mese l’esattore suona per l’affitto. È una miseria, ma quando bussa a casa del disoccupato anche pochi soldi divengono molti soldi.

 

 

Sono condomini disegnati dalla matita d’architetti ministeriali preoccupati di fare bella figura con la loro comunità. Belle facciate, balconi rientrati, superfici di mattoni a vista, muretti col colmo in ghiaietta colorata, strade abbastanza larghe, marciapiedi col ciottolato, cortili ampi, una lavanderia comune nel seminterrato. Trilocali e bilocali hanno stanze ben distribuite, utili dispense in cucina e l’anti-bagno è abbastanza grande per un piccolo armadio. Gli architetti hanno suddiviso lo spazio domestico credendo nell’unione d’utilità e povertà. Un quartiere nato per darlo in affitto a gente che ogni giorno conta i soldi prima di andare a fare la spesa.

 

 

Quel quartiere, nato per accontentare i poveri, ha anche molti problemi: per esempio, i ragazzi del quartiere. Bevono fin dalla mattina, tentano la carriera del pugile, con la moto vanno a sbattere contro un camion, affogano nel fiume, bucano un amico per questione di soldi. Sono disadattati, caratteriali, asociali. Non li prendono mai per fare il soldato. Parlano disordinato risparmiando sulle lettere. Difficile capire quello che raccontano. Gli manca mezzo alfabeto. Più o meno hanno tutti un retaggio famigliare che non perdona: nonni libidinosi, mamme ubriache, padri spariti. Eppure non sono mai in crisi, proprio non sanno cos’è il pessimismo esistenziale. Mai una volta con l’occhio depresso e la stima sotto i piedi. Sono dei devastati privi di sfumature. Di notte dormono senza fatica, parlano a stento e non ragionano mai. Chiamano le ragazze puttane, i padri coglioni, le mamme stronze, le sorelle succhiacazzi, gli amici finocchi. Sprigionano baldoria oscena ed energia violenta. Non sono mai in letargo, non avviano mai la loro decomposizione. D’estate stuprano al mare le straniere; d’inverno picchiano i finocchi. Da piccoli si sono dati da fare tagliando le lucertole con la lametta. Il più rovinato di tutti ancora oggi seppellisce vivi i gattini. Sono stati guastati nell’intimo e adesso ricambiano la cortesia. Ma non si lamentano mai del soldato marocchino che li ha stuprati da piccoli mettendoli faccia a terra. I più limitati entrano in galera. Chi non si vuole sporcare la fedina fa l’imbianchino e picchia la moglie ragazzina davanti al figlio piccolo. Non hanno mai conosciuto il miracolo vuoto dell’infanzia. Sono nati vecchi; per questo non sorridono mai, ti guardano da lontano e non si fanno avvicinare. Sono aggressivi e impermeabili. Da grandi odiano la donna che scopano e mortificano la donna che amano. Mettono su famiglia per rovinarla; fanno figli per incrudelire sul loro bisogno d’affetto. Cacciano di casa il figlio adolescente un poco femmina e intanto si prendono la verginità della figlia. Nelle loro case le liti scoppiano improvvise alla stessa ora. Di mattina dovrebbero fare un aerosol di neurolettici, di sera una camomilla di benzodiazepine. Di notte la moglie dovrebbe versare nella loro bocca spalancata un litro di candeggina. Morirebbero sturandosi il viluppo d’ira che hanno in petto. Ci sarebbe più quiete nel quartiere.

 

 

Tutto il quartiere la sera va al bar-latteria di Basilio. Anche chi lavora come saldatore e aspetta di passare alla qualifica di operaio specializzato va al bar. Anche i pensionati tornati dalle fonderie della Germania e quelli tornati dalle miniere del Belgio ci vanno. Ognuno con i polmoni bruciati, il respiro ansimante e un’aspettativa di vita inferiore alla media. Anche le ragazzine sveglie ci passano la sera con i loro ragazzi; tutti a bere gassose e altre cose dolciastre. Anche i due ruffiani del quartiere un salto lo fanno per bere un bianco Sarti. Uno è praticamente un nano e ha la fama di duro. Ha cominciato quando è scoppiata la moda delle bande giovanili, sì, quelle lanciate dai film Gioventù bruciata e Il selvaggio. Il magnifico Dean e il magnifico Marlon meriterebbero una statua in ogni piazzetta dei quartieri di periferia.

 

 

Ci sono anche i bravi ragazzi. Si alzano alle sei del mattino e sgobbano fino alle diciotto. Ogni giorno prendono calci nel culo dall’artigiano se hanno sbagliato la saldatura o rotto un utensile. Fra quelli del bar sono i peggio vestiti e i meno allegri. Forse ci sono nati con la vocazione del lavoro mal pagato, per remissività o senso del dovere; forse non sanno cosa farsene di un giorno passato a non far niente, forse non vogliono bere una Peroni con i soldi passati dalla mamma. I ragazzi cattivi li guardano con sospetto. Nella scala sociale di quel bar ci sono quelli che non vogliono lavorare, quelli che lavorano sodo e quelli che non trovano lavoro. Ancora più sotto stanno gli studenti di ragioneria, vestiti da schifo.

 

 

Il quartiere ha un Centro sociale. Nel Centro ascolti per interi pomeriggi i Rolling Stones e giochi a ping-pong. Ogni domenica pomeriggio si balla. Le festicciole più lesse del quartiere si fanno al Centro. I ladri del bar non ci vengono perché le ragazze non sono smaliziate. E nessuna ha le gambe diritte.

 

Ogni tanto l’Assistente sociale organizza una conferenza per educare il quartiere ai valori della società civile. Le conferenze si fanno nella grande sala: pavimento di linoleum verde, ampie vetrate senza tende e un opulento concetto di spazio.

 

 

Ogni conferenza porta in periferia un sapiente ben vestito. Ha la livrea del medico, dello psicologo, del professore di filosofia. Nessuno di questi benvestiti sembra prevedere che un giorno tramonteranno, schiantati da un infarto, da un cancro al pancreas, da un incidente d’auto. Gareggiano una corsa a ostacoli dove loro hanno scelto l’altezza delle barriere. Sono partiti col piede giusto fin dalla prima poppata. Un’infanzia serena, un’adolescenza vezzeggiata, una giovinezza curiosa, studi universitari scrupolosi e famiglie comprensive.

 

Dicono che dopo un rapporto sessuale dobbiamo lavarci col sapone, che la società nel suo insieme ha bisogno uno dell’altro, che Socrate è morto per l’ideale della verità e che un uomo senza ideali non è un uomo. Non dicono cose stupide, ma ogni cosa che dicono nasconde una bassa insinuazione. Non perdete l’occasione d’imparare qualcosa, puzzolente gentaglia.

 

 

Per tutto il tempo della manfrina, l’assistente sociale sorride beata, come se dal cielo un raggio divino benedicesse la sua opera di bene. Alla fine del discorso, i ragazzi applaudono frenetici per sfottere l’attore della serata che davanti a tanto calore gestualizza compunta ritrosia. Mai una superdonna a raccontarci qualcosa di profondo, tanto per valutarne le curve. L’assistente sociale è bassa al garrese, cotonata come una zia, piuttosto brutta e nessun particolare che possa piacere a un morto di fame. Ha perfino la voce stridula e ogni volta che ammonisce i ragazzi inquieti la bocca emana l’alito del puro odio cattolico. È una donna piuttosto arida, nonostante sia sposata e abbia un figlio. Dice di lavorare con passione, ma niente illumina quel volto piatto. L’hanno spedita al quartiere Fiorita per togliere ai suoi abitanti le loro abitudini primitive. Siamo l’Africa e lei è la missionaria col compito di educare gli indigeni ai principi della buona educazione. La missionaria ci prova con le conferenze a modellare il cervello del quartiere. Il Centro sociale è l’avamposto della civiltà nel cuore dell’Africa nera.

 

 

Quando dal cielo arriva una nuvolaglia, il quartiere sembra trattenere il respiro. Persiane spalancate, panni stesi, fiori ai balconi che scendono sul parapetto. Sono ore di silenzio assoluto. La sarta del quartiere sta affacciata al balcone con le dita intrecciate.

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