Mantova / Paesi e città

15 Settembre 2011

I romantici la elessero tra le città preferite e “vi trovarono lo stimolo a immaginare intrecci, retroscena, intrighi. I decadenti vi cercarono il disfacimento. Uno dei luoghi poetici della città, sono le logge del Palazzo Ducale da cui si contempla il lago d’acque stagnanti derivante dal Mincio. Servì come sfondo alla Morte della Vergine di Andrea Mantegna che si vede al museo del Prado. Così ha scritto Piovene, nel suo Viaggio in Italia, e aggiunge: “la fantasia può partire di qui”, per rievocare una lunga storia che il visitatore di oggi può ritrovare scolpita nelle strade e nei palazzi del centro storico.

 

Un turista distratto che attraversi Mantova, può restare tuttavia inconsapevole delle bellezze che racchiude. I servizi turistici non sono adatti ad accontentare una massa enorme di visitatori; le bellezze naturali e il cibo buoni, gli odori e i profumi spesso crudi (cruda è proprio l’aggettivo che usa Dante quando parla di Manto, fondatrice leggendaria della città) improntati alla natura agricola e schiva della città, favoriscono il perdersi in un pasto abbondante, da concludere con uno sguardo stanco e fugace alle stanze di Palazzo Ducale e Palazzo del Te. Le città vicine offrono più distrazioni e vita notturna, luci, fasti e concerti. Un festival di voci cui Mantova, chiamata da molti la “bella addormentata”, non si decide ancora (e per fortuna) a dare udienza. Fanno eccezione i pochi giorni in cui grumi di lettori voraci si avvicinano alla città per il suo Festivaletteratura e soprattutto per incontrare nelle vie e nelle piazze i loro beniamini della carta stampata e, così, respirare un po’ di parole sognanti sul futuro e sul presente.

 

A parte questa festosa parentesi, e qualche rara eccezione mangereccia (che offre salumi e salami, primi piatti e dolci in piazza, come se la nostra cultura fosse tutta nel cibo genuino!), ecco apparire, con le ombre del tramonto, il silenzio e il deserto delle strade, protagonisti della vita serale e notturna dei mesi che vanno dall’autunno inoltrato alla primavera, quando nebbie e umidità coprono, quasi a proteggerli, i luoghi più fulgidi della storia e della memoria urbana. Le automobili del giorno sono ormai lontane, in coda in quelle contrade della periferia che animano i comuni dei dintorni e che, da anni, taluni intellettuali e politici chiamano spesso, con un’espressione infelice, “grande Mantova”; come se la città medievale non fosse di per sé grande, per i tesori che racchiude e custodisce.

 

I bar, eredi delle vecchie osterie, e i pochi ristoranti, figli non sempre legittimi delle antiche trattorie, si svuotano e la città si concede ai pochi passanti che abitano il centro. La città vera non è quella dei negozi e dei commerci (una infilata di sigle che si leggono ormai ovunque nelle contrade del mondo); nemmeno quella artificiale dei turisti in fila indiana che seguono diligenti guide che, raccontano di storia e arte, sbarcando il lunario o rispondendo a un’autentica passione. Vestali preziose che, tuttavia, non sempre riescono a trasmettere quanto vera sia questa città perché piccola, poco servizievole, non troppo ospitale (per i fiumi di giapponesi o i grovigli di americani – ma altrettanto si potrebbe dire per gli italiani d’altre città e regioni, europei, australiani ecc.) e tutta da camminare e studiare nei particolari, negli angoli, per intonaci e sassi, quadri e gioielli, architetture e palazzi, porte e finestre, inferriate e camini, tetti e torri, meandri bui e segrete, sale luminose e cantine, chiese e campanili, cortili e piazze, piante, fiori e acqua (quella dei laghi paludosi che la circondano o del rio melmoso che l’attraversa, che, in fotografia, e solo nelle cartoline, fanno venire la voglia di pensare a una ipotetica vocazione da stazione balneare).

 

Certo, il silenzio e il deserto inquietano, come la chiesa di Sant’Andrea, monumento unico nel suo genere, che allo sguardo odierno mostra le smisurate ambizioni del committente e la forza inventiva dell’Alberti. Ma come fare a scorgere altrimenti, la casa del mercante Giovanni Boniforte, uno degli ultimi esempi di architettura tardo-gotica della città? Come fare a comprendere la complessa rete di strati di storia e memoria urbana che si mostra in uno spazio così circoscritto? Dai resti del nucleo urbano che occupavano l’attuale piazza Sordello, modesto agglomerato di case che si arricchì sotto il governo della contessa Matilde di Canossa e di cui rimane traccia con la magnifica Rotonda di San Lorenzo (probabilmente del 1082); ai palazzi del periodo comunale, caratterizzato come in molte altre città d’Italia, da lotte e violenze tra le ricche famiglie e da una forte espansione urbana. Dall’avvento al potere dei Bonacolsi (4 luglio 1272), fino alla lunga e (terribile quanto) ricca di iniziative artistiche, architettoniche e letterarie, dinastia dei Gonzaga, dalla cui preziosa e unica “galeria”, oggi, si ipotizza, abbia avuto inizio lo spirito museale dell’occidente intero.

 

A parte Virgilio (del dantesco “Mantua me genuit”), i cui natali sono da tempo immemore contesi periodicamente da comuni (e sindaci) diversi e lontani, e la cui statua campeggia altera nel grande giardino che da lui prende nome, poco lontano dal “Lago di mezzo”; i nomi che hanno trascorso notti e stagioni tra le mura ospitali o infide dei signori di Mantova lasciano senza fiato anche lo storico dell’arte o della letteratura più attrezzato: Leon Battista Alberti, Luca Fancelli, Vittorino da Feltre, Filippo Juvara, Giulio Romano, Andrea Mantegna, Baldassarre Castiglioni, Pisanello, Lorenzo Leonbruno, Tintoretto, Fetti, Correggio, Tiziano, Rubens, van Dyck e altri ancora la cui memoria è scolpita nella grande reggia che, per brevità, chiamiamo Palazzo Ducale e nel Palazzo del Te, oltre che nelle chiese e nei molti palazzi (di pubblica proprietà o abitazione di privati) che si affacciano su piazze, vicoli e vie del centro.

La meraviglia, la sorpresa è proprio in questa Mantova “teatrale”: una città che si nasconde dentro la città e che soltanto con il silenzio dei vivi può farsi cogliere nell’intimo. Non è un caso se proprio uno sguardo inabituale come quello di una macchina fotografica appostata tra le nuvole, riesce a stanare quel genius loci che si nasconde ai più.

 

Ma anche i sapori e gliodori di Mantova ambiscono a farne una città importante (si pensi a Parigi o a Venezia per citare due esempi di memoria olfattiva forte). Le città oggi sanno di benzine bruciate, smog e patatine fritte; si confondono tra loro e ci spingono a riscoprire l’agreste, il biologico, l’agriturismo alla ricerca di un’aria nuova, in fuga dalle case, dai rumori e spesso da noi stessi.

In parte è così anche per Mantova, seppure limitatamente alla sua piccola dimensione (poco meno di cinquanta mila abitanti); ma se si allerta l’olfatto, ecco farsi strada l’odore di fieno, alternato a un denso e acquoso sentore di terra umida e ferruginosa. La terra è grassa, mai arida, e l’acqua si insinua sotto le case e i palazzi, spesso edificati su palafitte, ricordo lontano della città isola, circondata da paludi lacustri, strappate in parte, nel dopoguerra, alle onde del Mincio e di altri canali e trasformate in quartieri.

Da qui il riso (vialone nano) e il pane (Mantova è tra le regine della Pianura Padana e i suoi campi sono distese di farina e cereali); le carni (il maiale soprattutto)e taluni frutti della natura come zucca e melone, per non dimenticare i formaggi. E se il vino non regge alla fama della città e del suo cibo semplice e buono, si può certo parlare di una tradizione antica in fatto di dolci poveri e di primi piatti appetitosi.

 

Lo spazio urbano, infine, è a misura di gambe. Tutto, dal centro al confine storico segnato dal Palazzo del Te e dai suoi giardini, si contiene nel breve incanto di venti minuti di cammino. Quanto basta per andare dal Ducale alla Rotonda, e ritorno, o da Sant’Andrea alla Casa del Mantegna o, ancora, da Piazza Virgiliana a Palazzo d’Arco. E se si percorre la riva dei laghi, verso il parco Belfiore, dedicato ai Martiri del Risorgimento, o verso la Società Canottieri Mincio, o ancora in direzione della casa chiamata di Sparafucile (in onore a Verdi che ambientò il Rigoletto proprio a Mantova) non si tradirà la distanza dei venti minuti a piedi e in buona compagnia. Farà allora capolino tra le strade e le piazze di nuova costruzione, sotto i portici e nelle corti appartate, la città operosa degli artigiani e dei commercianti di quartiere, delle tante e innumerevoli professioni del terziario che denunciano la tarda modernità di un luogo e di una comunità che, pur aspirando e in parte riuscendo a essere post-moderna (nel bene come nel male), denuncia pur sempre le sue origini contadine e paesane: fatte in prevalenza di simpatia, cordialità, velate spesso, ma non per il turista di passaggio, da una buona dose di invidia e di impazienza.

 

 Non si dimentichi tuttavia la frase che da bambini sentivamo pronunciare spesso dai nonni, quando si incontrava per strada un conoscente o un forestiero: “lo salutiamo nonno?” e la risposta decisa, per lo più in dialetto “si potrebbe, sarebbe educazione… ma lascia perdere, non si sa mai che ti chieda qualcosa”, dove il qualcosa non era certo una informazione ma piuttosto un favore o un prestito. Mantova è anche così, a dispetto della sua classe dirigente che la vuole “moderna e competitiva”; ancora un po’ contadina e intrigante, ferma e sospettosa, ma insieme simpatica e accogliente. E proprio ora se ne accorgono bene quei tanti migranti (che vengono dall’Est o dalle terre africane del mediterraneo, dalla Cina o dal Pakistan) che affollano, al posto dei vecchi pensionati di un tempo, molte delle sue strade e piazze. 

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