Massimo Zamboni: grazie Sorella sconfitta
Esce il nuovo libro di Massimo Zamboni e viene naturale chiedersi se non stiamo sottovalutando uno scrittore. Forse succede perché la sua più fortunata carriera di musicista ha spinto lettori e critica a considerare la letteratura, per lui, una specie di occupazione secondaria o una sorta di hobby intellettuale: ma, dopo venticinque anni e undici libri, è onesto valutare il lavoro di scrittore di Zamboni da un punto di vista specifico. La sottovalutazione nasce forse anche da una naturale sobrietà della persona, da un modo di presentarsi schivo e umile lontano mille miglia dalle fiammeggianti provocazioni rock dei CCCP e dei CSI: anche se gli album da solista possono offrire una specie di ingresso secondario, più personale e significativo, a un mondo intellettuale dai principi e dai riferimenti ben riconoscibili. Il più evidente dei quali, per aperta ammissione, appare quello di Pier Paolo Pasolini. Insomma, Massimo Zamboni è un autore a tutti gli effetti e Pregate per Ea non fa che confermarlo.
Zamboni è innanzitutto testimone di un mondo, quello della regione in cui abita. Anche se “regione” è un termine fin troppo ampio, ed è preferibile quello di “territorio”. Un territorio che spesso si restringe alla parte appenninica di Reggio Emilia, con un interesse che nel corso del tempo ha mostrato un processo di avvicinamento simile a quello di uno zoom cinematografico. Il romanzo d’esordio, Emilia parabolica. Qua una volta era tutto mare (2002) proponeva una specie di ripresa in cinemascope, forse influenzata dall’inevitabile ambizione dell’opera prima di voler dire tutto in grande. Ma progressivamente la scena si è ristretta a storie locali, talvolta familiari, fino ad approdare, in quest’ultimo lavoro, a una sorta di ingrandimento al microscopio della sibillina scritta incisa su una pietra spersa in un bosco. Poche parole scalpellate nel lontano 1870 ricordano ai passanti (che immaginiamo non molti…) la morte violenta di una certa Domenica Gebennini. Da questa trascurabile traccia Zamboni parte per un’indagine dentro gli archivi e nella memoria dei contemporanei per ricostruire una vicenda corale di vita contadina che porta dentro di sé poco di folcloristico e molto di dostoevskiano. Anzi, se per convenzione si dice che durante un’investigazione “si fa luce” su un delitto, non è certo questo l’obiettivo del libro, anche se ci sarà un processo e una sentenza: come scrive l’autore, le radici di questa storia allignano, concrete ma invisibili, sottoterra: “perché le radici hanno bisogno di oscurità per prosperare”. Zamboni, che si riconosce sempre parte delle storie che racconta, descrive, con una declinazione particolare dell’autofiction, l’altra faccia di un mondo che la tradizione e i luoghi comuni vogliono spensierato e allegro, tutto salame e lambrusco. Ma non lo fa col piglio moralistico della denuncia; la sua descrizione delle comunità rurali dell’appennino emiliano – qui come nei suoi altri libri – è sempre partecipata e umana anche quando racconta di miserie, non detti e tabù di cui è fatta la loro dura vita quotidiana. È una scrittura che, come si usa da quelle parti, si ferma sulla soglia delle case perché, se non invitati, non ci si entra. Ma capire cosa succede dentro quelle dimore stando sull’uscio apre esattamente lo spazio della letteratura, che si nutre tanto di quel che si vede quanto di quello che non si vede, ma si sa. È un’attenzione vòlta al mondo che Zamboni porta con una sorta di cortesia naturale verso i suoi soggetti, anche quando toccano vicende terribilmente personali come quelle raccontate in L’eco di uno sparo.

Ma Zamboni non ha solo un mondo di riferimento, ha anche uno stile. E non è cosa da poco (e curiosamente sottovalutata) in un panorama, come quello italiano, in cui si scrive quasi tutti allo stesso modo, con una medocritas più o meno aurea e più o meno di successo: per il quale, più che altro, contano le trame; e non è un caso il ribollire di polizieschi e di temi politically correct nelle classifiche dei best seller. Zamboni, dopo aver cercato nei primi libri una sua voce personale, l’ha ormai trovata dentro un fraseggiare che concede poco al romanzesco ma non per questo pecca in fluidità narrativa. La sua prosa (e qui consentitemi un paragone con certe atmosfere dei gruppi musicali di cui è stato fondatore) ha un che di ieratico e sacrale pur essendo lontanissima da un senso religioso. Anzi, per insistere nella comparazione, ha qualcosa di sovietico. Nel senso che assomiglia spesso a una sorta di referto tecnico (non a caso Zamboni è un appassionato ricercatore di archivi), ma non è mai priva di empatia. È come se il raffreddamento della scrittura fosse il mezzo – paradossale ma efficacissimo – per accedere all’umanità nascosta dei personaggi, che non si mostra quasi mai per dialoghi o monologhi psicorivelatori, ma per ragionamenti del narratore, descrizioni, ellissi, squarci sul contesto naturale. Strumento essenziale di questa pratica è una lingua lontana dal parlato, che accetta la sfida per cui la realtà non la si rappresenta come in uno specchio, ma attraverso la deformazione di una lente. Ecco così una passione per certi termini arcaici e per lemmi che è difficile ascoltare in una conversazione normale, anche se non sono mai ricercati o sofisticati: “discorrere” invece di “parlare”, “assillo” per “dubbio”, “forestieri” per “stranieri”. In particolare Pregate per ea è costruito sull’incrocio (e spesso sulla reciproca incomprensione) di vari linguaggi: quello essenziale dei contadini, l’ampollosità da verbale dell’indagine giudiziaria e del processo, la liturgia del parroco che nasconde, anche a sé stesso., l’incomprensibilità del male nell’incomprensibilità del latino.
Infine, se c’è una cifra dentro la quale inscrivere tutto questo, è sicuramente il topos della sconfitta. Apertamente citata in una delle sue canzoni più belle (Grazie sorella sconfitta), la sconfitta è il sentimento profondo che scorre sotto tutte le storie dei libri di Massimo Zamboni. Una sconfitta che, ovviamente, non è da intendere all’americana (“Nutro un sano pregiudizio antiamericano”, altra citazione musicale…), roba da losers per quanto beautiful: bensì come esperienza fondante dell’esistenza. Tanto da ringraziarla perché “mi hai dato gli occhi e i calli alle mani”.
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