Fotografie 1962-1967 - MonFest / Lisetta Carmi: viaggio in Israele e Palestina

1 Giugno 2022

Lisetta Carmi è da sempre presente negli strati più sotterranei delle coscienze che si nutrono di cultura fotografica: la si lega soprattutto al lavoro sui travestiti genovesi, o ai ritratti di Ezra Pound, ma ben poco ci si sofferma sul retroscena di questo personaggio storico. Definire Lisetta Carmi un "personaggio" non è un azzardo eccessivo: oltre che fotografa e prima ancora pianista di fama internazionale, la sua ricerca esistenziale, prima che fotografica, ha sempre trovato radici in una spinta furibonda che l’ha gettata per decenni fra le braccia di uomini e popoli interi per dar loro un volto e una parola, sebbene col muto mezzo fotografico.  

 

Tiberiade, Kibbutz Gonen, 1962-63.


A Casale Monferrato, in occasione di MonFest, la prima edizione di una nuova biennale di fotografia, viene reso un omaggio di particolare rilievo a questa fotografa. Se si legge di lei sui libri o sul web, ben poca attenzione viene dedicata alla serie di immagini proposte, che rappresentano il percorso di aggancio che Lisetta intraprese in Israele e in Palestina per addentrarsi nel senso delle proprie origini ebraiche. La Carmi scopre autonomamente la fotografia proprio in quegli anni, accompagnando il suo amico Leo Levi in Puglia, dove doveva registrare i canti della tradizione ebraica composti nella comunità di San Nicandro. Armata di solo nove rullini, porterà a casa ottimi risultati, gli stessi che le daranno la vera spinta a proseguire il proprio cammino cambiando radicalmente vita, passando dal successo derivatole dalla musica alla nuova totale incognita della fotografia.

 

Lisetta-Carmi-Gerusalemme-Il-muro-del-pianto-1967.


Il viaggio in Israele va quindi collocato in questa "terra di mezzo" tra l'abbandono della prima vita per abbracciare la seconda. In Israele si trovava infatti per una fortunata tournée di concerti e, cogliendo l'occasione di poter trovare un collegamento con la terra dei propri antenati, oltre a iscriversi a un corso per imparare la lingua, cerca, ritornando anche in anni successivi, di documentare la realtà del proprio popolo. 

 

La fotografia, in questo caso, per Lisetta ha avuto principalmente il ruolo di accompagnamento alla scoperta: mentre nei reportage fotogiornalistici, materia in cui diventerà poi maestra indiscussa, l'autore spesso parte conoscendo la realtà che andrà a trattare o perlomeno con un'idea abbastanza precisa di cosa andare a documentare, in questo caso Lisetta ha avuto il travolgimento della novità, dello spiazzamento totale di fronte a un terreno che, pur sapendo di farne idealmente parte, non conosceva ancora affatto. Ciò che è rimasto impressionato sulla pellicola è dunque questo momento di svelamento del proprio sconosciuto retroterra, e la confusione e la delusione che sono conseguite nell'apprenderne i conflitti e le atrocità. Come se avesse incontrato la propria madre biologica dopo anni vissuti coscientemente o meno da orfana, Lisetta trova un popolo-genitore diviso, contorto, problematico, difficile da conoscere a fondo e ancora di più da giustificare completamente.

 

Lisetta Carmi, Kfar Jassif, Donna araba aspetta l’autobus, 1967.


Dal 1962 al 1967, mentre Lisetta effettua il salto definitivo per approdare alla nuova riva della fotografia, iniziando a lavorare come fotografa di scena al teatro Duse di Genova, avviene anche l’incontro con Israele e la Palestina. Questo incontro sembra essere stato sempre relegato come nella zona del retropensiero e della retrovia rispetto al percorso fotografico della Carmi, tanto da lasciare queste immagini totalmente inedite e inesplorate fino ad ora. Possiamo così scoprire il primo sguardo di un maestro, racchiuso in mostra in appena trentacinque scatti: intraprendere come primo genere fotografico quello del reportage mette sicuramente in prima battuta il fotografo alla prova con la distanza. Prima ancora delle inquadrature, che sembrano tutt’altro che acerbe prime prove di un amatore, è interessante soffermarsi sul punto da cui lo sguardo parte per arrivare a colpire i soggetti.

 

Nel caso di Lisetta, l’occhio è indubbiamente ardito, vorace, non si mette in discussione prima di agire e guardare ciò che realmente cerca. La donna araba che aspetta l’autobus ne è esempio egregio: solo nel momento in cui si cerca di dare forma all’origine si può avere uno sguardo tanto lucido quanto, si potrebbe dire, volto alla mitologia. Così la postura stessa di una donna appoggiata a un muro diventa il significato di quella forma, e lo sguardo che regge con fierezza arcaica quello dell’obiettivo diventa foriero del senso dell’intera storia di un popolo. Gli occhi di chi guarda le immagini di Lisetta Carmi sono sempre ben indirizzati verso quanto ogni fotografia vuole esprimere, non c’è mai spazio per il dubbio: siamo lì con lei, siamo, per un momento, lei che guarda ciò che guardiamo. Apprendiamo ciò che è stato appreso saltando all’indietro i decenni senza alcuna fatica.

 

Gerusalemme, due giovani ebrei ortodossi in autobus, 1962-63.


Leggo su Le cinque vite di Lisetta Carmi di Giovanna Calvenzi che, intorno al 1960, quando sta diventando chiaro a Lisetta che la sua strada sarebbe stata quella della fotografia, il fratello Eugenio la manda a Berna nello studio di un fotografo per imparare meglio la tecnica. Di questo fotografo, un tal Kurt Blum, viene riportata una frase molto importante per la formazione visiva della Carmi. La frase che Blum le disse è questa: “Quando fai un ritratto, controlla sempre lo sfondo perché se c’è un palo dietro la testa del tuo soggetto hai rovinato la foto. Prima di concentrarti su quello che vuoi fare, guarda sempre cosa c’è dietro.” Ed è chiaro, guardando le immagini dei viaggi in Israele e in Palestina, quanto queste parole abbiano segnato lo sguardo di Lisetta. In Beersheba, Campo di beduini, 1962-1963 o in Tiberiade, Kibbutz Gonen, 1962-1963, è di una lucidità lampante la messa in pratica dell’insegnamento, e si percepisce chiaramente la volontà di sottolineare il dialogo diretto tra il soggetto con quanto si trova dietro le sue spalle.

 

Il senso di questo tipo di inquadratura è di forte efficacia narrativa, in quanto si riesce in un solo colpo d’occhio a creare un collegamento col retroscena materiale e ideale in cui il soggetto vive e si muove. Si può dire che il monito di Blum sia stato trasformato da Lisetta in un espediente comunicativo del tutto personale, trasformando l’attenzione a non provocare difetti di inquadratura in un surplus narrativo, rendendo il soggetto delle proprie immagini addirittura duplice. Lo sfondo ha, infatti, carattere proprio nelle immagini della Carmi, così come ovviamente la persona immortalata. Così il protagonista diventa il dialogo stesso tra i due, reso vivo dall’oscillazione visiva costante che fa scivolare l’occhio di chi guarda su ciò che sta dietro per giustificare ciò che sta davanti, e viceversa. Oltre alla viva tensione che provoca un simile, già maturissimo, espediente, l’altro effetto su cui ci si può soffermare è la quantità di tempo maggiore che richiedono immagini così impostate a chi le guarda.

 

Gerusalemme, immigrato da Sannicandro, 1962-63.


Racchiudendo così lucidamente un filo di connessione tra soggetto e contesto, l’effetto è quasi cinematografico, producendo nella testa dell’osservatore come un movimento di camera di volta in volta diverso, per arrivare alla fotografia finale. Il tempo da dedicare, così, automaticamente si distende fino alla coerenza temporale col momento catturato. Si è portati a vivere, cioè, il medesimo tempo della scena ritratta. Anche lo spazio, si potrebbe dire, subisce allo stesso modo una dilatazione: mettendo il soggetto nella porzione inferiore e a ridosso col bordo del frame, il resto dell’inquadratura è occupato dallo spazio circostante. Lo sguardo viene quindi slanciato e portato a vagare sopra la testa e dietro le spalle del soggetto, fino quasi a oltrepassare il margine e far continuare idealmente il paesaggio oltre quel limite fisico. Questo succede anche in Kalkilia, Campo profughi, 1967, in cui si vede un uomo in primo piano sfocato col velo del copricapo leggermente sollevato, dettaglio che suggerisce un movimento: l’occhio sarà portato a ricostruire quel movimento facendolo partire fuori dall’inquadratura per farlo continuare fino al secondo soggetto della fotografia, ovvero il muro sullo sfondo semidistrutto e annerito.

 

La lettura, orizzontale, è quindi accompagnata e suggerita dal movimento solo ideale dell’uomo, primo soggetto dell’immagine, per approdare poi al secondo elemento del dialogo, il muro bruciato. La raffinatezza di visione che già appare perfettamente strutturata nel lavoro presentato al MonFest getta una luce importante sui primi passi – o le prime grandi falcate – che ha compiuto istintivamente un maestro della fotografia totalmente autodidatta. Il felice approdo a riva delle immagini raccolte in Israele e in Palestina dalla Carmi dopo decenni di totale oblio è contemporaneamente un tassello che si aggiunge per ricomporre il mosaico della storia dell’autrice genovese e quello della storia della fotografia documentaristica. 

“La fotografia è per me un alto mezzo di conoscenza di noi stessi e del mondo che ci circonda.” – prendo sempre in prestito qualche stralcio dal libro della Calvenzi – “La poesia e la forza di una grande fotografia stanno proprio in questo: la sensibilità del fotografo ha interpretato la realtà senza deformarla, senza proiezioni, ha colto la sua essenza e le ha dato una forma attraverso cui si realizzano i suoi desideri, il suo mondo interiore.”

 

Beersheba, Campo di beduini, 1962-63.


Per Lisetta Carmi è la realtà a dover parlare per prima, a imporsi allo sguardo senza dover essere stravolta dal fotografo, e questo è un concetto che aveva ben presente fin dalle prime mosse che fece in questo campo. È una grande ammissione di umiltà che descrive, nella sua limpidezza, l’essenza forse universale della pratica fotografica: il fotografo infatti non può – e, secondo la Carmi, non deve – creare nulla, né inventare niente. Il fotografo non può porsi nelle vesti del dio creatore, può solamente fare un passo indietro e cercare di cogliere qualcosa che già esiste ed è a disposizione di tutti per restituirlo a modo proprio alla stessa umanità di cui già fa parte. In definitiva, Lisetta Carmi insegna che la conoscenza è mossa da una visione profondamente limpida, e che il vero fine e miracolo dello sguardo è a volte semplicemente guardare.

 

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