Dress Code 20. Guardaroba favoloso: da Mary Poppins a Pippi Calzelunghe

27 Dicembre 2025

A noi figlie tocca molto spesso l’ingrato compito di mettere ordine nella vita dei genitori, soprattutto dopo la loro dipartita. Per questo apprezzo molto una mia amica che sta sistemando le sue cose anzitempo, per non lasciare ai figli questo fardello. Quando ho rassettato il bazaar da accumulatore seriale che era casa di mio padre, per un momento ho sperato che si materializzasse Mary Poppins e mi cantasse A Spoonful of Sugar, mostrandomi il lato luminoso dell’immane fatica, in modo da renderla “più semplice e serena”.

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Poppins trasforma la noia del mettere in ordine la stanza di Jane e Michael in un’esperienza sorprendente, realizzata con uno schiocco di dita. La conclusione del compito è marcata da un cambio d’abito: il grembiule da lavoro lascia il posto all’ombrello magico, alla giacca e al cappello, indossati con una gestualità compiaciuta davanti allo specchio. La scena del film Disney non ha solo scopi pedagogici legati alle gioie del fare, ma educa anche al rispetto degli oggetti che, sebbene inanimati e “vestiti in altro modo” – come puntualizza Gianfranco Marrone in Semiotica del gusto (Mimesis 2016) a proposito dell’animismo – “hanno un’apparenza diversa dalla nostra, ma fanno parte della società allo stesso modo degli umani”.

La maniera in cui trattiamo giocattoli e vestiti riflette la nostra propensione alla cura, la consapevolezza del valore di ogni entità, e modella uno stato ideale dell’essere-al-mondo. Poppins ne è l’incarnazione ideale in quanto “praticamente perfetta sotto ogni aspetto”, soprattutto nel suo look che, come spiega Marcella Terrusi in Il guardaroba favoloso. Moda e costume nella letteratura per l’infanzia (Carocci, 2025), rimanda a un dandysmo garbato, a prova di infante, espresso nello stile di abbigliamento e poetico-esistenziale. La perfezione, qui, non è omologazione ma distinzione: Poppins è “insanabilmente e profondamente diversa da tutti, e uguale solamente all’inimitabile lei stessa”. Nel romanzo, guardandosi allo specchio, pensa di “non aver mai visto nessuno che facesse una figura tanto elegante e distinta”.

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In Psicologia dell’ornamento (1908), Simmel osserva che il superfluo, con la sua capacità di debordare (fluit super), irradia la persona nello spazio circostante, oltrepassa i confini del corpo per poi proiettare all’esterno caratteristiche intrinseche altrimenti invisibili. Gli ornamenti del cappello della Poppins filmica escono dai bordi della falda, così come i guanti della Poppins letteraria tracimano in un orlo di pelliccia. Entrambi fungono da valsente, che – come ricorda Paolo Fabbri in “Sugli oggetti: bastoni, cappelli, penne” (in Biglietti d’invito, a cura di G. Marrone, Bompiani 22021) – non è “solo un tropo”, ma una figura privilegiata per esprimere “quel che vale il valore di un soggetto”: il suo essere sopra le righe, la sua posizione di superiorità simbolica, qui motivata dalla natura magica.

Avrei davvero voluto imparare a rassettare con uno schiocco di dita durante le mie giornate passate al bazaar paterno. Invece la mia archeologia famigliare mi ha restituito tutti – e non è un’iperbole – i vestiti della mia infanzia, dalla nascita ai dodici anni. Quegli indumenti mi hanno punta con forza, come metafora del tempo trascorso, riattivando memorie sepolte ed emozioni non sempre euforiche. Diciamo che il ricordo dello stile impostomi non è dei più felici, e forse è anche all’origine di questa rubrica, ça va sans dire.

Mia madre voleva per forza vestirmi da “Piccola Lady”, come se l’eleganza fosse esclusivamente di matrice britannica. Insegnava inglese e probabilmente la sua era deformazione professionale. La costrizione all’abito estetico si rintraccia – come nota Terrusi, citando Il linguaggio dei vestiti di Alison Lurie – nel completo alla Lord Fauntleroy, il Piccolo Lord di Burnett, che incarna il ruolo tematico del bambino pavido e piagnucoloso: l’antitesi di ciò che si vorrebbe essere durante l’infanzia.

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Tra i capi da bambina “favolosa”, due, più di tutti, hanno riattivato i miei ricordi come madeleine proustiane. Entrambi cuciti su misura, con maniche a sbuffo e corpetto a nido d’ape ricamato dalla signora Olga di Sorrento; la stoffa scelta dopo ore di estenuanti ricerche da Caccioppoli a Napoli. Uno era di taffetà a quadri – fondo grigio con quadri blu e rosa – l’altro pesante, forse di lana, verde bottiglia. In comune hanno un colletto baby, o alla Peter Pan. Li odiavo, mi sembravano anacronistici a dir poco. Perché mai avrei dovuto indossare un colletto alla Peter Pan nel 1992? Erano gli anni del grunge. Forse la mia predilezione per il taffetà a quadri era un omaggio inconscio a Kurt Cobain, da cui non mi sono mai davvero separata.

Terrusi ricorda che Peter Pan, nel romanzo e nelle prime illustrazioni, non indossa affatto quel colletto: è vestito di foglie e linfa, poi trasformate nel completo verde della versione Disney. Il colletto nasce invece dalla trasposizione teatrale del 1905 con Maude Adams, il cui costume prevedeva un colletto piatto dai bordi morbidi e curvi, probabilmente influenzato dal successo di Claudine a scuola di Colette.

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Un colletto che avrei preferito di gran lunga era quello alla marinara, complice la mia fascinazione per Sailor Moon di Naoko Takeuchi, manga giapponese, poi anche anime, in cui si racconta la formazione umana e sentimentale di adolescenti che si trasformano in guerriere in minigonna, accomunate da un fiocco sul petto e poteri magici legati ai rispettivi pianeti protettori. In buona sostanza il completo alla marinara delle guerriere sailor – nomen omen – è un esempio di come lo spirito combattivo possa affermarsi senza indossare un’armatura o entrare in un robottone. La marinaretta è, per usare le parole di Constance Lloyd Wilde, un indumento “sensibile”, una protesi del corpo che coniuga distinzione sociale, eleganza e libertà di movimento. Diffusa dal Settecento fino alla metà del Novecento, restituisce – come nota Wilde – facoltà propriocettive a bambini e bambine, finalmente liberi di muoversi senza patire freddo o costrizioni imposte da mire estetiche di madri megalomani.

La borghesia, del resto, è da sempre affascinata dagli stilemi fiabeschi, perché nei personaggi finzionali intravede una perfezione a cui aspirare. Terrusi ricorda come la letteratura per l’infanzia abbia influenzato la storia del costume attraverso la creazione di icone di stile ispirate a figure immaginarie. È lo stesso meccanismo che porta tante bambine, a Carnevale o nelle occasioni “importanti”, a dover essere per forza principesse: il non plus ultra dell’incantesimo patriarcale dei dispositivi di genere – direbbe de Lauretis – che educano a definirsi sempre in relazione a un uomo, come figlie di o mogli di, insinuando l’idea di non bastare a sé stesse.

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Le principesse Disney trovano sistematicamente la loro realizzazione sociale congiungendosi all’uomo come oggetto di valore. È un modello interiorizzato, che spinge a dubitare di sé e a normalizzare comportamenti tossici. Ma la tossicità è a doppio binario: la prima a essere tossica per sé stessa è spesso la donna, convinta di dover rispettare tappe e scadenze in nome di Dio, della Patria da ri-popolare e della famiglia, che durante i pranzi festivi sa essere particolarmente persuasiva. È come iniettarsi veleno a piccole dosi, per poi esaltarsi indossando un diadema a quarant’anni, perché restiamo sempre le principessine di mamma e papà.

Io, piuttosto, mi immedesimavo in Gian Burrasca, frustrata dal vestito “della domenica” da non sporcare. Lo stesso Rousseau auspicava un abbigliamento infantile che garantisse libertà di movimento, per evitare costrizioni destinate a trasformarsi in storture morali e fisiche. Portando la confortevolezza alla sua misura limite, arriviamo a un’altra pratica che mi ha sempre fatto vergognare, cioè i vestiti comprati “per durare”. Risultato: ho ancora due cappotti acquistati alle elementari che indosso tutt’oggi.

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Nella letteratura per l’infanzia Pippi Calzelunghe porta scarpe lunghe il doppio dei suoi piedi, comprate dal padre in Sud America affinché potessero accompagnarla nella crescita.

Pippi non aspetta di diventare “della misura giusta”, bensì trova la sua dimensione nell’eccesso, abitando il fuori scala. E forse è anche per questo che non diventa una principessa e acquisisce una capacità rara e poco incoraggiata, soprattutto nelle bambine: non chiedere il permesso di occupare spazio. Andrebbe ricordato più spesso ai genitori e alle istituzioni che l’educazione – sentimentale, letteraria, vestimentaria – non è addestramento.

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