Kosovo, l’officina della disobbedienza
Arrivare nelle città di Pristina, Prizren e Gjakova in occasione del Kosovo Theatre Showcase 2025 significa entrare in un’Europa che smette di riflettersi nei vetri opachi delle dichiarazioni ufficiali e si lascia finalmente vedere senza filtri. Non l’Europa dei summit, dei comunicati congiunti, delle parole ben temperate. Ma quella reale, affaticata, contraddittoria, ripiegata su sé stessa, percorsa da confini che si spostano, da diritti intermittenti, da migrazioni forzate, da promesse istituzionali di integrazione e di inclusione, che troppo spesso funzionano come raffinati dispositivi di esclusione.
In questo paesaggio instabile, il Kosovo Theatre Showcase 2025 (28 ottobre / 1 novembre), ideato e organizzato da Qendra Multimedia, sotto la guida del drammaturgo Jeton Neziraj, si impone come un avamposto poetico, un atto quotidiano di resistenza e disobbedienza. Un gesto che tiene insieme memoria e futuro. Una soglia di possibilità. Un campo di tensione, dove la scena non è territorio neutro ma impellenza vitale. La parola cessa di essere rappresentazione, si fa carne. Il teatro non racconta semplicemente il mondo, lo sfida, lo espone, lo mette a nudo. Non si assiste agli spettacoli, li si attraversa come luoghi di verifica, di collisioni improvvise, di fratture non rimarginate, di domande che bruciano sottopelle. Ogni lavoro obbliga a mettere in discussione categorie consolidate. Analizza il rapporto tra individuo e collettività, storia locale e responsabilità sovranazionale, centro e periferia, normalità e eccezione, stabilità e vulnerabilità, desiderio di appartenenza e necessità di diserzione.
Qendra Multimedia, progetto culturale come presa di posizione, è da anni uno dei presidi più incisivi, giovani e radicali del panorama europeo, non solo per la qualità artistica delle sue produzioni, ma per la limpidezza della sua postura politica. Nato come spazio indipendente di creazione, è molto più di una compagnia teatrale: è innanzitutto una casa del pensiero critico che rifiuta la mimesi rassicurante. Un laboratorio permanente in cui teatro, letteratura, performance, cinema, musica e attivismo civile si contaminano senza cedere all’effetto pirotecnico. In un contesto segnato da traumi collettivi, nazionalismi irrisolti e equilibri precari, Qendra ha scelto di non pacificare lo sguardo, assumendo il conflitto, e non la sua addomesticazione, come metodo di conoscenza. Jeton Neziraj, autore internazionale di riferimento, elabora una drammaturgia che non consola. Una scrittura che lavora per frizione. Disturba. Non teme di mostrarsi, di rischiare, di essere impopolare. Ciascun elemento è ridotto all’essenza, spesso povero, come se il bisogno del dire non tollerasse orpelli. Respingendo ogni omologazione, opponendosi a qualsiasi uniformità di linguaggi e ideologie, la scena diventa un impianto per incrinare le narrazioni egemoni, per smascherare le ipocrisie del potere: è ironica, tagliente, brutalmente lucida. Informata sul piano storico, refrattaria a un universalismo astratto, rivendica una precisione chirurgica, situata, perché solo parlando da un luogo specifico circoscritto è possibile toccare questioni che riguardano tutti, provocare risonanze profonde anche in chi arriva da lontano, dare avvio a un confronto concreto. Scegliendo la dissonanza, non fornisce soluzioni, rendendo manifeste le contraddizioni; abitando la differenza, non genera miti identitari, destabilizzandoli e scardinandoli sistematicamente.
In un momento storico in cui molte rassegne rischiano di trasformarsi e ridursi a mercati, il Kosovo Theatre Showcase difende ostinatamente la dimensione dell’incontro. Una traiettoria mobile offre – alla nutrita comunità internazionale di operatori, critici e artisti – la possibilità di creare connessioni autentiche, gettando ponti per costruire alleanze non opportunistiche, instaurare relazioni di complicità e scambio creativo. Al centro di questa apertura geografica si colloca un intenso laboratorio di drammaturgia condotto da Mark Ravenhill, figura cardine della scena teatrale britannica contemporanea, che ha plasmato intere generazioni di teatranti e la cui voce – con la sua irriverente ironia, la sua intensità drammatico-visionaria, capaci di interrogare l’Oggi – continua a risuonare forte e originale. Il cuore emotivo dell’esperienza affonda in un luogo apparentemente immobile, a Prizren, in un’abitazione rimasta sospesa nel tempo, trasformata in spazio museale e memoriale: la casa di Ferdonje Qerkëzi. Nulla è stato spostato, nulla attenuato. Ogni oggetto occupa ancora il posto che aveva quando, il 27 marzo 1999, uomini armati appartenenti a milizie paramilitari serbe irruppero portando via suo marito e i suoi quattro figli, di cui non si è mai più avuta notizia. I resti di alcuni di loro risultano tuttora irreperibili. La ricostruzione nuda di Ferdonje, ormai privata delle lacrime che l’avevano nutrita, non passa esclusivamente dalle parole. Emerge, prende vita, muta e immediata, anche dalla materia stessa degli ambienti, colpendo con violenza sensoriale chi ci transita, facendo affiorare un silenzio collettivo carico di immagini, odori, affetti interrotti: utensili d’uso corrente, suppellettili domestiche, giocattoli abbandonati, fotografie private, vestiti informali e abiti da cerimonia, scarpe di ogni taglia in attesa, tutti avvolti in un sottile strato di cellophane, come se fossero conservati sottovuoto, preservati, immuni al passare degli anni. Una casa incarnata della perdita, delle memorie lacerate, che restituisce senza mediazioni la storia di brutalità, stragi e sopraffazioni che hanno segnato il Kosovo.
La programmazione del Kosovo Theatre Showcase 2025 articola un discorso coerente che non si attiene a criteri di varietà stilistica come valore in sé, né si riduce a rendere pubblici modelli o prodotti finiti, destinati solo alla circuitazione internazionale. Non propone una vetrina nel senso tranquillizzante del termine o una mappatura ricognitiva della scena teatrale kosovara. Non si piega alle mode, non cerca di adattarsi ai gusti predominanti, di piacere a tutti i costi per essere “programmabile” e “esportabile”. Non c’è pedagogia, né una morale finale. Nessuna risposta univoca. Non indulge nel vittimismo o nella retorica postbellica. Al contrario, presenta processi, urgenze, ferite aperte, forzando lo spettatore a prendere posizione, a uscire dall’ambiguità, a dichiararsi. Il Kosovo che emerge dallo Showcase non chiede compassione né legittimazione. Reclama attenzione, ascolto. Gli spettacoli dialogano tra loro, componendo insieme una drammaturgia affilata, potente. Il teatro diventa così strumento di lettura del Presente europeo, trasformando il ‘margine’ in punto di osservazione privilegiato, in cui il Kosovo non appare come caso isolato, ma lente attraverso cui leggere le dinamiche strutturali dell’Occidente con le sue periferie, i suoi fantasmi, le sue zone d’ombra.
Ciò che colpisce negli spettacoli visti è la centralità del corpo. Mai decorativo. Mai anonimo. Un corpo attraversato dalla Storia, dal genere, dalla lingua, dalla violenza. Il corpo dell’attore/performer è archivio vivente, porta impressi su di sé le tracce della guerra, dell’esilio, della marginalizzazione. In InHuman (drammaturgia Shpetim Selmani / Jeton Neziraj, regia Zoltán Balázs, produzione Bekim Fehmiu City Theatre di Pristina, Maladype Theatre di Budapest e Mettrin Arts Center di Bánk), la questione non è tanto cosa sia l’inumano, quanto come venga normalizzato. La scena è essenziale, quasi spoglia. Ogni parola pesa. L’inumano non arriva come evento straordinario. Si deposita come accumulo di piccoli atti, di linguaggi amministrativi, di procedure in apparenza neutrali. Il riferimento al contesto kosovaro è evidente. Non esclusivo. Lo spettacolo parla all’Europa, alle sue politiche di gestione dei corpi, dei confini, delle vite considerate sacrificabili. È un teatro che non denuncia dall’esterno, ma dall’interno del sistema di valori che dice di voler difendere. Con #The border (drammaturgia Ana Ristoska Trpenoska, regia Sovran Nrecaj, produzione ODA Theatre di Pristina), il confine smette di essere una linea astratta, diventa esperienza concreta. Il titolo, con il suo hashtag, richiama il linguaggio dei media e dei social network. Lo spettacolo lavora contro la semplificazione. Il confine è mostrato come coreografia del potere fatta di controlli, di dilazioni che incidono direttamente sui corpi. Lo spettatore non può restare impassibile. È chiamato a confrontarsi con il proprio posizionamento, il proprio passaporto, il proprio diritto al movimento. Il Kosovo si configura come uno specchio impietoso delle politiche europee di esclusione selettiva. Under the shade of a tree, I sat and wept (drammaturgia Jeton Neziraj, regia Blerta Neziraj, produzione The Market Theatre di Johannesburg, Théâtre de la Ville di Parigi, São Luiz Teatro Municipal di Lisbona, Teatro della Pergola di Firenze, Mittelfest di Cividale, Theater di Dortmund, Black Box Teater di Oslo) amplia la dimensione individuale fino a farne allegoria urbana. Il dispositivo scenico lavora per sottrazione. Il tempo rallenta, la parola è trattenuta. È un teatro che si muove sul crinale tra intimità e politica, dove il dolore individuale non viene mai isolato dalla sua cornice storica. Sedersi e piangere, in questo contesto, non è un gesto privato, ma una forma di resistenza silenziosa contro l’obbligo di superare, archiviare, dimenticare. The son (drammaturgia Florian Zeller, regia Erson Zymberi, produzione Anamour Independent Cultural Organisation) introduce una prospettiva psicologica, portando in scena il conflitto familiare e il peso della fragilità emotiva, rivelando come il privato si intrecci con le tensioni sociali e culturali del Kosovo, contribuendo a una lettura più ampia dei traumi individuali e collettivi. Prishtina. The premeditated killing of a dream (drammaturgia Jeton Neziraj, regia Blerta Neziraj, produzione Qendra Multimedia) mette al centro la città come organismo politico. Non una capitale giovane e dinamica, come spesso viene raccontata, ma un luogo attraversato da sogni deliberatamente interrotti. Il “sogno” del titolo non è una metafora generica. È il progetto di una cittadinanza piena, di una sovranità non subordinata, di un’appartenenza europea non condizionata. La drammaturgia alterna sarcasmo e disincanto, evitando ogni nostalgia. Il teatro non si limita a raccontare una delusione storica, ma i meccanismi che la producono: le attese infinite, i processi di integrazione sempre rimandati, le gerarchie invisibili, le frustrazioni che strutturano il Paese.
Forse è questo che il Kosovo Theatre Showcase ci ricorda con una forza che non concede scampo: che il teatro non esiste per pacificare il mondo né per anestetizzare il reale dentro forme riconcilianti. Esiste per non mentire sul dolore. Sulle asimmetrie del potere. Sulla violenza normalizzata. Su ciò che continuiamo a chiamare “altrove” per non assumerne il peso. Non propone rimedi, non disegna vie di fuga. Lancia interrogativi che l’Europa seguita caparbiamente a eludere, sospendendo, procrastinando responsabilità.
Il Kosovo non è da osservare con curiosità esotica. È un punto da cui guardare meglio ciò che siamo diventati e che preferiremmo non vedere.
Qui il Teatro non salva.
Non redime.
Non assolve.
Ma resta.
E nel restare – ostinatamente, politicamente, poeticamente – resiste.
L’ultima fotografia ritrae un momento dello spettacolo #The border, drammaturgia Ana Ristoska Trpenoska, regia Sovran Nrecaj, ph. Etnik Ndrecaj.