Pinocchio di Antonio Latella / Di Geppetto, e di altri padri bugiardi

26 Gennaio 2017

Meglio guardarsi dai padri. Dalle loro ambizioni, dalle loro aspettative, e persino dal loro amore.

La galleria di figure genitoriali che popola gli spettacoli di Antonio Latella è a dir poco inquietante: a cominciare dall’incestuoso Agamennone (in Santa Estasi, di recente proclamato miglior spettacolo 2016 dal Premio Ubu), per proseguire con l’insinuante e distruttivo Luca Cupiello (nel bellissimo Natale che ha replicato da poco al Carignano di Torino), fino al Geppetto comparso sul palco del Piccolo Teatro di Milano per il debutto di Pinocchio.

 

Ph Brunella Giolivo.

 

Tutti – siano essi eroi del mito, personaggi di una favola, o ordinari capifamiglia – danno mostra di un clamoroso fallimento della paternità, e delle sue funzioni affettive ed educative. Collodi sembra aver condiviso la medesima riflessione, se è vero che nella sua favola compare un nucleo famigliare incredibilmente disgregato e quasi del tutto assente: Pinocchio, privo di madre e alle prese con una presenza maschile poco autorevole, si muove solo nel mondo e apprende l’indispensabile da figure transitorie e incontrate per caso. Ma il Geppetto dai toni farseschi e patetici che ricordiamo (per chi voglia ripassare, è disponibile online la splendida audio-lettura di Paolo Poli), si trasfigura e traligna nella immaginifica ma cupa lettura registica di Antonio Latella. Nella prima parte lo spettatore si trova di fronte una figura ansiosa, soffocante, goffa nella sua inadeguatezza (bravissimo, come sempre e anche di più, Massimiliano Speziani); nella seconda parte si squarcia dolorosamente il velo, e riconosciamo d’improvviso un genitore egocentrato e incapace di prendersi cura dell’altro da sé. Latella (che ha costruito la drammaturgia con il rodato team composto da Federico Bellini e Linda Dalisi) poggia saldamente la sua interpretazione sulla cornice narrativa offerta dallo stesso Collodi: Geppetto, a ben vedere, costruisce il suo burattino per motivi utilitaristici, con il solo scopo di girare il mondo e ottenere “un bicchier di vino e un tozzo di pane”.

 

Ph Brunella Giolivo.

 

In questo quadro poco rassicurante per la formazione di una personalità, non stupisce allora scoprire un Pinocchio più che mai impaziente, spavaldo, volubile, quasi fosse un archetipo dell’adolescente problematico. Christian La Rosa (anche Oreste di Santa Estasi, cioè il figlio per eccellenza della storia del teatro occidentale) dà vita a un personaggio nervoso e sopra le righe, così energico e incline alle urla da essere disturbante, iper-cinetico come il protagonista di Mommy di Xavier Dolan. Il suo corpo deborda, non si contiene, non ha ancora trovato i suoi limiti o non ha ancora imparato a governarli: lo imparerà attraverso il dolore, come accade in ogni tragedia e in ogni fiaba che si voglia leggere a fondo.

Pur evidenziando le linee di tensione che dal nucleo famigliare originario si irradiano nella mente di Pinocchio in crescita, Latella non offre una mera psicologizzazione analitica dell’opera di Collodi: piuttosto mostra quei potenti campi di forza, li distanzia, li restituisce allo spettatore in forma drammatizzata. Questa attitudine al ‘portare fuori’ – che si può ritrovare, quasi come un marchio, in tutta la produzione latelliana – trova nella favola un terreno particolarmente adatto, densa com’è di metafore e di correlativi oggettivi. Vittorio Spinazzola, nel suo importante Pinocchio&co (edito da Saggiatore nel 1997), mette in luce come “l’esame di coscienza drammatizzato” sia elemento tipico della narrativa per ragazzi e come Collodi riesca a metaforizzare – con la doppia natura umana e burattinesca – le spinte contrastanti presenti nell’animo di un giovane in crescita.

 

Latella porta ancora più avanti il processo di smontaggio e decostruzione della personalità del protagonista, assorbendo nella sua cornice psichica molti personaggi secondari della vicenda. Il Grillo (che, con le sue antenne, sembra uscito da un film di Cronenberg) è un petulante fantasma interiore e persino Lucignolo, alter-ego deviante, è una voce invisibile che scaturisce direttamente dalla natura lignea del burattino. E ancora: chiocciole, galline, tonni e altri buffi animali collodiani diventano diafane comparizioni oniriche (incarnate da Marta Pizzigallo), la metamorfica Fatina sembra dare un volto al bisogno inconscio di una figura femminile, mentre Geppetto stesso resta costantemente sulla scena, assistendo alle prove di vita del figlio come uno spettatore partecipe. 

 

Ph Brunella Giolivo.

 

Si ha la sensazione, in definitiva, che l’intero palco non sia altro che la rappresentazione della mente del protagonista nel quale lo spettatore si trova suo malgrado fagocitato. È dunque dilatato e debordante, questo Pinocchio, come il mondo interiore di un adolescente: e non pochi spettatori lasciano la sala, durante il primo tempo, quasi desiderassero mettersi in salvo. Del resto tutto fornisce, Antonio Latella, tranne intrattenimento e consolazione. Di riflessioni sul teatro, di giochi a carte scoperte sui suoi mezzi e sul suo ruolo, ce n’è invece tante da smarrirsi, come sulla strada per il Paese dei Balocchi: dalla comparsa di Arlecchino nel teatro di burattini (qui il lusso di un’auto-citazione registica), alla bellissima tirata di Speziani sull’illusorietà dell’idea di personaggio, fino alla continua riflessione su realtà e finzione che costituisce il fil rouge dell’intero spettacolo. Un lungo naso bugiardo ricopre non a caso l’intero palcoscenico: come a domandarci cosa significhi, pronunciata lì sopra, la parola verità

 

Al Piccolo di Milano, teatro Strehler, fino al 12 febbraio.

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